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Il racconto/ Aiuto. Mia figlia si sposa

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

26
GIU
2015

La prima volta che ho visto il ragazzo che poi sarebbe diventato il marito di mia figlia è stato un venerdì al ristorante. Quella sera avevo fatto tardi al lavoro e così mia moglie mi venne a prendere per poi andare a cena fuori. Uscito dall’ufficio la trovai nel parcheggio che m’aspettava. “Ciao. Dove andiamo? Ho una fame, non mangio da ieri”. Le dissi salendo in macchina. Mise in moto e si diresse verso la città vecchia, per poi fermare la macchina davanti al solito collaudato ristorante. Seduti, in attesa del cameriere, chiesi di nostra figlia:….. “E Paola? Dov’è? E’ a casa?” “No, siamo uscite assieme. La stava aspettando Simona, ma non so cosa devono fare questa sera. Forse vanno a farsi una pizza con gli amici”. Mi rispose, mentre spezzettava un grissino. “Perché non la chiamiamo e le facciamo venire qui con noi?” Chiesi, mentre stavo già facendo squillare il suo cellulare. Paola mi rispose che stava andando in centro con Simona, Francesca ed un amico e che mi avrebbe richiamato per farmi sapere cosa decidevano. Richiamò dopo qualche minuto per dirmi di aspettarla perché sarebbe arrivata di lì a poco. 

Quando si aprì la porta del locale, per prima vidi entrare Simona, poi si affacciò Francesca e in fine Paola che salutando manteneva la porta per far passare anche l’amico. “Simona e Francesca le conosci già papà. Questo invece è Rosario.” Mangiammo parlando del più e del meno, senza che Paola lasciasse trapelare nulla sulla presenza dell’amico e finita la cena ci separammo: le ragazze e Rosario ci salutarono dicendo che sarebbero andati a raggiungere altri amici. Io e mia moglie salimmo in macchina e prendemmo la via di casa. “Chi è quello li? Lo hai mai visto prima?” Chiesi, appena fatti pochi metri. “E’ un amico di Paola.“ Mi rispose. “Lo conosci tu?” “Di sfuggita.” Replicò. “Amico di Paola, in che senso? E’ solo amico suo?” “E’ un amico.“ Soggiunse vaga. “Solo di Paola?” Insistetti io. “Soprattutto di Paola.” Fu la sua laconica risposta. 

Paola non era più una ragazzina. Lavorava e aveva superato la trentina, ma giunti a casa pensai che forse sarebbe stato il caso di approfondire quell’argomento, così il giorno successivo, sabato, mentre stavamo pranzando, buttai lì la domanda: “Ti va di parlarne?” “Di cosa?” “Di questo tuo amico, come si chiama?” “Rosario. Cosa vuoi sapere?” Mi chiese, tenendo fissi gli occhi sul piatto. “Quello che ti va di dirmi, Paola”. Così anch’io fui messo al corrente che mia figlia stava assieme a questo Rosario già da qualche mese, che lo aveva conosciuto frequentando il corso di inglese e che era figlio di un ufficiale di marina. Da quel giorno Rosario cominciò a frequentare casa, a pranzare con noi la domenica e a cenare con lei dopo il lavoro. Passarono quattro anni nella tranquillità più assoluta. Stavano bene assieme, si vedeva che si volevano bene, e per noi genitori questo bastava. Poi una sera la sentii parlare con la madre di preparativi per il matrimonio, di acquisto di casa, mutuo, spese per la cerimonia, invitati e viaggio di nozze. Quando andai in salotto e sprofondai sul divano, come normalmente faccio dopo cena, non guardai i programmi televisivi e quando mi raggiunse mia moglie chiesi: “Cos’è questa storia del matrimonio?” “Stanno cominciando a pensarci.” Mi rispose, sedendosi e cercando il telecomando. Chiesi ancora di questi preparativi che i ragazzi stavano facendo….. Ma no, la data del matrimonio non era ancora stata fissata e nemmeno quella per le prove dell’abito, e nemmeno della lista nozze e degli invitati, si era detto nulla. Ne avevano parlato solo vagamente. Stavano pensandoci, questo si: “Ma non è stato ancora deciso nulla di preciso.” Concluse, cambiando canale.

Acquistarono casa. Chiamarono una ditta per la ristrutturazione. Paola cominciò ad andare sempre più spesso dal parrucchiere: “Per trovare l’acconciatura migliore.” Mi spiegò mia moglie. Prese anche appuntamento per le prove dell’abito; girarono per scegliere mobili e corredo e alla fine venni coinvolto anch’io, ma solo perché provvedessi all’acquisto di un completo elegante, indispensabile al padre della sposa.

Il giorno programmato sembrava così lontano, invece quando vidi la casa invasa da truccatrici, parrucchieri e fotografi, capii che il 20 dicembre era arrivato e che il mio ultimo compito di padre sarebbe stato quello di togliere dal cellofan l’abito da cerimonia e accompagnare mia figlia all’altare. Dicevano che quella sarebbe stata una giornata memorabile, per gli sposi e per i genitori, ma io cambiai umore e mi incupii lo stesso. Nessuno badava a me, erano tutti alle prese con mia figlia e mia moglie, così smisi di vestirmi e, chiusa la porta della stanza, mi sedetti sul letto e cominciai a pensare: quanti anni erano passati? Quando aveva fatto la prima comunione e la cresima? Mi sembrava fosse ieri che sorridendo mostrava l’apparecchio per correggere gli incisivi. Quando aveva finito gli studi e iniziato a lavorare? Mi raddrizzai e mentre ripresi a vestirmi, indossando camicia di seta, cravatta, gilet, abito scuro e scarpe lucide, che mi facevano un male del diavolo (abbigliamento rigorosamente stabilito da mia figlia), mi passò davanti tutta la sua vita, da quel primo giugno, giorno della sua nascita, sino a questo inopportuno 20 dicembre. Mentre stavo vaneggiando tra me, venni richiamato alla realtà da un perentorio: “Non sei ancora pronto?” di mia moglie che, spalancata la porta e vedendomi ancora indaffarato con bottoni, gemelli e senza scarpe, si stava preoccupando. “Dai, Paola ti aspetta. Sbrigati, dovete uscire dal portone assieme. I fotografi sono giù che aspettano.” Tutto come previsto, come stabilito: auto rigorosamente nera; arrivo davanti al sacrato; corsa di mamma e amiche per sistemare l’abito e velo appena Paola mise piede a terra; entrata in chiesa sottobraccio con le note della marcia nuziale di Wagner che si stavano diffondendo nella navata. Messa con il fatidico sì, foto, auguri, baci e abbracci. Uscita dalla chiesa degli sposo tra gli applausi. Valanghe di riso gettate in aria e negli occhi mentre i colombi, svolazzanti sopra la gente, attendevano che tutto si quietasse per poter iniziare il loro banchetto. Io, defilato in un angolo, dovetti ritornare nella mischia, tra sposi e invitati, per le foto di rito e per salutare e ricevere gli ennesimi auguri, anche da perfetti sconosciuti. Dopo il pranzo e i ripetuti brindisi arrivò anche il fatidico taglio della torta e la consegna delle bomboniere. Finalmente la giornata stava volgendo al termine. Il giorno dopo partenza per il viaggio di nozze: Natale in Finlandia, capodanno a Londra, Epifania a Parigi.

Ancora non mi ero reso conto cosa significasse l’acquisizione del nuovo titolo e ruolo di suocero, che da quel momento mi spettavano di diritto. Lo capii quando, tornati dal viaggio di nozze, i ragazzi cominciarono a chiamare per risolvere quei piccoli ma fastidiosi problemi che l’esperienza rende innocui, ma che al primo impatto sembrano insormontabili. 

Le cose si stavano ormai avviando sul binario della normalità e della consuetudine, con Paola che dopo il lavoro qualche volta passava da casa per salutarci e a volte aspettava Rosario per cenare con noi. Le domeniche le avevano programmate in modo da non scontentare nessuno: a pranzo una volta da noi e una volta a casa dei genitori del marito. 

Erano passati forse tre mesi da quel fatidico 20 dicembre, quando una mattina, appena alzato, mi affacciai sulla porta della stanza vuota di mia figlia: le coperte del letto erano tese e senza una piega, la sua scrivania ordinata e sgombra da oggetti e cellulari. Sedie e poltrona libere da indumenti e borse. Tutto in ordine. Nulla da eccepire. E’ nata, cresciuta e vissuta con noi per più di trent’anni, ed ora? Ora ha la sua vita, la sua famiglia, la sua casa e noi ci dobbiamo accontentare di sentirla al telefono, di vederla qualche volta la sera, e la domenica quando è il nostro turno. 

Ero ancora appoggiato alla cornice della porta e lasciavo scivolare qualche lacrima sulle guance, quando sentii la mano di mia moglie sfiorarmi la spalla e tirandosi la porta dire: “Chiudiamo se no entra la gatta e lascia i peli dappertutto”. Ma chiudendo stava guardando per terra e la voce le si era incrinata. 

 



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