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Giuditta Solito: L´abito non fa la monaca (e nemmeno il tatuaggio)

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

16
MAR
2012

 

Stylist, fotografa, ma soprattutto pittrice. Ama scrutare, scavare sotto l’ovvio e l’impassibilità di alcune espressioni, per poter conferire significato, sentimento e vita. La sua parola d’ordine è: provocare!
 
L’ho conosciuta tempo fa, una sera per una mostra nel centro storico di Taranto, e ho notato subito la sua provocazione e la sua volontà di trasmettere ciò che c’è oltre il vestito, l’immagine o l’etichetta. Giuditta si rivolge essenzialmente a chi è informale, elegante ma non conforme ai dettami massificati dello stile. Il suo pubblico non si ferma solo alla maestria con cui stende il colore, utilizza la prospettiva e il chiaroscuro. Immancabilmente fa proprio ciò che vede, oltre  il messaggio forte, nascosto dietro la trama artistica. Dice del suo lavoro: «tutto è cominciato da un volto di una delle tante modelle che trovi in giro per Milano... Volti bellissimi ma inespressivi che non lasciano trasparire alcuna emozione. Nella mia pittura, moda, fotografia e pubblicità fungono da protagoniste. Dettano regole, creano ossessioni, muovono risorse finanziarie pari al PIL di interi paesi, influenzano consumi ma anche pensieri e filosofie, modificando il corso della storia. Per questa ragione ho deciso di veicolare i miei messaggi attraverso la replica su tela dei loro stessi veicoli mediatici: riviste, cartelloni, programmi tv.»
Come è nata in te questa vena artistica e sotto quali stimoli?
«Non l’ho avvertito in  un momento particolare, penso che a ogni modo tutti possano esprimersi, io lo faccio dipingendo ed è sicuramente la mia natura. Una decina di anni fa ho iniziato a pensare che la pittura  potesse essere anche un lavoro, quindi ho cominciato a curare le pubbliche relazioni e pubblicizzare le mie realizzazioni, iniziando dal mondo della moda, verso i 14-15 anni. Ho disegnato scarpe per un bel po’, poi mi ha colpito molto la pittura a olio: con la polaroid catturavo l’immagine e  trasportavo su tela, dedicandomi al ritratto, alle modelle. La mia tecnica restava comunque accademica, un po’ statica, fino al punto in cui mi sono accorta che mi mancava sporcarmi di pittura; arrivata a Milano ho iniziato a proporre le mie opere e ho visto che c’era interesse, per cui ho esposto le mie prime tele. Dal volto, mi sono spostata su varie etnie: a Londra ho allestito  una mostra che ironizzava il burka, che si chiama “burka scic” e mi piaceva l’idea di giocare su alcune caratteristiche. Da lì c’è stato un vero e proprio studio sul volto, l’hanno scorso, per un’intera stagione, ho curato una serie di quadri sulle bocche.»
Perché la bocca?
«Apparentemente la bocca è sensuale, ma non è questo che mi interessava trasmettere, volevo dare a ognuna il suo significato: c’è la bocca golosa, la bocca stridente, quella arrabbiata. Pur essendo molto decorativa come tela, all’interno di un arredamento si intende, ognuna di esse esprime un’emozione, un carattere.»
Quest’anno invece?
«Adesso sto preparando una mostra sui tatuaggi: personaggi famosi, storici o attuali, tatuati. Topolino o Hitler  per esempio. Durante il mio lavoro, ho visto Hitler come un “emo” moderno, e gli ho tatuato dei dolci, perché  era golosissimo; si pensa che fosse anche diabetico. Mi piace giocare con i contrasti, come in questo caso, tra il dolce e il male.»
Cosa vuoi esprimere quando dipingi?
«Il bello della pittura è che si può dare un significato, che arriva all’altro, quando prova un’emozione diversa da quella che l’artista vuol trasmettere. Se poi si riesce a lanciare  una provocazione, vuol dire che si è superato un altro step. A Milano ho fatto delle copertine, in cui c’era la suora tatuata: la gente non vuole vedere queste cose, capisce l’ironia, ma la lascia lì, e nel momento in cui deve acquistare si rifiuta, non compra la provocazione ma compra quello che fa arredamento, come le bocche. Io  mi riconosco di più nella provocazione, ma per ora, almeno in Italia deve rimanere tale; le tele del book in Italia non le ho potute esporre, perché nessuno le accettava, a Londra invece le ho vendute tutte.»
Hai mai provato a spostarti su altri soggetti, diversi dai volti e dalle persone?
«Ho provato con i paesaggi metropolitani, ma non mi appartengono; trovo il volto un’espressione fantastica, forse ciò è legato al fatto che avrei voluto essere una fotografa, perché mi piace l’idea dell’attimo che coglie la fotografia. Lavoro molto con la polaroid, cerco di cogliere un viso interessante, lo fotografo e poi lo dipingo, fa parte del passaggio.»
Quanto c’è di te nelle tue tele?
«C’è sempre di me nei miei lavori. E’ un prodotto emozionale, che si ricava anche dal semplice tratto: se sono nervosa il tratto è a scatto nervoso, riuscendo a percepire la mia giornata, il mio periodo nero o roseo. E’ anche un lavoro di psicologia, sono lì di fronte al mio quadro, con la fotografia e la musica; sono tutte cose che caratterizzano la mia persona, se è un momento buio  dipingo in tal maniera e ascolto un certo tipo di musica.»
Come ti collochi nella mostra qui a Taranto,  “I Fili di Ersilia”?
«Ho conosciuto Villani, il curatore della mostra, tramite altri curatori; lui è un architetto che si occupa di arte, cura varie gallerie anche a Milano e in altre parti d’Italia. Mi ha coinvolto l’entusiasmo di Angelo Villani, che oltre me ha unito diversi artisti tarantini che vivono fuori per diverse ragioni. I Fili di Ersilia, perché si collega alle città invisibili di Calvino, costituite da ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma. La mostra è riuscita bene nel suo intento e spero che dia risalto a tutte le opere, ognuna di genere diverso, dalla pittura, alla fotografia al fumetto, nonché al lavoro che c’è dietro ognuna di esse. Spesso si confonde l’arte con una semplice passione, non prendendo mai in considerazione la possibilità che “fare Arte” possa essere un lavoro come gli altri, una professione che dà da vivere. Contenta di aver visto tanta gente, c’erano anche due giornalisti di Milano, ma ahimè non erano presenti le istituzioni tarantine.»
Torneresti a Taranto?
«No, ma lo dico con rammarico, perché mi sento assolutamente tarantina. Milano mi piace, è tutto il contrario di tutto, quando mi sono trasferita non conoscevo nessuno, non sapevo da dove cominciare, mi sono trovata capovolta nel mondo della pubblicità senza sapere come. Col tempo ho conosciuto tanti art director, quasi tutti tarantini, o fumettisti o editori, tarantini anch’essi, e ciò mi ha fatto piacere, ma mi ha creato anche un senso di cupa tristezza.» 


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