MENU

Partigiana, senatrice, donna /«La mia vita straordinaria, una lotta mai finita»

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

15
GEN
2016

Voce critica della sinistra laica e democratica, osservatrice attenta della società contemporanea, staffetta partigiana poi impegnata nei movimenti cattolici, una delle fondatrici del quotidiano italiano di indirizzo comunista fondato nel 1969, Lidia Menapace è stata ospite a Martina Franca per raccontare un pezzo della storia d’Italia

 

 

Con l’aria di chi ha ancora voglia di scoprire e conoscere, di chi, nonostante l’età (92 anni ad aprile), vuole ancora imparare e soprattutto condividere e raccontare, Lidia Menapace è arrivata a Martina Franca (definita da lei “un grazioso gioiellino”) per raccontare a ragazzi e ragazze, uomini e donne, la sua Resistenza in due incontri organizzati dal Comune di Martina Franca – Assessorato alle Attività Culturali e dal Presidio del Libro.

Usare entrambi i generi (ragazzi e ragazze, uomini e donne) per la cronista, da oggi, sarà un obbligo morale perché la lezione sul linguaggio sessuato come strumento contro il sessismo è stata chiara e molto incisiva, ha scalfito l’anima.

“Conosco l’importanza straordinaria della parola e la sua storia – ha raccontato l’ex partigiana -. La lingua italiana si è formata su grammatici umanisti, uomini  che misero la regola che in italiano nelle concordanze prevale il maschile come genere più nobile: secondo loro io avrei dovuto riconoscere che appartengo ad un genere meno nobile. Mi sembra assurdo. Dobbiamo ristabilire un linguaggio inclusivo”.

E così sarà.

Saggista, linguista, docente universitaria, una delle fondatrici de "Il Manifesto", senatrice, pacifista, avanguardista del femminismo, una delle prime donne elette nelle istituzioni nel dopoguerra nelle file della Democrazia Cristiana, partigiana. Chi è Lidia Menapace?

«Io sono una partigiana. Posso dire essere una ex professoressa perché sono in pensione, e anche l’interpretazione più rigorosa della Legge Fornero mi consentirebbe di essere in pensione questa età. Ma da partigiana non si va in pensione perché non è una scelta professionale ma è una scelta di vita».

La Resistenza non fu un fenomeno militare ma un movimento politico e democratico. Cosa ha significato essere donna nella resistenza.

«La Resistenza senza le donne non ci sarebbe mai stata. Essere donna è sempre stato difficile, lo è ancora oggi, ma in quelle circostanze particolari era una difficoltà intrinseca. Mi piace ricordare un episodio emblematico: una volta, scendendo dalla vallata dove facevo la staffetta, il Comandante mi chiese cosa dicesse mio padre del fatto che fossi sempre in giro da sola in bicicletta giorno e notte, io che sembravo una brava ragazza. Questo per dire che l’opinione che non fossimo brave ragazze era molto diffusa, anche fra i partigiani. La Resistenza era fatta di persone comuni e la gran parte degli uomini condivideva i pregiudizi che i maschi italiani avevano, ahimè ancora hanno, nei confronti delle donne. Qualche comandante partigiano, però, scrisse: “dobbiamo particolare riconoscenza alle donne che fanno parte della resistenza perché non solo mettono a rischio la vita, come ciascuno di noi, ma anche il buon nome”».

A suo avviso il tema della Resistenza è ancora attuale? Contro chi o cosa dobbiamo combattere?

«Intanto il verbo esatto è lottare e non combattere perché la battaglia include l’uccisione, anche simbolica, dell’avversario. La lotta, invece, pensiamo a quella greco-romana, non include il danneggiamento fisico dell’altro: se un lottatore danneggia un avversario viene squalificato. Dire lotta, invece di battaglia, è importante, così come dire strumenti invece di armi. Per la stessa ragione una volta mi proposi, ed è stata una delle mie battaglie perse, tanto per restare nel linguaggio militare, di disinquinare tutto il linguaggio politico dal metaforico militare. Non capisco proprio perché un politico debba dire ‘scendo in campo’. Dovrebbero dire ‘scendo in piazza’ perché l’agorà è il luogo dove si fa politica, dove avviene lo scambio e la comunicazione umana».

