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I confetti sulle bare bianche

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

30
OTT
2015

L’evoluzione dei tempi e dei costumi ha portato anche nella città bimare e nel territorio dell’area ionica variazioni e cancellazioni in quella che si può, a buon motivo, definire “tradizione del culto dei defunti”.

E’ noto che oggi la mentalità imperante è agli antipodi rispetto a quella del passato, ma possiamo affermare che non per questo il culto dei defunti ne sia uscito mortificato, anzi, proprio a causa delle vicende delle quali le nostre cronache ogni giorno ne sono piene, si deve affermare che è più radicato, nella gente di terra ionica, il senso della transitorietà della vita che la spinge a considerare degna di pietà religiosa e di cristiana testimonianza la visita al cimitero.

Sono diverse le componenti che formano il capitolo della tradizione del culto dei defunti in terra ionica e per cercare di essere il più esaustivi possibili ci siamo rifatti ai ricordi della nostra infanzia, ma abbiamo attinto a piene mani dagli scritti di Antonio Fornaro e di Giacinto Peluso, i maggiori studiosi dell’argomento di oggi.

I nostri nonni avevano fin da tenera età quasi un assillo: quello di provvedere a tenere nel comò e nell’armadio il vestiario per il viaggio nell’aldilà e quello di assicurarsi una sepoltura in una delle Confraternite laicali e delle Pie Società di Mutuo Soccorso quando non si disponeva, caso rarissimo, di una propria cappella gentilizia.

Quando era chiaro che per una persona gravemente ammalata la morte attendeva dietro l’uscio di casa, non restava altro che recarsi nella parrocchia di residenza e chiamare il prete per quella che un tempo si chiamava “estrema unzione” e che oggi si chiama “Unzione degli Infermi” o “sacramento degli infermi”.

Era quello del viatico un segno chiaro che l’ammalato grave aveva i momenti contati. Le donne erano più propense a confessarsi e a ricevere il sacramento dell’Eucarestia e dell’Unzione degli Infermi, gli uomini lo erano di meno perché nemmeno sul letto di  morte se la sentivano di raccontare al prete le loro marachelle.

Non parliamo, poi, dei moribondi avari. Sentite questa. Un vecchio proprietario terriero, consapevole di essere giunto al capolinea della propria vita, si fece convincere dalla moglie di farsi avvicinare dal sacerdote. Questi gli chiese subito se volesse ricevere l’olio santo e lui, da buon avaro, chiese se si dovesse pagare per l’olio santo. Quando il sacerdote gli disse che tutto era gratuito lui venne fuori nella espressione ormai nota a molti tarantini: “non si paga, allora ungimi tutto”. Per cui l’espressione tarantina “ungeme tutte” è sinonimo di richiesta e ottenimento di gratuità.

Ritornando al viatico dobbiamo ricordare che era formato da un chierichetto che con un campanello avvertiva del passaggio dell’Ostia consacrata. Questa veniva quasi coperta sotto un ombrellino adatto alla cerimonia e sotto il quale trovava posto il sacerdote che reggeva l’ostia nella teca. Al suo passaggio gli uomini si scoprivano il capo, le donne si inginocchiavano e i bambini facevano il segno della croce. Le donne anziane accompagnavano questo momento con preghiere popolari dialettali.

Nel momento della morte il dolore era immenso e tutto il vicinato apprendeva la funerea notizia dalle grida di dolore che partivano dalla casa dell’estinto. Ci si preoccupava di tenere anche l’inverno uno spiraglio di finestra aperta per consentire secondo la credenza popolare all’anima di uscire dal corpo e di non dannarsi, ma di andare direttamente al giudizio divino.

Altra operazione era quella di coprire tutti gli specchi presenti nella stanza del defunto per evitare che, specchiandosi, potesse quasi disperarsi e avere nostalgia della vita terrena appena abbandonata.

Subito dopo si pensava a lavare in ogni particolare il corpo del defunto perché, dicevano le nostre nonne, che si doveva presentare pulito anche sotto questo aspetto davanti a Dio. Si procedeva, poi, alla vestizione del defunto, si preparava la camera ardente liberandola da ogni suppellettile e mettendo intorno delle sedie impagliate che si chiedevano in prestito al vicino di casa.

