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OZLEM ONDER/ Il mio nome è Nostalgia

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

23
OTT
2015
La storia di un‘attivista curda, rifugiata politica in Italia, che combatte per i propri diritti e quelli del suo popolo. Una storia di speranza, di impegno politico, soprattutto a favore delle donne 
 
Parliamo spesso di profughi, rifugiati e immigrati ma lo facciamo in termini di numeri, dati e statistiche, raramente ci preoccupiamo  di vedere con i loro occhi, parlare con  la loro voce e ascoltare il mosaico di esperienze dai tanti riflessi, racconti e immagini che potrebbero risvegliare le nostre coscienze e aprire la mente a significati inaspettati, perché il primo vero nemico e alleato di qualsiasi forma di discriminazione è l'ignoranza. Al contrario, la gioia di scoprirsi più vicini e simili del previsto, valica tutti i confini che dividono le culture, le ideologie, le religioni, le nazioni e qualunque altro dei modi in cui gli esseri umani definiscono e delimitano le loro identità, del resto, l'approccio verso realtà diverse dalla propria richiede inevitabilmente una sorta di "osservazione partecipante" come la definiva il grande antropologo Malinowsky. Le culture diverse sono espressioni di un mondo dove ogni generazione assorbe esperienze, rituali, ricordi, bellezze e ogni persona è portatrice di esigenze e sogni legittimi, profondi, personali e universali. Proveremo a  conoscere meglio paure, problemi e sogni di chi ha intrapreso il viaggio della speranza, fuggendo dalla propria terra per raggiungere la salvezza e sperare in un futuro migliore, lo faremo attraverso le parole di Ozlem Onder, giovane curda di Turchia, rifugiata politica a Milano e coraggiosa  attivista  per i diritti del suo popolo. Una piccola, grande donna che lotta per la  pace, quella pace che non può essere imposta con il terrore e  con le armi.
 
Il  tuo  percorso migratorio non è diverso dal viaggio della speranza di molti profughi che ancora oggi raggiungono le nostre coste ma, al contrario di  molti, tu sei stata fortunata. Cosa vuol dire essere profughi  e stranieri rifugiati costretti a fuggire dalla propria terra per raggiungere la salvezza?
«Io sono arrivata in Italia a 7 anni, con mia madre e 4 fratelli. Il nostro viaggio della speranza si è fermato a Milano dove oggi mi ritrovo a fare la volontaria per l'assistenza ai profughi. In Italia 15 anni fa non c'era distinzione tra essere un rifugiato o un migrante economico. In ogni caso dovevi cavartela da solo. Mia madre lo capì molto bene e iniziò subito a darsi da fare lavorando e studiando, ma soprattutto scegliendo di far studiare  noi figli. Io mi sentivo esattamente come tutti gli italiani fino alla prima media, quando andai a finire  in una classe composta solo da 12 studenti, tutti stranieri. Mentre le altre due prime erano composte da 25 alunni italiani. Lì  mi resi conto  di non essere italiana e che l'integrazione tanto sognata era un percorso lungo, non semplice né scontato. Questa consapevolezza aumentò a 16 anni quando presero la mia impronta per il permesso di soggiorno. Mettendo da parte questi dispiaceri che inizialmente  mi hanno fatto sentire inevitabilmente "diversa", io e la mia famiglia abbiamo iniziato gradualmente a sentirci parte attiva di questo Paese. Sì, noi siamo italiani e ci siamo sempre impegnati ad essere dei migranti di successo. Ricordo sempre le parole di mia madre:"fatevi amare dagli italiani, non permettete che vi dicano che siete sporchi, stupidi e inferiori. Fatevi conoscere". Ci incentivava ad andare bene a scuola, ad essere educati e ad avere un aspetto molto curato. Essere stranieri rifugiati non è facile perché sei lasciato solo in un mondo  culturalmente e linguisticamente nuovo e occorre  affrontare il problema del lavoro, della casa  per avere una vita dignitosa e talvolta capita di dover  combattere stereotipi, pregiudizi ed etichette razziste che ti vengono assegnate. Farsi conoscere, accettare è purtroppo anche rinunciare a una parte di sé per l'integrazione».
 
Hai perso amici e parenti sotto le bombe di stato perché avevano la  sola "colpa" di essere nati curdi. Per la stessa colpa hai parenti rinchiusi nelle carceri turche e altri che hanno abbandonato i loro sogni per combattere lo Stato Islamico. Da quando sei  in Europa hai sempre incontrato accoglienza e integrazione?
«Il problema è di fondo, in Turchia c'è sempre stata repressione psicologica che  vietava ad un curdo di rivelare la propria identità etnica. Fino a qualche anno fa non si poteva dire:"IO SONO CURDO".  Anche quando si emigra questa pressione psicologica continua a  far parte di te. Per questo  i milioni di curdi in Germania dicono di essere turchi. Lo stesso succede anche in Italia. Io da bambina facevo  esattamente questo. Rispondevo di essere  turca, ma  la mia insegnante di italiano delle elementari  riuscì a farmi comprendere l'importanza delle mie radici e da lì  iniziai a sottolineare: "sono curda della Turchia". Gli italiani si stupivano e mi rispettavano. Io ho sempre amato questo Paese. Qui sono stata accolta, qui ho avuto le mie opportunità e  ho creato la mia nuova identità di curda-italiana e turca, non  ho mai rinnegato le mie origini,  ho acquisito del vostro e mantenuto del mio. Con il tempo ho notato che la maggior parte degli italiani sono molto sensibili alla causa curda e conoscono Ocalan. L'amarezza è stata quando ho conosciuto diverse ragazze turche nel percorso universitario,  quando rivelavo le mie origini si allontanavano. Addirittura una volta una ragazza turca mi disse: "perché studi politica se tanto voi (curdi) non avete neppure un Parlamento?" Ma gli italiani hanno sempre creduto in me, facendomi  sentire una di loro».
 
Cosa significa nascere donna in Turchia? L'emancipazione delle donne e  quindi il femminismo nella modernizzazione in quale direzione si sta muovendo?
«La Turchia è un paese musulmano ma non è un paese arabo e questo punto è fondamentale. Culturalmente la Turchia ha un'altra storia. Negli anni '20 c'è stata la laicizzazione del Paese e le donne hanno assunto un ruolo importante nella vita privata e pubblica. Negli anni '20 le donne turche erano le donne dalle gonne corte e unghie rosse. Oggi invece le cose sono cambiate. Con i 13 anni al potere di Erdogan, la donna turca si sta sempre più islamizzando anche se non penso valga per la maggioranza delle donne, le donne curde invece aquisiscono più libertà proprio come insegnava il nostro leader Ocalan: " La liberazione della nazione avviene con la liberazione delle Donne".
Se Erdogan rimarrà ancora al potere, il ruolo della donna turca finirà per essere limitato ai lavori etichettati solo per una donna. Quello della moglie, madre e casalinga perfetta. Ma questa mentalità non c'è per le donne curde, che arrivano da una società che in origine era matriarcale. Le donne curde parlano in pubblico, sono in prima fila con gli uomini, sono in maggioranza nella politica. Stanno combattendo ancora per una piena emancipazione, ma ce la faranno».
 
Nei giorni trascorsi a Suruc sono morti in un attentato terroristico molti  giovani attivisti che volevano costruire un mondo migliore anche in mezzo alle macerie.Tu, figlia del Kurdistan, una delle più antiche civiltà del mondo, sei scesa in piazza a Milano  insieme a numerosi manifestanti appartenenti alla comunità curda per ricordare le vittime dell'attentato di Ankara, sottolineando che non bisogna mai vergognarsi  delle proprie origini. Finché ricorderemo la nostra identità, vivremo e saremo liberi. Cosa vuol dire essere attivista curda e combattere per i propri diritti?
«Io non pensavo di diventare attivista curda per i diritti del mio popolo. Il mio intento era solo quello di studiare e, un domani, aiutare il mio popolo, perché nel mio Paese mancano tanti studenti specializzati, purtroppo pochi curdi studiano. Crescere in Europa mi ha avvantaggiato in questo senso. Ho sempre sentito un senso di responsabilità dovuta  alla mia salvezza. Il mio studio diventava anche quello delle mie cugine, zie e delle altre ragazze curde che non hanno avuto le mie opportunità. Tutto ha avuto inizio con il mio primo post sui curdi, una riflessione dopo l'attentato di Suruc, intitolato IO SONO KURDA. A quel post seguirono centinaia di condivisioni, la mia prima intervista e un sacco di persone iniziarono a  scrivermi, a farmi domande, a chiedere spiegazioni. Dal  21 luglio mi ritrovai per caso alla manifestazione in prima fila, così ha avuto inizio il mio impegno come attivista curda. Ho ricevuto minacce sia dai turchi che vivono in Turchia che in Europa. A volte ho anche paura ma questo mi sprona ad andare avanti. Il mio impegno è quello di risvegliare le coscienze degli italiani e incentivare i curdi a impegnarsi intellettualmente, non solo a scendere in piazza occasionalmente, perché il mio è prima di tutto  un impegno intellettuale».
 
Turchi e curdi marciano  insieme contro il governo per combattere il sistema di oppressione nemico dell'umanità, tra nuove spinte al cambiamento e grosse resistenze. Se i giovani marciano compatti in nome della Pace, della Libertà e delle Democrazia  forse c'è ancora speranza. Secondo te la Turchia democratica reagisce?
«La Turchia della Pace, Libertà e Democrazia è sempre esistita. La popolazione vive insieme e pacificamente senza distinzione. Curdi e turchi vanno a scuola insieme, lavorano insieme e si sposano tra di loro. La Turchia democratica oggi reagisce maggiormente perché si  rende conto che il governo rovina la loro convivenza. Io prendo sempre come esempio una città bellissima, molto antica che si chiama Mardin, città curda in cui vivono turchi, curdi arabi, yezidi. Qui parlano diverse lingue, ci sono diverse etnie e religioni ma convivono pacificamente da secoli perché tra di loro si "riconoscono". Il problema è che il governo turco invece  non riconosce i diritti dei curdi che sono 20 milioni e finché non li riconoscerà non si potrà parlare di un governo Democratico. Ma sono sempre più convinta che se la convivenza religiosa e culturale esiste a Mardin, può tranquillamente esistere in tutta la Turchia».
 
Ripensando alla tua splendida terra cosa ti manca oggi più di ogni altra cosa?
«Non ricordo molto, ero piccola quando sono andata via. Il mio nome Ozlem è un aggettivo turco che significa Nostalgia, strano segno del destino. In effetti mi manca tutto. In particolare un bellissimo albero, tipico della nostra terra. Si chiama albero dei desideri. Le donne curde e turche usano andare a pregare questi alberi ed esprimere un loro desiderio. Poi dopo averlo espresso, annodano il loro velo al ramo dell'albero, è un rituale bellissimo  che mi porto nel cuore. Ma una  delle immagini  che resta indelebile nella mia  mente, riguarda i fiori di papavero rossi nei campi, e quando li vedo  in Italia,  mi provocano infinita nostalgia della mia terra. Mi capita spesso  di vedere questi fiori sotto ad un binario del tram qui a Milano, e li paragono ai curdi. Questi papaveri delicati, che non si spezzano alla velocità agressiva del tram, mi fanno venire in mente il mio popolo che non si sottomette alla repressione e alle violenze dei vari governi...».
 


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