Quali sono i nuovi fascismi a cui bisogna “resistere”?

«Dobbiamo resistere all’arroccamento dell’Europa che tutela e difende solo i propri privilegi; una Europa  neoliberista che proclama la libera circolazione delle merci ma non delle persone: questa è la crisi più profonda che possiamo attraversare nel continente più antico del mondo dove sono nate le principali lingue».

Per combattere i nuovi fascisti occorrono coscienze critiche e libere. I ragazzi di oggi sono più fortunati perché hanno un maggiore accesso alle informazioni, non era così ai suoi tempi. Chi ha contribuito a formare in lei questo tipo di coscienza?

«La mia famiglia perché fortemente anti fascista ma anche la scuola. Io ho frequentato il Liceo di Novara e i miei professori, seppur non dichiaratamente, prendevano posizione chiara contro il fascismo attraverso un linguaggio cifrato, con allusioni e cenni».

Mi piacerebbe toccare con lei un altro tema importante che è quello della libertà. Nella sua carriera politica la libertà a volte le è costata cara…

«Praticare la libertà anche nella vita pacifica non giova sempre. Mi ero convinta, insegnando alla Cattolica di Milano, che l’Università era un luogo libero, di opinioni. Ad un certo punto scrissi un documento intitolato ‘Per una scelta marxista’. Il marxismo non era una scelta politica ma culturale e non dichiarai mica che mi sarei iscritta al Partito Comunista: sapevo bene di rischiare la scomunica. L’anno successivo alla pubblicazione non mi arrivò l’incarico annuale dall’Università; andai dal cattedrato che mi rispose: ‘Signorina con ciò che lei scrive!’. Mi ritrovai senza un lavoro, avvolta dal silenzio e allora, non sapendo cosa fare, ho fatto “Il Manifesto” (ride scherzosa, nrd) perché avevo buonissime relazioni con la sinistra comunista con la quale non riuscivo proprio a litigare. Uscito il primo numero mi tolsi la soddisfazione di andare a venderlo  davanti all’Università. I miei colleghi che mi videro o mi ignoravano o avevano scritto in faccia ‘avevamo capito che eri un brutto soggetto, dalla cattedra al marciapiede’. L’unico che si fermò fu Ciriaco De Mita, all’epoca laureando, ma che ebbe la decenza di farmi l’in bocca al lupo. Attraverso la rivista ebbi la possibilità di rientrare negli ambienti politici e culturali». 

 

 

Mi tolga una curiosità, ma lei si sente della Democrazia Cristiana, da cui proviene, o del Partito Comunista?

«Io quando ruppi con la Democrazia  Cristiana, ruppi e basta. Ciò non vuole dire che non riconosco che Moro, ad esempio, è stato un uomo con significativi meriti. Non ho una visione manichea. Così come riconosco che il Partito Comunista è stato importantissimo nella storia di Italia perché ha costituzionalizzato le masse popolari sebbene i suoi componenti non abbiano mai voluto ammettere che il PC italiano è stato un partito socialdemocratico: il programma del Partito Comunista di allora era un po’ più a destra del programma della corrente di base della DC (ad esempio sull’urbanistica, le nuove tecnologie), era molto reazionario perché formato da intellettuali conservatori». 

Cosa farebbe di diverso da ciò che ha fatto nella sua vita e cosa le sarebbe piaciuto fare che non ha fatto?

«Avrei voluto viaggiare e scrivere di più, per esempio. Rispetto a ciò che ho fatto, sarò presuntuosa, ma tutto sommato rifarei tutto».

 

 

 



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor