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LIVIO ROMANO - L'incanto della parola scritta

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

7
NOV
2015

Dal 1996, anno in cui Livio Romano si fa notare a livello nazionale in “Ricercare. Laboratorio di nuove scritture”, approdando due anni dopo in “Sporco al sole. Racconti del Sud estremo. Prima antologia dei narratori meriodionali under 25 (o quasi)”, fino al 2012, anno di pubblicazione del pamplet satirico sulla scuola italiana “Diario elementare”, la scrittura di Livio Romano rivela una vitalità narrativa che si caratterizza da un lato per la continua sperimentazione linguistico-espressiva e dall’altro per la rappresentazione non stereotipata del reale, antilocalistica e non provinciale, dando voce ad un Sud non patinato né cristallizzato in canoni, temi e situazioni “tipicamente” meridionali e rappresentando un punto cardine di quella rivoluzione culturale che negli anni Novanta investì il Sud e che oggi più che mai va ripresa e fatta agire. Viviamo un tempo storico omologante, claustrofobico, localistico e autoreferenziale, un tempo storico che apparentemente sembra voler riscattare l’immagine del meridione, della Puglia, ma di fatto ne esalta gli aspetti folcloristici e stereotipati, restituendo l’immagine di una terra dalla sfolgorante bellezza del paesaggio, cartolina perfetta dal gusto un po’ retrò, carta da parati che oltre alle crepe nasconde anche le lungimiranze e quelle intuizioni tra l’ironico e il visionario che scavalcano i confini regionali e offrono una lettura alternativa, di ampio respiro, non appiattita sulle mode. Su questa linea si muove tutta la produzione di Livio Romano, i cui romanzi hanno avuto eco non solo in tutta Italia, ma anche all’estero. Recentemente si è svolta la Fiera di Francoforte: l’appuntamento internazionale più importante dedicato ai libri e a tutti coloro che intorno ai libri si muovono e operano. Occasione che permette di capire quel che sta succedendo sul versante della scrittura e della lettura, gli orientamenti e le proposte. Abbiamo perciò voluto ascoltare proprio Livio Romano, al ritorno da Francoforte, ponendo l’accento su questioni che riteniamo essere determinanti  per far ripartire, proprio da qui quella rivoluzione culturale cui accennavamo. Un autore che rivendica l’ascendenza tutta straniera della sua formazione e la contaminazione fra codici espressivi variegati: musica, letteratura, cinema.

Prima volta per te Francoforte?

«Ci ero già stato anni fa, dopo l’uscita di “Niente da ridere”.  La mia agente di allora vendette i diritti in Spagna e Germania, ma restò lettera morta. Comprare i diritti non significa necessariamente che l’editore decida poi di tradurlo e pubblicarlo. Eppure era un titolo che secondo me avrebbe funzionato assai bene sul mercato anglosassone. Ne ho avuto la riprova quando dei brani son stati portati in scena allo Smoke Alley Theatre di Dublino: la gente era attentissima, divertita, complimentosa».

Come ci sei capitato?

«Motivo banale, ho una nuova agente, volevamo conoscerci. Lei era in partenza per la Buchmesse, ci siamo incontrati là».

Che aria si respira in generale? Quali tendenze hai avuto modo di cogliere?

«L’aria è quella di tutte le fiere del mondo. Mi viene una specie di vertigine a vedere tanti editori e tanti libri tutti nello stesso spazio. Mi chiedo sempre: chi leggerà questa incredibile quantità di volumi? Ragionamento da italiano. All’estero la gente legge. Basti pensare alla stessa Germania. Le biblioteche sono ovunque, ti portano i libri a domicilio, una tiratura che da noi è considerata stratosferica, intorno alle diecimila copie, lassù si esaurisce solo per il semplice acquisto da parte della rete capillare delle biblioteche. Poi sono sempre attratto dall’area delle contrattazioni, dalla quale io sono ovviamente escluso e che però ho guardato da lontano con grande stupore e curiosità. Una specie di Borsa del Libro nella quale la negoziazione di un titolo avviene a tu per tu fra gli agenti e gli editori. Un bravo agente dovrebbe sapere tutto del titolo che sta proponendo, e riassumerne le potenzialità in una orazione brevissima, di pochi minuti. Molto semplice se rappresenti un autore che vende moltissimo, estremamente più delicata se provi a collocare un autore di nicchia. In generale si respira un’atmosfera assolutamente meno apocalittica che in Italia. Lo psicodramma sulla morte del cartaceo non tocca gli stranieri e molti addetti ai lavori sanno bene che gli articoli dei grandi giornali che ogni tot dichiarano in discesa il mercato dell’e-book non sono altro che spot pubblicitari commissionati dagli editori “tradizionali”. Un grandissimo direttore editoriale mi ha detto: “Le più fosche previsioni si son realizzate tutte, quello italiano è un sistema che sta collassando, e non c’è modo di porvi rimedio”. Verissimo, per quel che riguarda noialtri. Situazione che il trust fra Mondadori e Rizzoli potrebbe far peggiorare, per esempio accelerando la chiusura di tanti editori piccoli e indipendenti. Ma, in assenza di vere politiche nazionali di incentivazione alla lettura e all’acquisto dei libri, nessuno può ritenersi immune dall’aver partecipato a questa catastrofe. Il colosso Feltrinelli, per dire. L’imposizione di un solo canale di vendita: il loro. Da giurista, peraltro, trovo queste operazioni tutte invariabilmente censurabili, tutte protese a limitare a libera concorrenza. No, altrove quest’aria funerea non si coglie. Piccole, splendide realtà come Serpent’s Tail di Londra sfoggiano editor e manager giovanissimi e appassionati –nonché, suppongo, infinitamente meglio e frequentemente pagati dei colleghi italiani. Traducono ed esportano “prodotti” minori, per palati fini, con allegria e ottimismo. Ecco, la caratteristica più evidente, quella che più mi ha colpito negli stand stranieri, e soprattutto in quelli anglofoni (avevo pochissimo tempo, e nessuna voglia di fermarmi a salutare i soliti mammasantissima delle major italiane, né quelli, meno celebri ma altrettanto e per altri versi malinconici, più piccoli, pugliesi compresi), è quanto siano giovani e sereni questi operatori editoriali e che differenza di approccio abbiano rispetto agli omologhi italiani. La pentola putrida, in Italia, si sa, è stata scoperchiata di recente. Centinaia di editor, traduttori, lettori, correttori, grafici mal pagati o non pagati tout court. Che però esercitano un potere smisurato nei confronti di centinaia di migliaia di aspiranti pubblicatori. Non rispondono, o se lo fanno è per dirti quanto sei cane a scrivere, seguono un gusto tutto loro, si sentono - a ragione, direi: hanno dottorati e master e pubblicazioni a bizzeffe - depositari di scienza letteraria esatta. Guadagnano quanto la segretaria part time di un centro benessere e questo li rende biliosi, incattiviti».

Nel tuo ultimo libro, "Diario elementare"(2012) sei stato profetico: auspicavi, in alternativa ai noiosi e inutili corsi di formazione, la possibilità per gli insegnanti di andare al cinema, al teatro, alle mostre. Gratis ovviamente. Insomma: ora c'è il bonus che proprio a questo è finalizzato. Sarai felicissimo!

«Ho letto che la proposta di inserire questo bonus nella riformaccia fu avanzata da Marco Lodoli. L’unico aspetto salvabile di una manovra altrimenti criticabile da moltissimi punti di vista. Sì, io ne sono assai felice. Ma vedo questi avvoltoi della “formazione” già in agguato: “Acquista punteggio in graduatoria, prenditi un nostro Master coi soldi del buono”. Ma non solo. Sono sincero. In libreria, nei cinema d’essai, nei teatri, alle mostre ho sempre visto una parte davvero trascurabile di insegnanti, soprattutto della primaria. Se non c’è un’educazione, una pedagogia della letteratura anche per loro, i professori, sarà difficile che quei soldi vengano spesi nel modo giusto. In quel pamphlet proponevo una cosa ancor più rivoluzionaria. Che i collegi docenti fossero quasi costretti a frequentare convegni e seminari di alta cultura e assolutamente, radicalmente staccati dall’immediata spendibilità in classe di quegli argomenti. La Poetica di Aristotele, la filosofia di Adorno, le nuove frontiere della ricerca genetica, fisica quantistica: sparo a caso. Per tutti, matematici e italianisti, maestre di scuola e prof di ginnastica. Tenere la mente curiosa, aperta a nuovi stimoli. Sequestrarla per qualche ora alla spazzatura televisiva».

