MENU

Tra sacralità e popolarità/Scarcelle, friselle e dintorni

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

27
FEB
2015
La Quaresima, come è noto, è un periodo “forte” della Chiesa in preparazione alla Pasqua. Intorno ad essa si sono sviluppate pie pratiche e manifestazioni popolari. Eppure non è stato sempre così
 
Questa settimana affronteremo l’argomento attingendo come notizie a “Viaggio attraverso la fede e la pietà popolare a Taranto” di Antonio Fornaro e “Radeche vecchie” di Giuseppe Cassano.
Iniziamo proprio dalla Quaresima ricordando che tale periodo non è stato sempre così per la Chiesa. Infatti fino al IV secolo la Quaresima era fissata non in 40 ma in 36 giorni. Verso la fine del IV secolo si arrivò fino a 6 settimane di preparazione e nacque così il termine di “Quadragesima” che indicava i 40 giorni di penitenza che si concludevano con il Giovedì Santo.
Verso la fine del V secolo ha inizio la celebrazione del Mercoledì delle Ceneri.
Nel VI secolo si giunse a 7 settimane e si parlò di “Quinquagesima” e nei due secoli successivi si aggiunse la “Sessagesima” e la “Settuagesima”.
Altra caratteristica della Quaresima sono le solenni Quarantore. E’ una pia pratica che si svolge nei 3 giorni a cavallo fra gli ultimi di Carnevale e l’inizio della Quaresima. La pratica risale al 1527 quando fu istituita da San Carlo Borromeo a Milano. Da allora trovò attuazione da parte delle Confraternite laicale e nelle Chiese parrocchiali. Si diffuse in Italia a partire dal XVI secolo per opera di un frate cappuccino, del santo fondatore dell’Ordine dei Barnabiti e di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti.
Secondo una ipotesi antica le “Quarantore” deriverebbero dalla pratica di veglia, dal Venerdì Santo alla Notte di Pasqua, del Sepolcro in cui erano state deposte, in una struttura chiusa dotata di porta, la Croce e l’Ostia consacrata dove gruppi di fedeli si alternavano in preghiera per un periodo di 40 ore.
Altra caratteristica della Quaresima del passato era quella di far tenere in Cattedrale un ciclo di prediche di 40 giorni a un sacerdote proveniente necessariamente dal Nord Italia. E adesso capirete il motivo. Durante una Quaresima del passato alcune donne tarantine colsero l’occasione della presenza del predicatore forestiero per confessare alcuni loro peccati particolari. Così al confessore dicevano: “Padre, hagghie scevulate!”. Il prete non capiva perché credeva che si riferissero allo scivolamento, ma è chiaro che si trattava di un peccato di infedeltà coniugale. Così, l’ultima sera della sue prediche, il frate raccomandò agli amministratori tarantini una maggiore cura nella manutenzione aggiungendo che anche la moglie del sindaco era cascata,
Si avvertì un gran brusìo. Il sindaco, adirato, si rivolse alla moglie e disse: “Con te faremo i conti a casa”. Fu così che nacque il detto dialettale: “Pure ‘a mugghiere de ‘u sineche à scivulate”.
Altra pia pratica che ancora si svolge solennemente nelle domeniche di Quaresima nelle Chiese del Carmine e di San Domenico è quella della “Via Crucis” musicata dal francescano Padre Serafino Marinosci.
I confratelli tarantini chiamano la penultima domenica di Quaresima “Dumeneche de le vuce”, ossia “Domenica delle voci” perché  circolano tra di loro le prime indiscrezioni sulla gara della Domenica delle Palme.
L’ultima si chiama “De le Cruce” perché in questa domenica si coprivano le sacre immagini e le Croci per dare inizio alla Settimana di Passione.
Poi dicevano, e dicono ancora, la Domenica delle Palme perchè si scambiavano la palma e la domenica successiva di Pasqua avrebbero ripreso a mangiare la carne dopo un periodo di 40 giorni di astinenza.
La Settimana Santa a Martina Franca non è molto dissimile da quella di tutti gli altri paesi vicini ma particolare è anche qui il rito delle Quarantore, che consiste nell'adorare il Santissimo, esposto sull'altare dalle 8 di mattina alle 6 di sera, per cinque giorni consecutivi, da coppie di confratelli o consorelle, secondo il seguente cerimoniale. I confratelli che devono fare "l'ora santa" (confratello e confratello, confratello e consorella, consorella e consorella, e qualche volta anche in tre) si vestono nell'oratorio e vengono guidati da un confratello, non in abito, dalla confraternita alla chiesa. Arrivano vicino alla coppia che sta inginocchiata sugli inginocchiatoi ai due lati dell'altare e il confratello “guida” ripete per tre volte la giaculatoria "Sia lodato e ringraziato ogni momento il Santissimo e Divinissimo Sacramento", dopo di che la coppia inginocchiata si fa il segno della croce e se ne va, salutando con un inchino i nuovi arrivati, mentre l'altra prende posto. Il confratello “guida” ripete poi di nuovo per tre volte la giaculatoria.
Abbiamo già parlato nel numero scorso delle “Quaremme”, i fantocci che raffigurano la vedova di Carnevale. 
Sempre a Martina Franca ancora oggi si appendono le “Quarantene” ai crocicci più ventilati delle strade del borgo antico per scacciare gli spiriti maligni. La Quarantena regge in una mano il fuso per filare e nell’altra la frisella. Mettono sullo stesso filo che tiene sospeso il fantoccio le fascine, il fuso e la scopa per simboleggiare il lavoro quotidiano, il salame, i boccali e un fiasco di vino per simboleggiare i cibi proibiti durante la Quaresima e l’arancia per simboleggiare che le cose belle hanno breve durata. Ogni settimana, per sette settimane, si aggiunge una frisella.  Il Sabato Santo la Quarantena viene uccisa e sventrata in una grande  atmosfera di festa.
A Martina Franca erano questi i cibi indicati durante la Quaresima: friselle, una specie di focaccia fatta con vincotto e le noci, baccalà, la pasta condita con mollica di pane fritta nell’olio con pezzetti di alici, patate e pesce in bianco. Oltre alla carne era proibito l’uso di uova e latticini e non si poteva bere vino.
Nelle campagne del tarantino, nella seconda domenica di Quaresima, intorno al fantoccio della vecchia “Quaremme” si concludeva la mascherata conosciuta con il nome di “Serra la Vecchia”, il fantoccio fatto segare e poi preso d’assalto perché sotto gli abiti nascondeva saluti e dolciumi.
E per concludere ricordiamo fra i detti e le curiosità tarantine l’espressione: “Ce Dddie vole”. Si riferisce al fatto che uno sciocco ed empio contadino che non era solito ripetere tale espressione, la vigilia di Pasqua disse che, voleva o non voleva, la scarcella l’avrebbe mangiata. 
Risultato: morì all’improvviso senza vedere la Pasqua. 
 


Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor