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I NONNI DI CLARA (PARTE PRIMA)

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

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LUG
2016
Avevo quattordici anni quando tornando a casa dal mare mia madre, per evitare un cane randagio che stava attraversando la strada sterzò bruscamente e finimmo fuori strada e poi contro un platano enorme. Di quell’incidente non ricordo nulla perché sulla strada del ritorno mi ero addormentata.
Quel giorno avevamo trascorso una piacevole domenica al mare. Mi ero alzata e passando davanti alla sua stanza vidimamma che stava riempendo un borsone. “Andiamo al mare?”, chiesi, e lei rispose di sì: “E’ una bellissima giornata e ho proprio voglia di starmene in spiaggia a rosolarmi al sole”, rispose, mentre finiva di riempire il borsone con i nostri costumi.
Appena arrivate feci amicizia con delle ragazze, facemmo il bagno e andammo a prenderci un gelato assieme. La giornata era calda, afosa e allora, con la scusa di voler ascoltare musica, restammo tutto il tempo sotto i gazebo del bar. Quando nel pomeriggio mi raggiunse mia madre, lei era vestita e con il borsone in mano. “Andiamo” mi disse, “se no facciamo tardi”. Io ci rimasi male, ma poi salutai tutti con un cenno della mano, infilai il vestito che mi stava porgendo e la seguii al parcheggio. “Mi siedo dietro”, dissi, “così mi sdraio e riposo un po’”. “Okay”, mi rispose, e quelle furono le ultime parole che ci scambiammo.
Quando aprii gli occhi la realtà si presentò totalmente diversa da quella che mi sarei dovuta aspettare al risveglio. Avevo un forte mal di testa e non riuscivo a rendermi conto di cosa fosse successo, dove mi trovassi. Tutto intorno a me era così asettico, bianco, silenzioso, che non riuscivo a raccapezzarmi. Poi nella stanza entrò una signora conun camice bianco, mi sfiorò la fronte con il palmo della mano e sorridendo disse che mi stavo riprendendo. Controllò i monitor posti su una mensola a lato del letto e poi se ne andò.
Qualche tempo dopo, non saprei quantificare quanto, quella signora tornò in compagnia dei miei nonni. Mi guardarono in silenzio e poi nonna Adele allungò una mano per accarezzarmi, voleva sfiorarmi un braccio, ma subito si ritrasse per nascondere il volto dietro le spalle di nonno Bruno il quale continuava a guardarmi, ma senza riuscire a dire una parola, né a sorridermi.
«E la mamma? La mamma, perché non è venuta? Dove si trova? Cos'è successo?». Non ebbi risposta e quando insistetti sentii la nonna che da dietro le spalle del nonno, con voce rotta, diceva: «Avete avuto un incidente… La mamma… Clara… La mamma … Devi, devi…».
«Devo riposare, sono stanca. Sento il bisogno di dormire», risposi, ma non era vero, non avevo sonno, né mi sentivo stanca, lo dissi solo per non sentirmi dire che dovevo farmi forza, che dovevo reagire e chiudendo gli occhi aggiunsi: «E’ morta. Lo so. Lo sento. Ma voi non avete il coraggio di dirmelo». E mentre le lacrime cominciavano a bagnarmi le ciglia e rigarmi le guance, sentii la mano della nonna che mi stringeva forte il braccio. Io restai così, immobile,ad occhi chiusi, cercando di realizzare, di capire cosa fosse successo quella domenica, ma non ci riuscii e allora pensai a mio padre: dove poteva trovarsi in quel momento? In quale parte del mondo stava lavorando? Saranno riusciti a rintracciarlo?
I miei genitori si erano separati quando io ero ancora piccola e il rapporto con mio padre non lo ricordo nemmeno, e da quando andò via l’avrò rivisto una decina di volte al massimo. Era sempre in giro per lavoro e mia madresi lamentava spesso per i ritardi con cui faceva fede agli obblighi del mio mantenimento.
Dopo qualche giorno mi spostarono in un’altra stanza, dove un letto era già occupato da un’altra ragazza che appena se ne andarono tutti mi chiese cosa fosse successo. Io le dissi dell’incidente stradale e lei mi rispose: anch’io. Cominciammo a parlare e facemmo, se così si può dire, anche amicizia.
«E ora con chi andrai a stare? Con i tuoi nonni?» mi chiese, mentre sole nella stanza ci stavamo raccontando le nostre cose. Sentendo quelle parole mi irrigidii e cominciai a sudare. Non avevo mai pensato a quell’eventualità. Una volta dimessa dall’ospedale credevo di poter tornare a casa e subito quel pensiero rassicurante si trasformò nel suo opposto. Ora la mamma non c’era più e i nonni non mi avrebbero mai permesso di restare da sola in quella casa.
I giorni in ospedale trascorsero lentamente; avevo sempre la testa dolorante e anche se mi avevano tolto il gesso alla gamba, per camminare dovevo aiutarmi con le stampelle. Avevo iniziato anche la riabilitazione e intanto i nonni venivano a trovarmi tutti i giorni. Veniva anche una signora, una psicologa mi disse che era. Mi chiedeva come mi sentissi. Mi diceva che stavo facendo progressi e che mi sarei ripresa presto, ma soprattutto mi accorsi che insisteva per farmi parlare. Voleva sapere di me e domandava cose che con l’incidente o con la degenza non c'entravano nulla. Mi chiedeva di mio padre, dei nonni, della scuola, di mia madre e io mi sentivo a disagio quando la vedevo prendere la sedia e si avvicinava al letto. Non ero abituata a fare conversazione con gli adulti, se non rispondendo con dei sì o con dei no. Invece lei insisteva, voleva che le parlassi di me, della scuola, dei miei hobby, delle mie amicizie. Voleva sapere un sacco di cose, mentre io non sapevo cosa rispondere.
Una mattina, la ragazza che occupava la stanza con me, tornata dalla medicazione, mi disse che era stata dimessa, avrebbe dovuto continuare le cure a casa, ambulatorialmente, e che sarebbe tornata a trovarmi.
«Ciao. Stammi bene e fatti forza. Se sei ancora qui, ti vengo a trovare alla prima visita di controllo». Mi disse, salutandomi e sfiorandomi il viso con le guance, ma non la vidi più, anche se in quel letto d'ospedale ci rimasi ancora per più di un mese.
Quando mi dimisero i nonni vennero a prendermi e mi portarono con loro. Avevano già approntato tutto. La stanza che era stata di mia madre l'avevano ammobiliata con le cose della mia stanzetta, compresi quadri, specchio, sedie e anche la poltroncina di stoffa dove dormiva il nostro gatto, e da quando ero andata ad abitare con loro la casa era diventata un continuo via vai di gente che veniva a trovarli, che chiedeva di me e poi si fermava a parlare per ore. Io ero contenta perché in quei frangenti sembrava che la nonna riuscisse a distrarsi, indaffarata com’era a preparare caffè e a conversare con loro. Però io, quando sentivo il suono del citofono andavo a rifugiarmi in camera mia, perché non sopportavo più quegli sguardi compassionevoli, né le solite frasi fatte. Ma quando parlavano e non sentivo, tra le altre, la voce di mamma, come succedeva quando venivamo a trovare i nonni, mi deprimevo e cominciavo a piangere.
Fisicamente ero ancora debole, zoppicavo e mi stancavo sempre troppo presto, ma cominciavo a sentirmi meglio e avevo anche ripreso a studiare; e che strazio il primo giorno che rimisi piede a scuola. Dopo mesi di assenza sembrava che in aula fosse entrato un fantasma, un extraterrestre, perché all'istante tutti zittirono e rivolsero lo sguardo verso di me, poi ad uno ad uno si alzarono e mi vennero ad abbracciare. Qualcuno mi rivolse delle frase di circostanza, ma non saprei dire chi, ero troppo frastornata. Solo quello che mi sussurrò una compagna che non conoscevomi colpì: “Ti capisco. Ora è dura, molto dura, ma poi si supera. Fidati”. Ancora non lo sapevo, ma quella ragazza che si chiamava Simona ed era la prima volta che la vedevo, sarebbe diventata la mia migliore amica.
