MENU

ENRICO MUSCETRA/ Rifaccio il mondo

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

15
MAG
2015
Competere con la creazione tramite l’arte? Si può. E se tra arte e sogno c’è una certa parentela, ecco le creazioni oniriche eppure materiche dell’artista salentino
 
Enrico Muscetra, scultore e pittore dall'anima salentina, ci racconta il suo personale modo di indagare la materia tentando di captare qualche sua vibrazione e qualche suo poetico segreto. Il Maestro, artista dal fervido estro creativo, capace di donare sinuosità e leggerezza, plasticità ed armonia alla materia che plasma attraverso una sicura padronanza delle linee e delle forme, ha un meraviglioso atelier a Cracovia, città in cui vive una parte dell’anno. Molte sue opere sono presenti nella regione Maloposka, altre  rappresentanti  “monumenti viventi” sono disseminate in varie città italiane, ricordiamo il “Monumento al Riccio” a Gallipoli, una scultura in grado di coniugare tutto il suo  amore per il mare con quello per il cielo;"Uomo con grande cuore" a Martano, "Annunciazione" ad Aradeo, “Romeo e Giulietta”, installata nel centro di Verona nel 2012.
A Cracovia, viene ricordato particolarmente per la sua memorabile mostra “Romeo e Giulietta – un sogno sospeso” nel cortile del Palazzo Kszysztofory. Dipinti e sculture del Maestro Muscetra sono stati esposti anche nella galleria di Bronislaw Chromy a Park Deciusza e al PWST a Cracovia. Il nostro artista si concentra sugli effetti della spiritualità, presente nell'atmosfera rarefatta della sua arte che riesce a far perdere alla materia tutta la sua pesantezza per renderla forma assoluta e attraverso l’arte fa della materia oggetto di indagine. 
 
Gentile Maestro Enrico Muscetra, come nasce il suo rapporto con la scultura e com'è cambiato e si è evoluto nel tempo?
«Il mio rapporto con la scultura nasce, in un primo tempo, da un bisogno manuale (oltre che di pensiero e di cuore) di fare cose con la materia, di manipolarla e  – in un senso più profondo – di intervenire su di essa, non tanto per sopraffarla, quanto per accedere ai suoi misteri, per superare gli sbarramenti che ci oppone. 
E’ un’esigenza che, con il passar del tempo, mi mette sempre più nella condizione viscerale di competere con la creazione e mi consente, se non di avvicinarmi a Dio, almeno di rimuovere o di sovvertire (con i mezzi e con gli sforzi sterili dell’arte) un certo aspetto dell’apparenza. Come dire che solo l’aspirazione a rifare il mondo è ciò a cui tendo più oscuramente: una sorta di  aspirazione che giocoforza alimenta quell’illusoria forza motrice che potenzia l’arte». 
 
Lei vive la pittura in modo lirico e contemplativo e non come semplice incontro tra immagine e sguardo, del resto dipingere è entrare in contatto con l’essenziale e trovarsi disarmati e faccia a faccia con un grande mistero: il proprio essere nella sua essenza reale, per lei è così?  
«L’arte non essendo definibile non ha senso alcuno né mistero alcuno, se non quello di non avere appartenenza, di non essere che trasgressione o rivolta nei confronti di quel non senso universale delle cose che non ci attraversano, o che ci attraversano con la loro assenza di essenza reale. Da questo forse si può evincere che il sogno scaturisce da un bisogno indotto di colmare la precarietà del reale. E tra arte e sogno c’è una certa parentela».
 
Pensando ai suoi lavori mi viene in mente la poetica dell'immagine che si manifesta nel bisogno incessante di entrare nell’anima delle cose. I suoi dipinti denotano energia primordiale e creativa, voce fuori dal coro, intensità feconda, sensibilità artistica in un gioco vivace di  luci e ombre. Cosa rappresenta per lei  la creazione artistica e come si estrinseca in lei l’atto creativo?
«Per me la creazione artistica – quando è tale - è un miracolo che si realizza raramente e a cui si assurge spesso per puro caso. Sono certo di non far parte di quella ristretta cerchia di creatori che si contano, nella storia dell’arte del nostro pianeta, veramente in pochissimi. Naturalmente tento anch’io, come ogni artista, di cercare di forzare il cuore dell’apparenza delle cose, ma consapevole di non possedere quell’eroismo di certe anime, come ad esempio quella di Vincent Van Gogh che pur vivendo ai margini di devastanti precipizi era in grado di spiccare Icarici voli, sono rassegnato a svolgere il mio lavoro nella speranza di poter almeno riuscire a fare qualche buon quadro o scultura. E non dispero di poter riuscire un giorno o l’altro ad essere soddisfatto, almeno di una sola opera realizzata».
 
Nell’aprile 2014 viene pubblicato il suo "Diario di uno scultore”, libro in forma di saggio che  ripercorre le tappe della  sua  vita, proiettando, attraverso il suo viaggio esistenziale, lo spaccato umano e artistico di una intera epoca, nella quale ha realizzato tanti capolavori e "monumenti viventi", come per esempio il “Monumento al Riccio” a Gallipoli, "Uomo con grande cuore" a Martano, "Annunciazione" ad Aradeo, “Romeo e Giulietta”, installata nel centro di Verona. A quale opera si sente intimamente legato e perché?
«Tra le tante opere realizzate, forse una, mi soddisfa almeno in parte. Mi riferisco al grande Riccio in bronzo di Gallipoli. Credo sia una scultura in grado di coniugare tutto il mio amore per il mare con quello per il cielo. Infatti ho concepito il Riccio come un’opera la cui apparenza fosse in grado di dare rilievo ad un’ubiquità capace di scandire un possibile rapporto, una mera intesa, uno scambio tra terra e cielo. Questo perché secondo i miei intendimenti ho forgiato un’immagine del riccio che è a metà strada tra un frutto di mare primigenio, puro e una strana  astronave in grado di volare. Tant’è vero che il riccio stesso fu collocato inizialmente su un monolite alto 5 o 6 metri, eretto vicino al teatro Tito Schipa in corso Roma. Il monolite era un’idea che mi ricordava il film di Kubrick  2001 Odissea nello Spazio, e il riccio, collocato in cima al monolite, mi faceva pensare che sarebbe arrivato un momento in cui avrebbe spiccato il volo verso l’infinito, naturalmente non senza condurmi con sé. Le cose in seguito si svolsero diversamente perché certi uomini che si occupano della politica e che sono incapaci di amare l’arte, ritennero che il monolite fosse alto e disturbasse. Insomma lo fecero abbattere e spostarono il riccio su uno scoglio». 
 
Lei si concentra in particolare sugli effetti della spiritualità presente nell'atmosfera rarefatta della sua arte che riesce a far perdere alla materia tutta la sua pesantezza per renderla forma assoluta. Qual è  il confine tra la materia e lo spirito?
«Penso sia difficile conoscere il confine tra la materia e lo spirito. Qualcuno suppone che la materia abbia una sua interiorità e quindi un’anima. Troppo presto per dirlo. Noi umani siamo davvero un fenomeno recente; il sole stesso non è una stella vecchia e il nostro pianeta, in rapporto all’età del cosmo, non è che un bambino. Perciò molte delle domande che formuliamo non trovano ancora risposta. Per questo fatto mi ostino, coi pochi mezzi che ho a disposizione, di lavorare, di indagare sulla materia, tentando, ma è davvero troppo presto per farlo, di captare qualche sua vibrazione, qualche suo poetico segreto».
 
