MENU

Incontri/ Leda, come un cigno

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

24
DIC
2015

Lei è un’insegnante precaria di filosofia e storia che ha scelto di aprire il cuore e raccontarci la sua storia di disabilità e forza. Con il suo esempio ci ricorda che a nessuno piace incontrare il dolore e la malattia, ma capita. Allora abbiamo due scelte: lasciarci abbattere e reagire con rabbia, peggiorando la nostra relazione con il mondo, oppure elaborare con pazienza e amore e rinascere migliori. Lei ha scelto la seconda.

 

"La salute si trova solo nell'autentico, non c’è bellezza senza autenticità, ma per arrivare a quello che siamo davvero dobbiamo eliminare quello che non siamo.
Essere quello che si è: questa è la felicità più grande."

-Alejandro Jodorowsky

 

 

Lei ha sempre preso le distanze dalla Leda "malata", "diversa", dominando la sua malattia invece di subirla, cercando così di opporsi agli eventi sfavorevoli della vita reagendo al dolore, perché esso ha sempre un doppio volto, può annientare o far emergere qualità che non sapevamo di possedere, ci spinge a evolvere, scardina certezze, diventa motore di rinascita ed evoluzione. 

 

"Il mio nome è Leda Ruggiero, sono nata 36 anni fa in una  sonnacchiosa provincia del centro sud, di quelle che ti offrono poco e niente se hai una testa dinamica e un'anima intraprendente ma che sa stringerti in un abbraccio mortifero con la promessa di una vita tranquilla, senza stress e dalla qualità comunque discreta. Certo, dipende dai tuoi sogni e dalle aspettative  e se non sei disabile è più facile. Più difficile se, come nel mio caso, hai una malattia genetica, di quelle serie, specie per l'epoca: displasia spondilo epifisaria. Termini altisonanti  per descrivere un deficit dell'altezza che si combina a una non perfetta formazione di ossa e articolazioni, con una gravità che può variare a seconda dei casi. A me tutto sommato non è andata poi così male, visto che  comunque una serie a due cifre di interventi, in cui mi hanno “rimontato” coi pezzi che c'erano, mi hanno consentito non solo di stare in piedi, ma di avere una vita molto normale, fatta di scuola, uscite, amicizie, divertimento, macchina, università, lavoro e qui non so più cosa aggiungere circa il mio primo approccio alla disabilità, perché io non mi sono mai sentita malata, né disabile e ho sempre fatto quasi tutto quello che mi passava per la testa, almeno fino ad una certa età, aiutata anche da una genetica forza di volontà, che mi ha quasi sempre fatto trovare soluzioni alternative per superare, o almeno  aggirare  i miei limiti. Sembrerà strano ma sono stati molto più invalidanti altri avvenimenti della mia vita, come la morte improvvisa di mio padre, quando ero ancora abbastanza piccola (11 anni), che mi ha fatto crescere senza il confronto fondamentale con il maschile  e la malattia di mia madre, che da 18 anni combatte una lotta impari e già segnata con l'Alzheimer, eventi che mi hanno insegnato  presto il senso di morte e di malattia. Le cose per me sono un po' cambiate dopo i 30 anni, perché ho iniziato ad avere dei problemi di salute connessi alla patologia di base ed essenzialmente riconducibili ad un invecchiamento precoce delle articolazioni, già provate dagli interventi chirurgici dell'infanzia, ma se tutto andrà bene, a breve tornerò sotto i ferri. Se tutto andrà bene, proprio così: perché vorrà dire che, anche grazie ai progressi della medicina ci sarà ancora un margine di intervento, e dunque una possibilità di mantenere un buon livello di qualità della vita, seppur affrontando una discreta dose di rischio. Qualcosa però è cambiato perché il tempo per vivere, sognare, amare, che negli anni della giovinezza ti appare dilatato all'infinito, all'improvviso si restringe negli spazi angusti dell'età biologica e di quello che dovrebbe essere il suo 'naturale' sviluppo, e l'età ti dona, più o meno generosamente, una consapevolezza di te nuova e diversa, inizi così a fare i conti con molte cose che un tempo erano lontane dalla tua mente, come il senso del limite, che con il passare del tempo si manifesta  in modo sempre più forte. Improvvisamente ti chiedi se ha ancora senso lottare per dover sempre superare te stessa, in una lotta che di fatto è contro te stessa perché la parte che devi costantemente annullare, ignorandone la stanchezza, la fatica, il dolore, sei tu e quel corpo che, nonostante tutto, è la dimora che è stata donata alla tua anima, per quanto il connubio possa starti stretto, l'unico mezzo che ti è stato concesso per “sentire” il mondo esterno e comunicare con esso. E poi inizi a fare i conti con i tuoi desideri e i tuoi bisogni, quelli primordiali, istintivi, quelli che si estrinsecano nel movimento, negli abbracci, nelle passioni che fanno vibrare il cuore, esattamente come accade ad ogni donna,  e riuscire a riconoscerli senza sentirsi in colpa o provare vergogna perché pensi di non averne il diritto, è già una conquista di libertà, sofferta e per niente scontata.  Non  vorrei dare un'impressione di me sbagliata: io mi sento una solare, piena di vita.Sono una donna che ama vivere e pensa che la vita sia bella nonostante, o forse proprio grazie a tutto il resto, e la mia, poi, è piena di amore e questa certezza fa sì che qualunque altra difficoltà venga spostata in secondo piano, perché fondamentale è non essere soli. Ma può  capitare in una sera qualunque che, in mezzo alle persone a cui vuoi bene, mentre ti stai divertendo,  all'improvviso venga ad assalirti  una tristezza sconfinata, che ti inonda con la forza di un fiume in piena, che ha il sapore e il  peso dei rimpianti, delle cose che sarebbero potute essere se fossi stata 'normale' e non sono state, il rimpianto  delle rose non colte  o ancora  l'idea  che non sarai mai veramente libera di autodeterminare la tua vita. E in quei casi non puoi fare nulla, puoi solo stare ferma e farti travolgere, aspettando che finisca la piena. Ed è difficile ricordarsi che queste sono sensazioni  comuni a tutti, e che la disabilità è solo un aspetto del dolore, un aspetto importante, certo, il cui peso non è trascurabile, ma non l'unico sebbene richieda una dose maggiore di coraggio. Perché non è la disabilità a farti vivere a metà, ma la paura: di essere te stessa, di essere audace, di abbandonare il noto, insipido ma rassicurante, per un salto nel vuoto dell'ignoto, di decidere finalmente per l'azione, di vivere davvero, suggerisce qualcuno. Massimo Gramellini  dice che esistono due sistemi per liberarsi dall'immobilismo cui la paura ci costringe (disabili e non, eh!): "Il più comune è il dolore. Quando la sofferenza ti arriva addosso, o ti annichilisce o ti sveglia". 

Io spero sempre che mi svegli. 

 


Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor