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Daniele Semeraro/La voce del padre

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

10
APR
2015
L’autore ci parla del suo nuovo romanzo “Non e’ adesso - Na’ jè m’”  che, dopo essersi aggiudicato il terzo posto al Concorso Nazionale “La Giara”, organizzato dalla Rai Radio Televisione Italiana, ora è nelle librerie di tutta Italia, pubblicato dalla casa editrice RAI ERI. Un romanzo intenso, che riporta in vita la “voce flebile” di un padre che scelse la morte come sollievo al male di vivere
 
“Chi può dire cos’è più effimero tra la vita vissuta e quella narrata? Io so solo che alla fine della strada, seppure per poco, forse solo per il tempo di un sospiro, ho potuto riascoltare, a vent’anni dal suo ultimo afflato, la voce flebile del mio povero padre.” E’ un passaggio che “rubiamo” dal profilo Facebook di Daniele Semeraro, scritto nell’imminenza della pubblicazione del suo nuovo romanzo, “NON E’ ADESSO - NA’ JÈ M’ “ che nel luglio scorso si è aggiudicato il terzo posto nel concorso nazionale “La Giara”, organizzato dalla Rai Radiotelevisione Italiana. Da qualche giorno, per l’esattezza dal 7 aprile, “NON E’ ADESSO - NA’ JÈ M’ “ è in libreria, pubblicato da RAI ERI. Si tratta di un romanzo biografico intenso, che scava chirurgicamente nel male di vivere;  la voce narrante è quella di Daniele Semeraro e riporta in vita il disagio esistenziale di suo padre, (d’ codde amère Pasquèle) attraverso lo sguardo attento, atterrito di un sè adolescente che scruta nelle pieghe più profonde le angosce del padre, i suoi silenzi inermi, oscuri, definitivi, monitorando ossessivamente i suoi sguardi nei quali il quattordicenne Daniele legge la resa, il punto di partenza per ricongiungersi alla morte, oltrepassando quel muro di dolore muto che con gli anni si faceva sempre più alto. La narrazione, condotta con un registro espressivo modulato efficacemente sulle corde emotive della voce narrante, accoglie molte espressioni dialettali, consegnando al lettore una storia che, pur nella sua drammaticità, nella ricostruzione cronologica che abbraccia un periodo abbastanza esteso (dalla fine degli anni ’50 ai primi degli anni ’90), non perde mai la sua unità interna e tiene vivi i tratti umani dei vari personaggi e gli aspetti caratterizzanti del paesaggio della Valle d’Itria, della campagna che emergono nitidi e vivi.  Sembra quasi che la limpidezza della rappresentazione dello scenario di una campagna brulicante di vita, dispensatrice di colori e profumi e sapori, faccia risaltare ancor più le ombre interiori di d’ codde amère Pasquèle, ‘u pjttore che nel dicembre del ’93 mette in atto il proponimento covato negli anni di consegnarsi alla morte, mosso – come si legge – non “dall’istinto della disperazione” ma  dalla “logica del sollievo….Chè questo è, il cercare la propria morte: puro e semplice atto di libertà. Seppur arrogante, l’unico che l’uomo può concedersi in vita.”
 
 
“Na’ jè m’ – Non è adesso”. Partiamo dal titolo.
«Non voglio togliere il gusto della scoperta a chi vorrà leggere, quindi dico solo che il titolo mi è stato suggerito dalla voce flebile di mio padre. È stato lui a tirarlo fuori, in un preciso momento della narrazione. È piaciuto molto all’editore sin dall’inizio. Mantenere  anche la traduzione dialettale della mia terra è un ulteriore regalo che la RAI mi ha concesso».
 
La voce narrante di questo romanzo biografico è quella di Daniele Semeraro che riporta in vita se stesso da adolescente e ricostruisce il legame con il padre, Pasquale. Quali sono state le fasi più delicate di questa scelta?
«Innanzitutto il primissimo passo, e cioè la scelta a monte di narrare il tutto scoprendo completamente i nervi, impostando la narrazione in maniera autobiografica. Che poi non si è trattato neanche di scelta vera e propria, infatti nella prima stesura partivo da un espediente narrativo che mi allontanava un po’ dalla realtà. Presto però l’autenticità ha preso il sopravvento naturalmente. È lì che ho scelto di fare sul serio. La ricerca di senso non può prescindere dall’autenticità. Questo mi ha portato anche a dover combattere col dolore derivante dal riaffiorare dei ricordi. Ogni difficoltà però è stata pienamente ripagata dalla soddisfazione finale di aver ridato voce a mio padre».
 
Cosa ha significato per te scrivere questo romanzo?
«Questo, appunto: ridare voce alla figura tormentata di mio padre, ridargli la vita in qualche modo, e riconsegnare a me stesso, a chi lo ha conosciuto e persino a chi non lo ha mai incontrato,  il suo ricordo, fissandolo sulla carta».  
 