Quale consapevolezza racchiudono i lavori sul tema dell'amore tormentato e i tanti spazi vuoti che ritornano nelle sue opere?  I Cuori traboccano di  passione, sono pieni di fuoco ma anche di un peso che si carica dell’intensità del sentimento.Che cos'è  la vera essenza dell'amore  per Enrico Muscetra?
«Sul tema dell’amore sono privo, così come può esserlo un bambino, di ogni consapevolezza. I cuori che dipingo non sono affatto un condensato di passioni o sentimenti vari, ma semmai evidenziano il condensarsi disperato di un fantasma, di una mancanza o di una assenza su cui non c’è più nulla da dire, tranne costituirne il catalogo. Questa mancanza, questa assenza la vivo non in modo individuale ma collettivo: è un dolore che esula dal privato dal momento che si fonde con un dolore generale, planetario: è il dolore della coscienza nell’attraversare il buco nero del non senso del dolore universale, è la coscienza dell’assenza di un Dio di Luce. Pertanto, gli spazi vuoti sono una sfida allo spazio e allo stesso vuoto. Sono spazi che si aprono a una irragionevole e utopistica illusione, la stessa che mi spinge a costruire con materiali fatti di aria, di luce, è una sfida, un modo per rivendicare la presenza di tutte le assenze del mondo. La mancanza organica del bene in generale e delle cose e delle persone care che ci precedono in questa assenza irreversibile, mi fa supporre la presenza di uno squilibrio cosmico nella materia, o diversamente, il sospetto di essere da essa  mal tollerati.  E’ per questo, semplicemente per questo, che attraverso l’arte faccio della materia oggetto di indagine. Sull’amore, non ho consapevolezze né verità palesi perché ciò che chiamiamo amore mi sembra sia l’effluvio di un sentimento che ci lega alle persone e alle cose della vita soltanto in riferimento  ad un modo collettivo subordinato di vederle e di viverle. Considerando i crimini e la disfatta della collettività e della storia dell’uomo sono tentato di coniare un neologismo alternativo, più efficace a decifrare le differenti azioni e malintesi suscitati e raggruppati all’insegna di questo termine. Per esempio si potrebbe denominare Amomi (Amo-mi)- mi amo, in alternativa. Mi sembra un neologismo più veritiero, consono ad illustrare questo nostro DNA compromesso da un Ego che in realtà ci impedisce di amare gli altri, di servire il nostro prossimo per intero. In questo deserto d’amore, in questa civiltà dell’amo-mi, il saper non amare potrebbe diventare persino meritorio: per disamare il prossimo, nella tregua di un rispetto che consenta di sopportarsi a vicenda occorrerà  almeno imparare la difficile arte di detestare se stessi. Sarebbe già qualcosa.
Se solo fossimo provvisti di questo bene inestimabile, di questa luce che si riversa forse come riflesso da un cielo che non ci appartiene, sicuramente non avremmo crocifisso colui che aspirava all’amore e alla potenza dell’amore, che aveva pietà dell’insipiente amore umano.
D’altro canto non posso neanche fare a meno di pensare – per dirla con Fernando Pessoa –“ che pur disperando nell’amore, non valga la pena almeno credere nei suoi dintorni, nella sua sublimazione”, ed avere così il conforto, per un attimo di tregua, di ricreare sia il Budda che l’amore».
 
 
Lei vive e lavora a Cracovia ma la sua anima è  salentina, la sua arte risente delle influenze del  Baltico e del Mediterraneo. Secondo lei il suo essere un grande artista viene compreso e vissuto  in egual modo e con la stessa intensità  sia in Polonia che in Italia?
«Non credo che il lavoro dell'artista sia influenzato dalla quotidianità, dalle situazioni geografiche o politiche, dagli avvenimenti della cronaca o della storia. Nell’opera d’arte anche il significato può essere un limite o qualcosa che mortifica la ricerca stessa. Io aspiro a creare opere in grado di superare il significato, che vadano al di là di esso, perché ogni significato contiene un limite. Se guardi un quadro, una scultura in cui il significato  prevale prepotentemente sull’insieme è segno che non è più opera d’arte ma ideologia, illustrazione. Non si può essere classificati sulla base dei simboli. Come artista si nasce e si muore ogni giorno».
 
Quali sono i suoi progetti futuri?
«Dissolvermi nell’arte, ma dal momento che la vita raramente affonda in essa con piena potenza, mi dissolverò malamente, debolmente».
 



Commenti:

Aurelio 18/MAG/2015

Hai ragione Enrico, porgere domande pertinenti in modo così coinvolgente fa scaturire risposte adeguate all'interlocuzione. La presentazione non riferisce però della tua importante mostra nel 2009 a San Francesco della Scarpa. Un abbraccio Aurelio

Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor