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SANTA CECILIA/Pettole 2.0

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

23
NOV
2012

Il giorno di Santa Cecilia è una festa speciale per i tarantini. All'alba, per le strade buie e silenziose della città ancora dormiente, le bande suonano le novene tradizionali. Così è stato e così è, anche in tempi iper tecnologici. Oltre alla storia e alle leggende nate attorno a queste delizie, noi vi offriamo pure la ricetta 

 
L'atmosfera di Natale a Taranto respira già dal 22 novembre, giorno di Santa Cecilia, anzi dalla sera precedente, quando le bande musicali intonano per le strade le pastorali natalizie. E' ancora buio quando tra le strade dei quartieri di Taranto si odono le prime nenie suonate dalle bande musicali. Le dolci note delle pastorali natalizie risvegliano, un po' alla volta, gli abitanti della città che, ancora in pigiama e assonnati, si accostano alle finestre e si affacciano dai balconi per meglio ascoltare e per vedere i musicisti passare.Il percorso per le strade della città non è mai ben chiaro, ma le bande coinvolte fanno il massimo per dare la possibilità a tutti i cittadini di avere note e dell’atmosfera di una notte magica come questa.All’alba, le donne si mettono a lavoro e, come la tradizione vuole, impastano la farina per preparare le frittelle di pasta pane, conosciute meglio come pettole, che in questa giornata sostituiranno, a colazione, le merendine, i cornetti e le briosce, e per tutte le vacanze di Natale faranno capolino sulle tavole imbandite. E un po' alla volta, mentre la città si risveglia, si diffonde nelle case e per le strade il caratteristico odore dell'olio fritto insieme alla melodia delle famose pastorali natalizie, scritte da maestri tarantini come Giovanni Ippolito che nel 1870 compose la prima pastorale, seguito negli anni successivi da altri compositori come Francesco De Benedictis, Giacomo Lacerenza, Francesco Battista, Domenico Colucci, Vittorio Manente (“Ninna nanna Gesù Bambino”), Vincenzo Simonetti (“Il Messia a Bethlemme”), Giuseppe Gregucci (“Aurore natalizie” e “Santa Cecilia”) e altri come Nino La Nave, Michele Ventrelli, Carlo Carducci. I musicisti furono ispirati dal fascino tradizioni molto antiche, che trovano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d'Abruzzo, che durante la transumanza scendevano nella nostra terra, con le loro greggi, muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse, e suonavano per i vicoli della città, durante la loro questua itinerante, regalando le loro dolci melodie ai tarantini, che ricambiavano donando loro un pasto caldo consumato al calore ”d’a frascère”: le pettole un cibo povero e semplice, ma allo stesso tempo un gustoso e nutriente. Sono lontani i tempi della discesa dei pastori zampognari, ma la tradizione di accompagnare le feste, con le note delle loro pastorali è rimasta, grazie a quei musicisti che, più di 100 anni fa, seppero fermare il tempo e le emozioni di quei momenti in brani musicali (a oggi più di venti) che ogni anno ci accompagnano in questa notte. Interpreti devoti di queste nenie, i complessi bandistici più famosi del territorio: la banda “Santa Cecilia” del maestro Giuseppe Gregucci, la banda “G. Paisiello” del prof. Vincenzo Simonetti, la banda “Lemma” di Berardino Lemma, figlio dell’indimenticabile “meste Mengucce” al secolo Domenico Lemma e la banda “Maria SS. Addolorata” del maestro Nicola Orlando. Una notte, quella di Santa Cecilia, che inaugura un periodo per la città di Taranto, ricco di suggestioni legate a tutte le tradizioni, sia quelle religiose sia quelle pagane, favorite dalla costante presenza dei componimenti musicali, anzi racconti musicali di vita quotidiana e religiosità. Nelle loro note, infatti, si può ascoltare il canto delle donne, mogli e delle madri, che intonando l’Inno alla Vergine: “O Concetta Immacolata”, chiedono alla Madonna eterna protezione per la città; ma è anche facile udire il rumore delle onde che s’intreccia con le note del tradizionale “Tu scendi dalle stelle” intonato da pescatori che invocano la protezione del Bambinello per la loro, e nostra, “marinara vetusta città”. Taranto, così in largo anticipo rispetto alle altre città, con il giorno di Santa Cecilia dà il via alle classiche riunioni famigliari: a base di tombola emazzi di carte da gioco per lunghe partite all’”asso che fugge” e “piglia tutto”, al “morto che parla” e “sette e mezzo”, senza dimenticare le scorpacciate di dolci tipici come le pettole, le carteddate e i sannacchiudere per concludere con l’addobbo l'albero e la preparazione del Presepe.
 
