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LE FERIE FORZATE

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

13
NOV
2015
Quando il commesso venne a comunicarmi che mi volevano in direzione, la prima cosa che feci fu quella di analizzare mentalmente tutte le pratiche che avevo evaso quel giorno e sino alla settimana precedente, ma non trovando nulla di anomalo, mi chiesi dove avevo sbagliato? Non avendo trovato nulla che potesse essere la causa del richiamo e non riuscendo a capacitarmi, anche se era scontato che chi veniva chiamato in direzione lo era per una solenne strigliata, incominciai ad inventarmi scuse, così, alla cieca. Alle quattordici, orario d’inizio della pausa pranzo e come consuetudine anche quello stabilito per conferire con il dirigente, ero già in attesa di essere ricevuto. 
< Venga. Venga Marzina. Mi dica. Ma faccia presto perché mi stanno aspettando per una riunione e sono in ritardo.> Mi disse il dirigente quando mi vide. < Veramente dottore, mi hanno detto che era lei che mi voleva. > < Marzina? Vediamo. Ah sì. L’ufficio personale mi ha segnalato delle anomalie riguardanti il suo orario di lavoro. Comunque, siccome ho fretta, facciamo così: io le lascio la nota e lei prepari una risposta scritta, poi la firmo e la inviamo a quelli dell’ufficio personale > < Va bene dottore. Farò come dice lei. > < Mi scusi, ma come le ho detto ho fretta. Arrivederci Marzina. >. Aggiunse, mentre prendeva al volo la sua borsa ed usciva.
La nota del Personale, inviata in forma strettamente riservata, lamentava la mancata ottemperanza, del sottoscritto, sull’orario di lavoro perché, scrivevano: «Prendendo servizio prima e terminando oltre l’orario stabilito e non risultando autorizzazioni in merito, il funzionario mette in seria difficoltà l’ufficio scrivente». Inoltre, per quanto riguardava il congedo ordinario non goduto, invitavano il dirigente del predetto sottoposto a predisporre, con cortese massima urgenza, alla calendarizzazione delle ferie arretrate. Le contestazioni non facevano una piega. Per quanto riguardava l’orario di lavoro era vero, in ufficio arrivavo sempre prima e me ne andavo sempre dopo. E per quanto riguardava l’appunto mossomi sul mancato godimento delle ferie, anche li avevano ragione, perché negli anni ne avevo accumulato più di novanta giorni. In effetti, da quando ero ritornato single, mi ero aggrappato in modo totale al lavoro e di ferie ne prendevo poche, solo qualche giorno durante il ponte di ferragosto e quello di Natale. Comunque, come suggeritomi, preparai la risposta scritta e allegai anche due domande di ferie di quindici giorni. Quando la portai al dirigente, pensavo dovesse trovare obiezioni invece, senza leggerla firmò la lettera e, senza guardarle, siglò le due domanda di ferie. E così, da quel momento, mi dovetti scervellare per organizzare quei trenta giorni di ferie forzate. Il primo giorno rimasi a letto per un po’, ma poi buttai all’aria le coperte e iniziai ad aprire gli armadi e a suddividere tutti gli indumenti che non usavo più da un pezzo: camicie, maglioni e abiti. Ne feci un pacco e misi tutto davanti alla porta d’ingresso. Quell’operazione non mi prese molto e alle nove, preoccupato per come avrei potuto occupare il resto della giornata, stavo già nel panico e allora meglio uscire e andare a trovare un amico che gestiva un maneggio. Arrivato al maneggio, trovai un formicaio di gente snob indaffarata ad attendere. Quando Antonio, il proprietario, mi vide, mi disse che stava sellando per quella comitiva che voleva uscire a cavallo. Se volevo, aggiunse, avrei potuto aggregarmi a loro: mi avrebbe dato da montare la solita vecchia Desy. Io mi guardai intorno ma, confrontando l’abbigliamento da equitazione che tenevo nel bagagliaio della macchina con quello che vedevo indosso a quei signori e alle loro amazzoni, ringraziai e declinai l’invito. Attesi invece che il corteo se ne andasse a fare la sua passeggiata e poi, fattomi indicare il box della Desy, andai a sellarla. 
< Mi raccomando dottore, non si dimentichi che la cavalla deve capire subito chi comanda, chi la cavalca. Non si lasci prendere la mano. > Mi disse Antonio, finendo di affibbiare le staffe e dando una pacca sul groppone della cavalla per farla muovere. Stetti fuori un paio d’ore, andando al passo e senza chiedendomi se la cavalla mi avesse preso o meno la mano, perché lasciai che percorresse i sentieri che voleva lei e all’andatura che più le piaceva: al passo. Il pomeriggio lo trascorsi facendo la spesa al supermercato e la sera ad annoiarmi a casa.
La domenica mattina, come tutte le domeniche, la passai in cucina a preparare i pasti che mi sarebbero dovuti servire per tutta la settimana. Nel pomeriggio invece mi andai a sdraiare sul divano e accesi la televisione e la serata, invece, la passai parlando al telefono con una collega che, saputo che non sarei andato in ufficio il giorno dopo, mi chiedeva lumi su come avrebbe dovuto fare per predisporre una pratica urgente. 
Il lunedì mattina mi sentivo come uno studente che avesse marinando la scuola. Camminavo per le vie del centro e trovavo tutto nuovo E mi stupì molto anche una domanda che sentii rivolgere a due ragazze da un loro coetaneo: 
< Sì. Siamo sorelle. > gli rispose una di loro. E lui, di rimando: 
< Sorelle? Ma siete figlie di stessi genitori? Non sembrate proprio sorelle. > Se la stessa frase l’avessi udita una decina di anni prima, l’avrei trovata improponibile, volgare, invece oggi, evidentemente, sembra sia entrata nella dialettica comune, almeno tra i giovani. Non me la ricordavo così la gioventù. 
Il martedì successivo, mentre cercavo di organizzare, il meno noiosamente possibile, la giornata, mi richiamò la collega per dirmi che da sola non ci stava proprio riuscendo a predisporre quell’atto e così ci mettemmo d’accordo e in serata venne a casa mia. < Prego, accomodati. Ti chiedo solo un minuto. > Le dissi, introducendola nello studio, mentre, dandomi uno stupido ma studiato tono professionale, cominciai a spostare senza motivo carte e oggetti che da sempre regnavano disordinati e indisturbati sulla scrivania.  < Eccomi qua. Come posso aiutarti? > Le dissi dopo quell’inutile manfrina. < Come ti ho detto, ho urgente bisogno del tuo aiuto, altrimenti scadono i termini. > Acceso il pc incominciammo: lei spiegava a grandi linee i necessari contenuti e io scrivevo. Dopo un’oretta, stampai le copia e finita l’incombenza professionale, ci trasferimmo in salotto per bere e parlare un po’. O meglio, mentre lei parlava dei figli, della sua separazione, del lavoro, io, sprofondato in poltrona, la stavo ad ascoltare piacevolmente colpito dal suo modo di fare. Stava parlando da un po’ quando la interruppi:
< Lorella, perché non continuiamo questa piacevole conversazione davanti un piatto di lasagne? Che ne pensi? > < Sai che stavo pensando la stessa cosa. > < Di andare a cena? > < Si. perché mi è venuta una fame.> Annuendo presi il cellulare e chiamai il ristorante. < Pronto Mario, è lei? > < Si. Chi parla? > < Sono Marzina. > < Carissimo dottore, mi dica. > < Ha un tavolo? Sarò lì, vediamo, al massimo entro mezz’ora. > < Che bisogno aveva di telefonare dottore, lo sa che per lei un tavolo lo troviamo sempre. Venga quando vuole. L’aspetto. > Rispose rassicurante il ristoratore.
Chiusa la comunicazione, mi rivolsi a Lorella: < Devi avere pazienza perché la macchina è nel box, ma il ristorante è qui vicino. > < Ma no, dai. Prendiamo la mia, è parcheggiata qui sotto. > Rispose alzandosi e raccogliendo le sue cose. Arrivati in strada, con il portiere dello stabile che ci stava osservando da dietro i vetri della guardiola perché incredulo di vedermi in compagnia di una signora, ci mettemmo in macchina. < Allora andiamo? Ho una fame. > Esordì Lorella, mettendo in moto.< Sai dov’è il Sagittario? > < Il ristorante se permetti lo scelgo io. Ti fidi? > < Sì, mi fido. Certo che mi fido. Ma come hai sentito, ho già prenotato al Sagittario. > Risposi, quasi imbarazzato. < Ma dai… Telefona e digli che hai avuto un contrattempo. > Dopo pochi minuti la macchina girò per una via secondaria e poi entrò in un cortile condominiale. < Siamo arrivati. > < Dove? > Chiesi incuriosito. < A casa mia. Abito al secondo piano. Vieni. > < Mi metti a disagio, non volevo disturbare. > < Non disturbi. Ti ho portato io qui. I bambini sono partiti oggi col padre e tornano domenica sera. Non preoccuparti. > Mentre Lorella cercava di rimediare al disordine lasciato dai figli io, beatamente assorbito da quella atmosfera, mi lasciai cadere sul divano. < Scusa il disordine Luca, ma sai, sono dovuta uscire prima dei ragazzi e loro hanno lasciato tutto come vedi. > < Non preoccuparti.. > Le risposi. < Accomodati pure. Io intanto vado in cucina a preparare qualcosa: ho una fame. Ti avverto però: la cuoca è molto permalosa, e non accetta critiche. > Mi disse prima di sparire in cucina. Tra i CD, appoggiati alla rinfusa su un ripiano, ne trovai uno di musica classica e, dopo averlo tolto dalla custodia, lo inserii nello stereo. < Eccomi qua. > Disse Lorella tornando con la cena. Acceso lo stereo, andai a sedermi di fronte e, stappata una bottiglia di Soave, ci augurammo buon appetito. Dopo cena, parlando amabilmente, sorseggiando brandy e ascoltando musica, si fecero le tre di notte. < Si è fatto tardi Lorella, è ora che vada. > < Tardi per cosa? Devi tornare da qualcuna? > Chiese con voce