Iniziava così la “visita al morto” e coloro che non se la passavano bene economicamente coglievano l’occasione per fingersi conoscenti del defunto per poter gustare un buon cappuccino o caffè e “i biscotti del morto”. Fino agli anni Trenta si pagavano le donne che, si diceva che facessero “le canzoni al morto” cioè a squarciagola tra un misto di pianto e di canto si strappavano i capelli e tessevano le lodi del defunto suscitando in tutti dolore e lacrime.

Altro momento importante era quello del funerale e, in particolare, il carro funebre rappresentava il segno esteriore del ceto di appartenenza del defunto, era un segno chiaro di ostentazione che poco si addiceva al triste momento dell’estremo viaggio verso la sepoltura. Il cocchiere nella sua livrea sembrava il “re” del mesto corteo. Aveva un gran da fare nel mettere insieme il numero di cavalli richiesti dalla famiglia. Questo andava da un minimo di due ad un massimo di dieci cavalli. L’impianto del carro funebre, di colore nero pece, era  di stile baroccheggiante ma ciò non impediva che intorno allo stesso si formasse un corteo accompagnato dalla banda musicale che suonava le marce funebri con lo scopo di strappare lacrime a volontà. Il corteo era accompagnato dalle suore che reggevano i lacci ai lati del carro funebre e dalle orfanelle che pregavano all’interno del corteo.

Oggi la scienza medica ha ridotto a lumicino il caso dei decessi infantili, ma un tempo a Taranto era molto frequente vedere sfilare per le vie cittadine il carro funebre con la bara entrambe bianche, segno che il defunto era un bambino. Lo stesso colore bianco, segno di purezza e di innocenza, era riservato al funerale che riguardava le donne nubili per indicare la loro verginità. Il carro funebre bianco riservato ai bambini e alle signorine era a sei cavalli bianchi che venivano coperti sul dorso da gualdrappe festonate di giallo. Nel preparare la piccola bara c’era una cura incredibile tanto che la gente chiamava la piccola bara con il nome di “bomboniera” perché addobbata con il tulle bianco. Al passaggio del corteo si lanciavano sula carrozza confetti bianchi e confettini colorati, si facevano sparare fuochi e botti quasi in segno di gioia perché quell’anima era volata direttamente in Cielo.

Di ritorno a casa non si aveva alcuna voglia di mettere qualcosa sullo stomaco, ma i parenti stretti provvedevano a portare già tutto cucinato un buon brodo e per una settimana gli stessi parenti si preoccupavano di portare a casa dell’estinto il pranzo bello e pronto.

Era questo “ ‘u cunzele”, un ristoro quasi per alleviare e consolare la famiglia colpita dal lutto. Gli uomini non si sbarbavano per una settimana e le donne non si lavavano e non  lavavano i panni.

Si facevano vedere pubblicamente soltanto per il trigesimo in Chiesa, per partecipare alla Messa e distribuire la “foto-pagellina” del caro estinto. Rispettavano rigorosamente il rituale tradizionale di vestire in nero con la veletta davanti agli occhi e attaccata al cappello, per gli uomini erano obbligatori tre segni del lutto: la cravatta nera, il bottone nero e un fascione sul braccio sinistro, quello dalla parte del cuore. Le donne, per tradizione, portavano al collo l’immagine in ceramica del marito o dei figli prematuramente scomparsi e facevano ardere anche in casa un lumino davanti alle foto dei cari estinti.

L’ultima parte del servizio di oggi la dedichiamo alla proverbistica che gentilmente ci è stata ricordata da Fornaro e che per praticità riportiamo in lingua italiana. I tarantini per non dire che un loro caro era morto e stava al Cimitero così dicevano: “E’ andato a guardare gli olivi di Nitti”, un eufemismo perché dove oggi sorge il Cimitero cittadino di “San Brunone” un tempo era esteso un oliveto della famiglia Nitti.

Altri dicevano: “Se ne è andato a San Brunone”. Per chi era opprimente si diceva che “stava come la morte addosso ai giovani”.

Altro proverbio diceva che “la morte aiuta (‘acconze’) qualcuno, e che invece rovina (‘sconze’) altri”.

Non si deve mai augurare la morte di nessuno perché “morte pregata non  arriva mai”.

Era quello del culto dei morti un segno tipico dell’epoca. Oggi si pensa ad onorare la memoria di chi ci ha preceduto nell’adilà in maniera diversa. Non importa, l’essenziale è non smarrire il senso della sacralità che racchiude ogni bara e ogni tomba, ricca o povera che sia.



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