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Azimuth/La poesia è femmina

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

2
NOV
2012

 

Intersezione di energie contrastanti, come nella prima raccolta poetica di Maria Grazia Palazzo
 
Azimuth, esordio poetico di Maria Grazia Palazzo, avvocato martinese trapiantato a Monopoli da sei anni, pubblicato nei mesi scorsi da Lieto Colle, con prefazione di Walter Vergallo e postfazione di Michelangelo Zizzi, non può passare inosservato e bene ha fatto l’Amministrazione Comunale, questa volta dobbiamo riconoscerlo, a dedicarle uno spazio per la presentazione curata dal professor Mario Castellana, docente di Epistemologia all’Università del Salento, con l’intervento dell’Assessore alla Cultura, prof. Antonio Scialpi. Presentazione che avrà luogo oggi (2 novembre) alle ore 18.30, presso la Sala degli Uccelli del Palazzo Ducale. Non sappiamo se la data sia una scelta o frutto del caso, vogliamo credere nella prima ipotesi, assumendo la ricorrenza della commemorazione dei defunti, istituita nel 998 da Oditone di Cluny per cristianizzare il capodanno celtico, come occasione per “cibarsi” e, quindi, celebrare la vita di cui a sua volta la Poesia, forza segreta e insurrezionale, si nutre. E di poesia, di letture, si è nutrita e continua a farlo instancabilmente la nostra autrice (lunghissimo l’elenco degli scrittori e scrittrici dai quali si è abbeverata senza, tuttavia, mai dissetarsi completamente).
Le enciclopedie definiscono l’Azimuth come la distanza di un oggetto celeste dal nord dell'orizzonte dell'osservatore. Metaforizzando noi diciamo che Azimuth è la distanza di una visione dal nostro orizzonte, ma è anche la via, la direzione nuova, il punto d’intersezione di forze ed energie contrastanti. E, quindi: la vita e la morte, la luce e le tenebre, il dato sensoriale e quello emotivo, le cose e le parole, che trovano spazio nell’accuratissima ricerca poetica di Maria Grazia Palazzo che, nell’intervista di cui riportiamo i passaggi più significativi, ci fornisce le chiavi di lettura dei trenta componimenti in cui si struttura questa prima e significativa raccolta..
 
Ciò che immediatamente colpisce di questa silloge è la cura, una vera e propria tensione  espressiva che ci è sembrata proprio la rappresentazione linguistica di quell’azimuth che la parola poetica vuole rappresentare. Da cosa nasce la sua poesia?
«La poesia nasce da una urgenza ardua, dalla tensione mai risolta di esprimere il non detto o il non dicibile, l’inconscio o la profezia, la gioia o la paura. Perciò secondo me il linguaggio poetico vive di una vita sua propria, diversa dalla ferrea logica razionale. Vive di intuizione, suggestione, di contrasto e  limite, di sogno e realtà. In poesia il linguaggio, come ricerca espressiva,  è tutto, ed è anche ricerca linguistica, senza la quale la rappresentazione della idea poetica risulterebbe ingenua, quindi direi che quella cura è necessaria a lavorare la materia grezza dalla quale la tensione emozionale  emerge come tensione esistenziale, quindi etica. Perché il controllo del linguaggio esprime anche una tensione etica. Nel mio caso a vivere una vita che cerca una sua direzione, un senso, mentre cammina. Forse il suo senso è lì, nell’itinerario da fare… e in una meta possibile ma non certa, con tutte le inquietudini del capolinea. E’momento  di compagnia con me stessa… ci sono soste in cui vale la pena di soffermarsi e guardare. Lì nasce la poesia. Da momenti di ‘contemplazione’ o di ‘visione’. Di attrito con la realtà o di felice stupore. La poesia inoltre - per parafrasare le parole della Spaziani – “è un movimento clandestino di resistenza’, una forma di controcultura, contro la massificazione, contro la paura della paura, contro i tabù del dolore e della morte, per ritrovare gioia e speranza e forza».
 
