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STEFANO VALENTI/ LA FABBRICA DEL PANICO

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

13
MAR
2015
Ansia e lavoro: questi i due grandi temi affrontati nel romanzo dello scrittore, vincitore del premio Campiello opera prima 2014, che non a caso fanno riferimento ai due aspetti più frequenti e controversi della nostra società
 
La libreria AmicoLibro di Crispiano è stata, nei giorni scorsi, la sede che ha ospitato un eccellente scrittore. Non parliamo di un esordiente qualunque, bensì di Stefano Valenti, il quale con il suo romanzo “La fabbrica del panico”  si è aggiudicato ben due premi: il premio Campiello opera prima 2014 e il premio Volponi.
Ha affrontato, nel corso della presentazione, le due tematiche cardine del suo libro: il lavoro e gli attacchi di panico, parlandone con molta naturalezza e anche un pizzico di apprezzata autoironia.
 
Milano e Taranto: una storia comune
Una fabbrica, operai frustrati e alienati costretti a lavorare in condizioni di sicurezza precaria, morti bianche. Uno scenario fin troppo comune per la nostra provincia; per questo motivo forse fa specie scoprire che “La fabbrica del panico”, opera prima del bravo Stefano Valenti, con Taranto non ha nulla a che fare. La realtà descritta è quella di un’altra città, Sesto San Giovanni, e un’altra fabbrica: non l’Ilva, ma la Breda Fucine. Nord e Sud indissolubilmente legati da un unico destino.
«Ho presentato questo libro almeno centocinquanta volte, è stato un vero e proprio caso editoriale. E devo ammettere che, sin dal primo momento, ho fortemente desiderato presentarlo a Taranto. Sono contento che sia capitata questa bella occasione» ha dichiarato l’autore.
La storia raccontata è quella di un uomo, originario della Valtellina, che negli anni Settanta inizia a lavorare come operaio nella fabbrica, e da quel momento in poi la sua vita viene sottoposta a grandi rischi: primo fra tutti la lenta e inesorabile esposizione all’amianto, un killer con cui migliaia di operai hanno dovuto fare i conti, uscendone – per la stragrande maggioranza delle volte – purtroppo sconfitti.
 
Lavoro e salute
Come è facilmente desumibile, durante la presentazione del libro di Stefano Valenti non si è potuto non toccare il grande quesito che continua ad affliggere la nostra città, così come in precedenza ha fatto con gli operai della Breda. Lavoro o salute? A quale dei due si può rinunciare? Domanda paradossale, dal momento che si parla di due aspetti imprescindibili e assolutamente fondamentali nella vita di una comunità. 
«Non ci si può sottoporre a questo ricatto. Per lavorare non si deve essere disposti a rischiare la vita» ha affermato Valenti. «Eppure è una condizione che quella classe operaia ha accettato, portando la zona di Milano a essere una delle più ricche d’Italia. Il lavoro di tutte quelle persone è servito far accrescere un territorio, ma a quale prezzo? Il prezzo che hanno dovuto pagare è stato troppo alto, un sacrificio che nessuno dovrebbe essere costretto a compiere».
 
Quasi un’autofiction
Stefano Valenti ha perso prematuramente suo padre, operaio della fabbrica Breda, proprio come si racconta nel romanzo. È inevitabile, dunque, che gli si chieda se sia in qualche modo autobiografico. 
«C’è molto di me» ha confermato. «“La fabbrica del panico” può essere considerata quella che comunemente viene definita un’autofiction, ossia una finzione esasperata della realtà. Parte da fatti reali, da un mio vissuto personale, ma il racconto degli eventi è soggetto poi a una rivisitazione in chiave narrativa. Quando parlo del protagonista, operaio e uomo con la passione per la pittura, descrivo il mio vero padre senza dubbio. Quando faccio riferimento alla figura del sindacalista non faccio che raffigurare invece una sorta di suo alter ego».
 
Il “male oscuro”
Il titolo del romanzo la dice lunga anche sul secondo grande tema affrontato da Stefano Valenti. Oltre al lavoro, infatti, uno degli argomenti centrali della storia è proprio il panico, uno stato di fortissima ansia scaturita dall’obbligo di passare gran parte della giornata in una stanza di tre metri per quattro, attaccati a un macchinario per sette ore di fila senza neanche una pausa pranzo. 
Sugli attacchi di panico l’autore si è soffermato a lungo, dichiarando di averne sofferto lui stesso per circa quindici anni e di soffrirne tuttora sebbene abbia imparato a gestirli.
«Gli attacchi di panico sono come il diabete: non ti passano mai del tutto, però magari li tieni a bada. Ciò che non si sa è che è un fenomeno diffusissimo, ne soffrono moltissime persone ma spesso è difficile fare outing, confidare a qualcuno che si soffre di forti stati d’ansia. Spesso è una reazione a eventi traumatici, come un lutto per esempio, altre volte invece scaturisce da un’insofferenza radicata, dovuta probabilmente al mancato perseguimento dei propri obiettivi. Al giorno d’oggi si vive una situazione talmente precaria che tantissimi uomini sentono di non riuscire a realizzarsi in alcun modo e, come è naturale, ne soffrono. Se pensiamo che coloro i quali non riescono a ottenere un contratto di lavoro stabile – e parliamo della stragrande maggioranza degli under quaranta – vengono definiti dei falliti, è facile supporre il loro stato d’animo, il più delle volte vissuto tra l’altro in totale solitudine».
 
Non una denuncia
Ciò che preme sottolineare all’autore quando parla del suo romanzo, tuttavia, è che non si tratta di una denuncia sociale, ma solo di una storia che narra degli avvenimenti di per sé drammatici. «La storia ha già talmente tanti elementi tragici che non volevo cadere nella retorica né nel giornalismo d’inchiesta. Mi sono imposto dei tagli, cercando di rispettare lo stile narrativo e di rimanere strettamente ancorato al racconto dei fatti».
Se a livello locale molti autori si sono cimentati nell’affrontare la tematica del lavoro in fabbrica, su scala nazionale un romanzo del genere, che cioè evidenziasse la situazione della classe operaia degli anni Settanta, – tolte le dovute, sporadiche eccezioni – non era presente.
«Ho voluto scrivere qualcosa che non c’era nel panorama letterario italiano, saturo invece di romanzi di intrattenimento e di svago. Il pensiero di portare alla luce qualcosa che non era stato ancora detto è stato uno stimolo per la mia scrittura. Ricordo che Picasso, quando gli si chiedeva delle sue opere, rispondeva che lui dipingeva quadri che non poteva permettersi di trovare. Un po’ si può dire la stessa cosa riguardo la mia motivazione».
 
L’eredità dell’arte
E a proposito di quadri, uno degli aspetti più belli del protagonista, appartenuti realmente al padre dell’autore, è proprio la passione per la pittura, che lo accompagnerà tutta la vita, ma alla quale si dedicherà solo essere andato via dalla fabbrica. Una sorta di riscatto che il padre di Stefano ha voluto concedersi, prima di morire per un tumore dovuto alla lunga esposizione all’amianto. Se gli anni di lavoro in fabbrica sono stati causa di una sorta di “depressione”, o meglio di panico generalizzato, di uno stato di frustrazione perenne, gli ultimi anni passati a dipingere hanno rappresentato invece la voglia di riprendere in mano la propria vita e di dedicarsi a ciò che davvero poteva farlo stare bene. 
«In vent’anni mio padre ha dipinto quasi mille quadri» ha confessato l’autore con un accenno di commozione e con evidente orgoglio. «Si è dedicato a ciò che amava e in qualche modo è riuscito a mandare avanti una famiglia grazie alla sua pittura. Conservo ancora circa una quarantina di quelle opere e rappresentano per me dei cimeli preziosissimi». 
L’inclinazione all’arte era dunque nei geni di Valenti, il quale dopo dieci anni di lavoro come traduttore in una casa editrice, – che pure lo hanno aiutato, facendogli comprendere la necessità di trovare sempre la parola più adeguata – ha deciso di scrivere il suo primo romanzo, scoprendo che quella della scrittura è un’attività a cui non vuole certo rinunciare.
 
Scrittura catartica
La stesura de “La fabbrica del panico” è stata quasi terapica per l’autore, il quale ha potuto riversare le sue emozioni su carta, rivivendole e riguardandole con occhio critico. 
«La scrittura in qualche modo ha avuto una funzione salvifica per me, così come le successive presentazioni del libro. Parlarne e affrontare queste tematiche è stato fortemente catartico, una liberazione. È vero anche, però, che posso dire di essere stato “salvato” anche in qualità di lettore. I libri che mi fanno stare bene sono, paradossalmente, quelli tristi (ride, ndr). Li leggo e penso: “Toh, guarda. C’è qualcuno che prova le mie stesse emozioni!”. Del resto, il bello della letteratura è proprio questo, no? Genera empatia».
 
 
 


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