quasi indagatrice. < No, da nessuno. E’ solo che, che credo sia ora che vada via. > < Devi proprio andare? > < Si è meglio. Sinceramente devo capire cosa mi stia succedendo, ecco tutto. > Le risposi, parlando più a me stesso che a lei. < Peccato. Ma se vuoi proprio andare. > < Spiace anche a me doverti lasciare. Ma penso sia la cosa migliore, per tutti e due. > < Mi inchino alle tue priorità, esimio collega. > Mi rispose in tono canzonatorio, mentre io mi stavo infilando il soprabito. < Sto così bene qui con te che mi dispiace andare via, ma come ti ho detto.. > < Allora rimani. Domattina avrai tutto più chiaro. Avremo tutto più chiaro. Che ne dici? > < No, Penso sia meglio di no. > < Ok. Va bene, non insisto. Dammi un minuto e ti accompagno. >  < No, lascia stare, non disturbarti. Due passi li faccio volentieri. > Arrivato nell’ingresso mi girai e le presi le mani. < Allora….. che dirti? Grazie di tutto: della cena, della compagnia, della piacevolissima serata e delle ore che mi hai voluto dedicare. Per quella determinazione, se non dovesse andare bene così com’è o avesse bisogno di qualche modifica, fammelo sapere. Buona notte. E grazie ancora Lorella. > Avevo appena aperto la porta e con un piede stavo per oltrepassare la soglia, quando mi sentii trattenere. < Rimani. > Mi disse, afferrandomi i risvolti delle maniche del soprabito e ritraendosi verso l’interno. < Rimani. > Mi ripeté, mentre sul suo viso le compariva un leggero rossore. < Te ne vai così? Senza nemmeno darmi un bacio. > Nel chinarmi per baciarla sulle guance, trovai invece le sue labbra. Rimanemmo così, immobili e assorti, stretti uno all’altra, per un tempo indefinito. Alla fine fu un unico lungo bacio, dato al buio dei nostri occhi chiusi.         < Vuoi fermarti qui, Luca? > Chiese ancora con un filo di voce e cercando ancora le mie labbra.< Vorrei, credimi, ma non precipitiamo. Questa notte ci ha dato molto, forse troppo. E’ meglio non chiederle di più. L’amore può essere leggero come un petalo di rosa e portarci in paradiso, ma può rivelarsi anche così greve e pesante da schiacciarci come un masso. Aspettiamo e domani capiremo cosa ci stia succedendo e allora sarà bello poterlo condividere. Ti chiamerò appena sveglio. No. Meglio di no. Aspetto la tua chiamata, io mi alzo sempre troppo presto e ti sveglierei. >                            < Svegliami. > < Sicura? Allora ti chiamerò prestissimo per essere il primo a darti il buon giorno.                     < Sarai il solo a darmi il buon giorno. > Alla fine della prima rampa di scale mi voltai per salutarla ancora una volta e lei era lì, appoggiata alla cornice della porta che mi guardava andare via. Ebbi l’impulso di tornare indietro, di abbracciarla e di richiudere la porta alle nostre spalle, ma le gambe inspiegabilmente ripresero a scendere quei gradini che mi stavano allontanando da lei. Cosa mi stava succedendo? In poco più di sei ore era successo tutto. 
Il mercoledì, dopo averla chiamata per darle il buon giorno, rimasi tutto il giorno in casa a pensare. Poi la sera, prima di andare a letto, presi la decisione. Il mattino successivo, prima che gli altri impiegati, ero già alla mia scrivania in ufficio che stavo battendo una lettera indirizzata “all’Ufficio Personale: « Si comunica che per urgenti ed improrogabili esigenze di servizio, la direzione scrivente è stata costretta a far rientrare dal congedo ordinario il dott. Luca Marzina. Tanto si comunica per quanto di Vostra competenza. Distinti saluti. – Firmato – Il Dirigente del Dipartimento.» Preparata la comunicazione, nell’attesa del dirigente pensai a quali scuse avrei dovuto ricorrere per mercanteggiare il mio anticipato rientro in servizio invece, appena il direttore mi vide e gli sottoposi la comunicazione da inviare all’ufficio personale, prese la lettera e, firmando quello che gli stavo sottoponendo, mi disse: < Finalmente Marzina. Dia qua. Lei però me lo deve dire prima quando intende assentarsi. E per quanto riguarda l’orario d’istituto, cerchi di attenersi a quello che chiedono, così evitiamo noie con quelli dell’ufficio personale. >
< Per quanto riguarda la puntualità, non si preoccupi direttore, le assicuro che nessuno avrà più motivo di lamentarsi.> Gli risposi.
< Bene. Tutto è tornato come prima. > Pensai, mentre andavo nell’ufficio di Lorella per metterci d’accordo per la serata.
 


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