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Il canto di Aria /Gli orrori di quel carcere in Iran

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

12
MAG
2016
La scrittrice iraniana Maryam Rahimi, ormai in Puglia da molto tempo, nel suo ultimo viaggio in Iran ha avuto modo di conoscere e incontrare Aria Aramnejad, musicista e cantante iraniano che è stato arrestato e incarcerato dal regime iraniano. Una testimonianza diretta che offre uno spaccato sulla mancanza di libertà in regimi così vicini a noi 
 
Perché è stata arrestata? 
«Per la canzone “Resusciti Ali”. Ero nel pieno del mio successo e della mia carriera come musicista, avevo scritto delle canzoni per i cantanti più importanti, ero nella fase in cui gli altri cantanti mi contattavano per chiedere la mia collaborazione. Nell‘88 sono successe una serie di cose nella mia vita che mi hanno portato a scrivere canzoni sociali e politiche. 
Poi ho scritto una canzone rivolta al presidente della repubblica con il titolo “Ciao presidente”. Praticamente invitavo il presidente Ahmadi nejad ad ascoltare la canzone. Però non l’ho pubblicata apertamente, ma tramite i contatti importanti che avevo; la canzone ha così girato l’Iran, diffondendosi specialmente fra i politici di quegli anni e ha avuto molto successo, finché non ho ricevuto delle offerte di lavoro dal regime iraniano». 
 
Che offerte? In che senso? 
«Offerte di lavoro, agevolazioni. Praticamente dovevo cantare a favore del regime e non pubblicare la canzone “Ciao presidente” pubblicamente e subito avrei potuto ottenere successo e soldi, lavoro e casa». 
 
Praticamente la volevano corrompere? 
«Sì, ma comunque io ho pubblicato la canzone sotto un altro titolo». 
 
Volevo sapere perché e come l’hanno arrestata. Con quale sentenza? 
«Dopo una ventina di giorni dalla pubblicazione della canzone, cinque dei pasdaran (guardiani della repubblica islamica) hanno bussato violentemente alla porta del nostro appartamento. Ho pensato che fosse successo qualcosa ai vicini di casa; appena ho aperto la porta, uno di loro mi ha sbattuto al muro. Lui aveva una foto per identificarmi, non avevano nessun documento ma in meno di dieci minuti hanno messo sottosopra casa mia. Hanno controllato la mia email e facebook ma non hanno trovato nulla per cui potermi accusare. Mi hanno portato in una prigione provvisoria e sono stato lì per 3 ore. Poi mi hanno trascinata al tribunale poiché il procuratore aveva provato la mia innocenza; dopo 45 minuti dalla fine della sentenza hanno tenuto una riunione cambiando l’esito del giudizio e accusandomi di crimine contro la sicurezza del paese e del governo islamico». 
 
E poi? 
«Per 44 giorni mi hanno rinchiuso nel carcere di Matikola a pochi chilometri da Babol. Sono stato in isolamento in una stanza di 1mq x 2mq, senza bagno; una cella sporca con una finestrina piccola con il vetro rotto, nel pieno freddo di dicembre. Uno di quei giorni mi hanno trasferito in una stanza con le bende agli occhi. Qui c’era un signore anziano (lo riconobbi dalla voce) che mi ha messo contro il muro e mi ha dato un foglio e una penna per confessare i miei reati ‘’politici’’. Mi disse che se non lo avessi fatto mi avrebbero trasferito in un altro carcere dove mi aspettavano torture più crudeli come il taglio delle mani e dei piedi. Io gli dissi di non aver fatto altro che cantare qualche canzone popolare in contrasto con il governo di Ahmadi Nejad. Lui insistette e a questo punto io mi arrabbiai dicendo: “Sì, tutte le proteste dell’onda verde sono state organizzate dalla mia mano, erano sotto la mia guida, quindi fate quello che volete”. E l’ho messo per iscritto. Ma l’hanno strappata e quella lettera non è mai andata nel mio fascicolo». 
 
Però se le avessero voluto creare problemi con quella lettera, avrebbero potuto. 
«Certo, ma non l’hanno fatto. Perché era impossibile che un giovane cantante 25enne potesse guidare tutto ciò che stava accadendo nel paese. Dopo mi hanno trasferito al carcere di Sari». 
 
Mi può parlare della condizioni del suo stato d’animo, delle torture psichiche e fisiche di quei giorni? 
«I primi giorni, erano stati arrestati in tanti. Fra loro anche qualche mio amico. Noi, negli orari in cui uscivamo dalla cella per andare in bagno o fare altro, anche con un sguardo o una sola parola ci consolavamo. Il fatto che non sei solo è un grande aiuto morale in quelle condizioni. Ma poi, mano a mano sono stati liberati in tanti e io sono rimasto in isolamento con qualcuno di cui sentivo la voce dalla cella. Gli scontri fra me e i guardiani o i carcerieri erano numerosi e sono aumentati dal giorno in cui ho avuto dolori al cuore. Io da tanti anni ho problemi cardiaci. Avevo bisogno di un medico. Mi hanno preso in giro e mi hanno detto che lì non hanno medici. Gli ho detto che quando fossi uscito di lì li avrei denunciati e da questo momento sono aumentate le nostre discussioni. Dopodiché un carceriere ha aperto la mia cella e con un bastone di metallo mi ha colpito. A questo punto ho iniziato a inveire contro di lui che, viste le mie parole è uscito un attimo ed è rientrato con altri due uomini legandomi piedi e mani con le catene. Fra le botte e i miei motti di libertà, ad un tratto lui ha preso la mia testa e l’ha sbattuta alla porta della cella. Ad un certo punto io non ho capito più nulla. Ma dopo qualche anno, quando ho incontrato la persona che era nella cella accanto alla mia, ho scoperto che aveva contato quante volte avevano battuto la mia testa alla porta di ferro della cella, all’incirca 70. Mi ha riferito che pensava fossi morto e che non sarei mai uscito vivo da quella cella.  Quando ho ripreso conoscenza, ho visto che la metà della superficie della cella era piena di sangue e la mia testa aveva qualche frattura grave. Sanguinavo dal naso e dalla bocca». 
 
Cosa è successo per farla liberare? 
«È stato grazie all’enorme sostegno del pensiero pubblico. Un’ondata di sostenitori con raccolte di firme per la mia liberazione. Sono stati i carcerieri a consigliarmi di scrivere una lettera per la mia liberazione e firmarla». 
 
In pratica si sono arresi davanti all’opinione pubblica? 
«Direi di sì! Intanto non avevano trovato nulla che mi riguardasse contro il regime, per poter portare avanti il processo. Poi c’è stata la gente a liberarmi». 


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