I tuoi lettori/lettrici dovranno aspettare ancora tanto per il tuo prossimo libro? Un'anticipazione è chiedere troppo?

«Non saprei. Ho finito di scrivere questo romanzo ormai due anni fa, dopo cinque anni di gestazione  - ma la stesura è durata solo otto mesi. Volevo racchiudere in un solo libro un po’ tutte le esperienze diverse che ho fatto in questi anni. L’utilizzo del pastiche linguistico, l’impegno civile, la commedia. Tutto dentro a un romanzo complesso, pieno zeppo di personaggi, di vita, di avvenimenti e, qua e là, sentimenti. Ho ricevuto molti complimenti da parte degli editori, sintetizzabili nella formula: “Sei molto bravo, il romanzo è iperletterario, l’intreccio labirintico, non lo venderemo mai”. Ma sono fiducioso. Ho sviluppato, insieme a uno sguardo cinico che trasuda in quelle pagine, una pazienza biblica. Forse attorno a maggio-giugno. Ma non ne sono affatto sicuro, dipende poco da me».

Si legge sempre meno. "Per colpa di chi?" direbbe Zucchero. Cosa ci dice Livio Romano in proposito?

«Facile dar la colpa ai social network che assorbono il gran tempo dei ragazzi e anche il nostro. Non saprei. Io vedo questi libri di liceo delle mie figlie che, per quanto mi riguarda, fanno fuggire un sedicenne dalla lettura. Ma puoi star mesi a torturare i ragazzi con analisi semiologiche del testo? E dov’è finito il testo in sé, se ce n’è mai stato uno? Voglio dire, mi capita di andare spesso a parlare in scuole, università e associazioni culturali come la Dante Alighieri in Svizzera. Ecco, lì un professore all’inizio dell’anno sa che dovrà affrontare 10-12 libri. Non estratti o campioni o antologie. Romanzi. Per intero. Che i ragazzi dovranno leggere e sui quali dovranno riflettere. Mi pare un approccio più sano alla letteratura, lo dico da osservatore esterno: pur essendo impegnato in un dottorato di ricerca in Storia della letteratura, ho una formazione giuridica. Ma poi: il piacere, signori. Il puro, semplice, godurioso sollazzo nel seguire le avventure di quelli che Barthes chiamava ‘personaggi di carta’. Ecco, è questo che si dovrebbe insegnare ai ragazzi. Pure le associazioni culturali nostre sono affette da questo intellettualismo narcisista, se posso usare questo brutto ossimoro. Si prodigano per organizzare presentazioni, happening, vernissage, conferenze: perché ci siano i fiori sul tavolo del relatore, le foto su Facebook, il servizio sul giornale locale. Per due volte, a Nardò, quest’anno, ho ospitato gruppi di lettura -manco a dirlo svizzeri- i quali nell’assoluto anonimato, al fine di inseguire il puro incanto della parola scritta: si riuniscono e leggono, anche ad alta voce (mezzo potentissimo di diffusione del virus della lettura), lo stesso libro anche più volte. E ne discutono, e partono per andare a trovare l’autore, gli scrivono, ne scrivono. Tu conosci realtà del genere da noi? Io no. Solo una volta, a Pavia, incontrai un gruppo di lettura diretto da un ingegnere chimico. Persone meravigliose e appassionate, che mai e poi mai ambirebbero a far apparire la loro attività sui media».

 



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