“Na’ jè m’ “  oltre ad essere la narrazione dell’inferno interiore di Pasquale, letta con gli occhi del figlio adolescente, è un romanzo che racconta dell’Italia dalla fine degli anni ’50 ai primo degli anni ’90 anche attraverso le canzoni, alle quali spesso nelle pagine si fa riferimento. Cos’era per Pasquale la musica e  cos’è per te?
«Per quello che sono i miei ricordi, la musica per mio padre era un elemento malinconico, una sorta di passerella che lo riconduceva agli anni della giovinezza. Forse, in un dato periodo della sua vita, ha rappresentato anche il “sogno”, ma questa è una mia deduzione. Come ben sai, ritrovare una sua vecchia chitarra ha fatto scattare in me l’impulso della scrittura. Una chitarra che non gli ho mai visto impugnare ma che immagino abbia rappresentato molto per lui, da ragazzo. Per me oggi la musica è, non solo una fonte d’ispirazione da cui non posso prescindere, anche scrivendo in prosa, ma anche una sorta di riferimento, un testimone del “mio” tempo. Ci sono canzoni che ti restano addosso perché rappresentano momenti specifici della tua vita. La memoria rimane viva anche grazie alla musica». 
 
Molto ben delineato nel romanzo il paesaggio, che è quello della Valle d’Itria, con una campagna i cui tempi sono scanditi dai lavori agricoli, dalla raccolta dei pomodori, dell’uva, dalla preparazione della salsa, del pane…I ricordi che rievochi hanno un tono nostalgico?
«Assolutamente sì. Stiamo perdendo il senso delle cose, della realtà. I riti che descrivo nel romanzo tenevano gli uomini radicati non solo alla terra, ma all’esistenza stessa, alla vita reale. Tutto aveva un senso, allora, ogni minimo dettaglio, quando si trattava di raccolta di frutti, vendemmia, lavori agricoli, tradizioni. Cosa c’è di più triste se non la perdita di senso? Oggi poche cose hanno ancora un senso, viviamo in una realtà illogica, sotto vari aspetti. Rievocare certi ricordi è per me ancorarsi al senso dell’esistenza, sperare che non sia davvero andato tutto perso».
 
Tra il “volo verso la morte” di suo padre e la possibilità per il figlio, Daniele, di narrare una vicenda così dolorosa passano vent’anni. Tu scrivi. “Un risentimento di vent’anni, custodito, al sicuro.” Spiegaci.
«Quando si decide di narrare certe tematiche come la morte, la perdita, l’esistenza e il senso di essa, si è consapevoli del rischio di farsi del male. Noi siamo abituati a vedere la morte tutti i giorni, ce ne riversano addosso a quintali sotto forma di immagini, ma quel tipo di morte ci tocca poco, ci sfiora appena durante l’ora di pranzo. Meno facile è parlare di noi stessi, delle nostre perdite, del risentimento verso la vita che queste provocano, e della nostra personale paura della morte. Infatti rifuggiamo l’argomento, lo custodiamo nel silenzio, al sicuro, e il risentimento diventa un modo effimero per esorcizzare il dolore, per proteggerci da esso. Per me e la mia famiglia è stato così per vent’anni. Il silenzio è stato una difesa, insieme a quel risentimento latente verso il destino, più che nei confronti di mio padre. Io ho voluto rischiare, scrivendo di lui perché so che, oggi, oltre la morte, oltre il dolore, rimane la dolcezza del ricordo. Ma questa non ha voce nel silenzio della rabbia. Ho barattato la sicurezza con la dolcezza del ricordo, ma solo dopo vent’anni. Il rischio era comunque grande, nonostante lo scorrere del tempo, ma oggi posso dire che lo rifarei». 
 
In “Na’ jè m’” facendo esplicito riferimento ai tuoi precedenti romanzi, “Scrivere polvere” (di cui riporti alcuni passaggi” e “Nel segno di Caballero”, ti lasci andare ad alcune riflessioni sulla scrittura come “progetto insensato” di “dare forma alla vanità”. Per te è davvero questo la scrittura?
«Cosa c’è di più insensato se non la ricerca dell’eternità? È questo che guida la mano dello scrittore: l’illusorio tentativo di dare forma all’eternità. Tutto questo alla fine è un esercizio “vano”, da qui il termine “vanità”. Con Na’ jé m’, per esempio, mi illudo di aver concesso una sorta di immortalità a mio padre delineandone un profilo attraverso l’inchiostro, ma so che questa è pura illusione. Necessaria e vitale, per me, ma comunque un’illusione».
 
Cosa può la scrittura rispetto alla morte? E, soprattutto, rispetto a chi deliberatamente si consegna alla morte?
«La scrittura non può niente rispetto alla morte, ma questa può essere ridimensionata dalla memoria, e la scrittura è un mezzo efficace per combattere l’oblio. Questo è già tanto, è già miracoloso.
Rispetto a chi si consegna alla morte, invece, la scrittura, attraverso il racconto, può ridare dignità a un’esistenza, sporcata da un gesto che, seppur arrogante, resta pur sempre un atto di libertà, forse l’unico che l’uomo può concedersi in vita». 
 
Chiudiamo con una domanda a cui puoi anche scegliere di non rispondere. Codde amère di Pasquale – tuo padre – lo hai perdonato?
«Credo che mio padre non avesse nulla di cui farsi perdonare. Piuttosto penso che permettendomi ancora una volta di ascoltare la sua “voce”, lui abbia perdonato me o, comunque, mi abbia permesso, così facendo, di perdonare me stesso, alleggerendo così il mio senso di colpa, e il rimpianto verso quello che saremmo stati oggi, insieme».
 


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