Ritorniamo alla tensione espressiva che in Azimuth è davvero alta. Cosa c’è dietro questa urgenza?
«Nasce dal bisogno di comprendere me stessa, il mondo, di comunicare con l’Altro, di entrare in una dimensione non meramente cinetica o materiale della vita ma di profondità anche spirituale, di fare unità, di penetrare la realtà e raggiungere una sua verità. La realtà stessa della nostra vita è complessa, è un libro enigmatico che si cerca di scorrere vivendo. E’ perciò importante rammemorare, ricordare, evocare, invocare, come in una liturgia delle ore, nel qui e ora, per compiere delle scelte, fossero anche solo quelle della giornata che stiamo vivendo o quelle fondamentali che ci sembra possano dare senso alla nostra vita, per orientarsi, per riconoscersi, per vivere, condividere, per amare».
 
Vorrebbe esser chiamata Poeta o Poetessa? Ritiene che la parola poetica possa avere due diverse declinazioni: maschile e femminile?
«Poetessa forse dice di più. Non ho il complesso d’inferiorità. E peraltro sono tentata di credere che la poesia sia più femmina che maschio e, quindi, raggiunga i maschi… per grazia ricevuta. Questione di sensibilità, intuito, anche cultura. Ma non si scrive poesia per cultura e basta. Amo pensare che sono i poeti a essersi comunicati con la parte femminile di se stessi. E quindi credo un falso problema essere chiamata poeta o poetessa. Tra l’altro non basta aver pubblicato né uno né dieci libri per essere riconosciuti poeti. Penso invece che sì, la poesia possa essere declinata diversamente da un uomo e/o da una donna per il semplice fatto che siamo diversi e quindi anche la scrittura è impregnata del nostro duplice essere maschili e femminili, che nella dimensione psichica ognuno dovrebbe essere curioso sempre d’indagare,  in se stesso e nella relazione. Ma dal punto di vista qualitativo non c’è differenza. Se qualche cosa di una poesia giunge vuol dire che è vera. Ma che sia scritta da un uomo piuttosto che da una donna ha importanza nella misura in cui esprime autenticità di quell’essere maschile e/o femminile».
 
Lei è martinese trapiantata da sei anni a Monopoli. Come le appare da lì Martina Franca?
«Da qui la mia Franca Martina si deve ancora affrancare da un certo sentimento di autosufficienza e  narcisimo che le impedisce di guardare al territorio intorno come a un luogo di possibili sinergie e sviluppare di più il senso dell’urbe come sentimento di civismo che va oltre lo splendido stendardo azzurro e bianco con il cavallo e la corona. Martina deve andare a giusta ragione fiera delle sue radici culturali, delle sue risorse ma evitare di farne l’unico motivo della sua fierezza perché la sola esibizione rischia di farla diventare una vetrina luccicante ma con la corrente alternata e qualche rischio di cortocircuito. Cioè la Franca Martina deve progettare il futuro a cominciare dal presente. Riscoprire le categorie della solidarietà e della gratuità per superare la crisi. Essere meno snob a chiacchiere, meno griffata e più di sostanza. Non incattivirsi nella competizione per il potere ma tendere a una visione globale del bene della città che non può prescindere dal territorio in cui è immersa. La Valle d’Itria è risorsa e la buona politica attraverso percorsi virtuosi può usare la cultura come un bene da condividere che può davvero fare da volano e fare la differenza anche per produrre un indotto e un’economia che incorpori nuove risorse umane ed economiche. Ma c’è il problema di ogni realtà di provincia. Una certa diffidenza, lentezza, pregiudizio, per l’affratellamento. Monopoli da questo punto di vista non è molto diversa. Siamo ancora in un Sud insonnolito e fiacco che si trascina senza grande umiltà il complesso ‘dellu sole e dellu vento’ come dicono nel grande Salento, e che affoga nei tarallucci e vino la sua ora di genuina convivialità. Martina Franca deve diventare sempre più cittadina di eccellenza pugliese, perché ne ha le risorse e chi ci abita merita di costruire un suo più degno futuro. 


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