Un giorno, durante la lezione di italiano, mentre cercavo qualcosa nel mio zainetto, mi ritrovai tra le mani le chiavi della vecchia casa. Non mettevo piede in quell'appartamento dal giorno dell'incidente e quando cercai di infilare la chiave nella toppa mi accorsi che mi stavano tremando le mani. Socchiusi lentamente l'uscio, spinsi l'interruttore ma tutto rimase al buio, spento. Qualcuno aveva provveduto a staccare la corrente. Facendo attenzione a non andare a sbattere contro i mobili, attraversai il corridoio e andai in cucina e alzai le tapparelle. Quando la luce invase la casa, restai di sasso. Tutto era stato portato via, non c'era più niente. Passai nella stanza da letto di mia madre, ma anche quella era stata svuotata e il pavimento era tutto rigato, opaco e coperto di polvere. Nel salotto non entrai, mi soffermai sull'uscio e sbirciai dentro: dove un tempo c'era la poltrona di mamma ora c’era solo il vuoto. Mi si strinse il cuore e con fatica cercai di trattenere le lacrime. Girai la testa da una parte all'altra, come a cercare le sue fattezze, la sua immagine, ma non ci riuscii e allora, tirandomi dietro la porta senza dare nessuna mandata, a cosa sarebbero potute servire?, me ne andai sconvolta.
Tornata dai nonni avevo una gran voglia di sapere perché avessero fatto portare via tutto. Le cose di mamma dove erano finite? Ma davanti alla nonna non ebbi il coraggio di chiedere nulla. Seppi in seguito che tutto era stato portato in un deposito e che erano indecisi se lasciare l'appartamento così com’era o darlo in locazione.
«Sai Clara, se l'appartamento lo fittassimo, quell'introito ci aiuterebbe. Come sai non navighiamo nell'oro, siamo pensionati》. Io non risposi, mi gira dall'altra parte e feci spalluccia. Cosa avrei potuto rispondere?
Quell'anno, sebbene non me lo aspettassi, venni promossa a pieni voti. Ma come qualcuno ebbe a dire: "Il dolore può bastare a se stesso, ma per apprezzare a fondo una gioia, bisogna avere qualcuno con cui condividerla", e io non avevo più la mamma per poter gioire con lei.
All’inizio, per consolarmi, capitava che cercassi di immaginare mia madre ancora viva e che stesse continuando, lontana da me, la vita di sempre, ma quell’inganno durava poco e allora sprofondavo il viso nel cuscino e lo inondavo di lacrime.
L’aspetto peggiore di quell’incidente erano, tra l'altro, le sensazioni fisiche che mi aveva lasciato: incubi, insonnia, vibrazioni violente sin dentro le ossa. Nei miei sogni confusi comparivano sempre delle strade buie e strette che dovevo percorrere correndo perché dietro di me udivo delle voci allarmanti, e una mattina mi svegliai madida di sudore perché avevo sognato mia madre, e non mi era mai capitato. Nel sogno mi trovavo nella nostra vecchia casa: "Cosa fai qui? Corri subito dai nonni." Mi disse, inquieta mia madre. Ma c'era qualcosa di strano nella sua voce, e quando la guardai da vicino mi accorsi che non era lei, ma qualcuno che fingeva di imitarla e mi destai urlando.