LE LEGGENDE IN CERCA D’AUTORE 
Si dice che: “Il giorno di Santa Cecilia, una donna si alzò come di consueto, per preparare l'impasto per il pane. Mentre l'impasto lievitava, sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide gli zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia, scese per strada e si mise a seguire gli zampognari per i vicoli della città.
Quando tornò a casa, si accorse che l'impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione.
Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell'olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell'olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: "Mà, come si chiaman'?"- e lei pensando che somigliavano alla focaccia (in dialetto detta "pitta") rispose: "pettel'" (ossia piccole focacce).
Non ancora soddisfatti, i figli chiesero: "E 'cce sont?" - e lei vedendo che erano molto soffici rispose: "l' cuscin' du Bambinell" (i guanciali di Gesù Bambino).
Quando finì di friggere tutto l'impasto, scese per strada con i suoi bambini, felici e satolli per offrire le pettole agli zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo.”
La realtà vorrebbe che sapessimo invece che:
Le donne, per preparare le pettole, si procuravano “u luat” (piccolo panetto di pasta cresciuta, usata come lievito), si alzavano verso le due di notte per, "trumbà” (impastare) la pasta, operazione che richiedeva tempo e forza di braccia, perché di solito le pettole costituivano il pranzo e la cena e le dosi superavano di molto il chilo di farina, dato che dovevano sfamare famiglie numerose “cu na morr’ di figghije” (con tanti figli). Per questo l’impasto si preparava “int’ u limm’" (grande coppa in terracotta smaltata all'interno). Finito di impastare, si lasciava lievitare la pasta coprendo il limmu con una “manta di lana” (una coperta) in un luogo caldo, di solito vicino al camino o vicino “a fracassè” (antica cucina a legna, con caldaia), comunque al riparo da spifferi e correnti d’aria che ne rallenterebbero la fase di lievitazione, importante per la riuscita delle pettole.
LA RICETTA MODERNA
Di stretta competenza di nonne, mamme e zie, la preparazione delle pettole, le operazioni dei preparativi sono state semplificate dalle comodità della vita moderna, ma gli ingredienti base sono rimasti “quelli di una volta”:
500 gr di farina 00 (oppure),
un cubetto di lievito di birra,
un cucchiaino da caffè di sale, 
acqua q.b.
olio d’oliva per friggere.
Per l’impasto si procede in questo modo:
-Riscaldare l'acqua, in una coppa setacciare la farina, a centro versare un po’ d'acqua e il sale, unire il lievito di birra e scioglierlo bene, poi cominciare a impastare ben bene tutta la farina, aggiungendo acqua, e lavorando energicamente sino a ottenere un impasto liscio, omogeneo, appiccicoso, di consistenza quasi cremosa. 
-Coprire e lasciare a riposare l'impasto per circa due ore (a volte basta anche meno), l'impasto è pronto quando è almeno raddoppiato di volume, e sulla sua superficie si sono formate delle bolle d’aria (aria incorporata durante la lavorazione dell’impasto).
-Quando l'impasto è lievitato mettere sul fuoco una pentola alta con abbondante olio di oliva (le pettole devono friggere in olio profondo, altrimenti rimangono crude dentro).
-Quando l’olio comincia a fumare, con le mani bagnate in acqua tiepida (per lavorare l'impasto senza appiccicarsi), prendere un po’di pasta, stringere la mano a pugno e formare una pallina da staccare tra pollice e indice e farla cadere nell'olio.Oppure prendete la pasta aiutandovi cucchiaio e fartela scivolare, con l’aiuto del dito indice, nell'olio bollente. Appena nell'olio la pasta si gonfia e quando diventerà dorata, potete scolarle.
Le pettole sono molto facili da fare. Rifacendoci alla tradizione l'impasto è molto semplice e simile a quello del pane, ma ci sono piccoli segreti.
 
PICCOLI SEGRETI
Le nostre nonne usavano della semola rimacinata, per cui le dosi precedenti diventano:
300 gr di farina 00 e 200 gr di semola rimacinata (in tutto sempre 500gr di farina) per impastare usava dell'acqua tiepida, per agevolare la lievitazione.
La morbidezza delle pettole deve essere ottenuta da:
- una lavorazione energica, sollevando e sbattendo l’impasto con le mani più volte dal fondo della ciotola. In questo modo si riesce a incorporare più aria possibile, così da avere poi pettole soffici.
- un impasto omogeneo e fluido. Attenzione non liquido.
- una lievitazione lenta e lunga.
 
Le pettole sono buone al naturale, ma si possono gustare anche in versione salata e dolce. La versione salata prevede la loro farcitura: prima di friggerle, inserendo nella pallina di pasta, di pezzi di baccalà fritto, filetti di acciughe salate, cozze crude sgocciolate, pezzetti di salsiccia secca piccante (le mie preferite), pezzi di cavolo lesso, olive, prosciutto e con tutto ciò che ci suggerisce la nostra golosità e la nostra fantasia mangereccia. Per gustarle dolci, basterà passarle nello zucchero, nel miele o nel vincotto. Una versione contemporanea, è quella di spalmarci dentro della nutella, chiuderle e cospargerle di zucchero. Le pettole si raccomanda di mangiarle caldissime e possibilmente davanti ai fornelli, attenzione all’olio bollente, anche se la scottatura è ormai un rito e l’ustione della lingua pure.
 


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