Il tempo passava e io non sapevo nulla di mio padre e allora un giorno chiesi di lui alla nonna e lei rispose che si trovava in Australia e sarebbe tornato appena possibile. Io la ringraziai, ma mio padre lo vidi solo dopo un anno, l'inverno che venne per portarmi con sè. Mi guardò con i suoi occhi chiari, mi sorrise, ma senza calore e poi mi chiese se volevo andare a stare con lui.
«Dove?», gli chiesi perplessa e preoccupata.
«A casa mia. A stare con noi. Con i tuoi fratelli», mi rispose. Nella mia perplessità mi girai verso la nonna e lei mi rivolse un sorriso impotente, come a dire: “Lo so, ma cosa posso fare?”. Quali fratelli, pensai. Io non ho fratelli, sono figlia unica. Se poi lui avesse avuto altri figli a me proprio non importava. Non mi interessava e non volevo conoscerli. E di seguirlo chissà dove proprio non mi andava.
«I nonni non possono tenerti per sempre, Clara. E l'unica soluzione è quella che tu venga a stare con noi. Credimi, saremmo tutti felici di poterti tenere con noi», aggiunse, con uno slancio che non suonò convinto né convincente, come lui avrebbe sperato.
E basta con questo noi. Ma chi li conosce. Chi li vuole conosce, e già le lacrime, anche se non volevo, anche se facevo di tutto per trattenerle, cominciarono a rigarmi il viso. Lui cercò lo sguardo della nonna e poi allargò le braccia e scrollando la testa, chiese: «E allora come si fa? Come la sbrogliamo questa matassa?»
« Non lo so papà, ma non me la sento di spostarmi. Con i nonni ci sto bene, e qui c'è anche la mamma, che la domenica vado sempre a trovare》.
Non era vero che ci andassi tutte le domeniche. Le prime volte sì, ci andavo spesso al cimitero, ma poi smisi perché mi intristivo. Mi accorsi che non era la mamma che andavo a trovare, ma una tomba fredda e muta con sopra una lapide con inciso il suo nome e la sua fotografia. A chi avrei dovuto parlare? Cosa avrei potuto raccontare ad una lapide di marmo.
La nonna depose prima una lacrima nel fazzoletto, poi si alzò e mi venne vicino.
«Clara resterà qui con noi, sin quando lo vorrà. Se poi deciderà altrimenti, te lo faremo sapere», concluse, con voce calma e decisa. Io scostai le sue braccia e cercai di sbirciare la reazione di mio padre che, sorprendentemente, si rivelò più sollevata che dispiaciuta. Con un lento moto mi liberai della stretta di nonna, alzai lo sguardo verso di lei e le sussurrai un grazie grande così.
Mio padre parlò a lungo con i nonni e poi ripartì e da quel giorno ci sentivamo raramente e solo per scambiarci gli auguri canonici o in occasioni particolari come, ad esempio, quella del suo nuovo matrimonio con la sua nuova compagna che, mi fece sapere, avrebbe avuto tanto piacere se ci fossi stata anch'io. Io non l'avevo mai vista né conosciuta, questa sua nuova fidanzata o compagna che fosse, e restai a casa.
Di quell’incursione dai nonni e del suo nuovo matrimonio misi al corrente anche Simona. Mi fidavo di lei perché, anche se era una gran chiacchierona, sapeva mantenere i segreti.
«Perché odi tanto tuo padre?», mi chiese un giorno, mentre stavamo uscendo da scuola.
«Non lo odio», le risposi, sorpresa. Lei mi fissò con il suo sguardo scaltro e indagatore e aggiunse: «Tu lo odi. E lo odi perché quando ha lasciato tua madre le ha spezzato il cuore. Ma devi capire e se puoi perdonalo, è sempre tuo padre e ora tutto è cambiato».
Io la guardai senza riuscire a realizzare se davvero odiassi mio padre. Ma di una cosa ero certa, e cioè che mi era del tutto indifferente, come del resto le sue infrequenti telefonate e gli altrettanto suoi rari regali.
(Fine prima parte, continua sul prossimo numero)
 


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