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IPERLAVORO

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

19
GEN
2017

Fattori stressanti lavoro-correlati ed eventuale patologia. Può il sovraccarico di chi lavora in proprio essere gestito opportunamente?

So che di questi tempi quando c’è lavoro non ci si può permettere di lasciarlo. Ma c’è gente però che si ammazza di lavoro. Cioè che per non dire di no si carica e poi si esaurisce. Io non capisco come queste persone possono fare questa fine. Ci vuole tanto a capire che non bisogna caricarsi o che se c’è bisogno di un aiuto che si può prendere qualcuno per farlo lavorare un po’? Per me questi si esauriscono per avidità. Comunque voglio chiederlo a lei.
Marco

Ciascuna occupazione scandisce la vita in maniera assai differente: alcune impegnano il lavoratore per gran parte della giornata e spesso lo vincolano in un determinato posto; altre, pur non esigendo una presenza continua, richiedono che egli sia reperibile, ossia disposto, se chiamato, a lasciar tutto per recarsi immediatamente dove ce ne sia bisogno. Per alcuni risulta impensabile che si lavori negli orari notturni e nei festivi; per altri ciò costituisce la normalità, anzi per molti proprio quei giorni risultano magari quelli maggiormente remunerativi.
Come può ben constatare, il panorama si presenta assai variegato e di certo la vita di ciascuna categoria non  può essere minimamente paragonata a quella di altre: ognuna di esse costituisce una realtà a sé, caratterizzata da peculiarità, quindi anche da problematiche, assai specifiche. Ciò che risulta pacifico per uno potrebbe risultare stressante per l’altro e viceversa. Per capirci: ad un insegnante forse non farebbe piacere lavorare a Natale e a un ristoratore (che a Natale lavora) probabilmente non farebbe piacere dover tenere una lezione sulla fisica quantistica, per esempio.
Tornando al suo caso, non mi è dato sapere quanto lei conosca delle persone che critica e del loro lavoro. Di certo, tacciarle aprioristicamente di avidità non ci aiuta a capire come stiano vivendo e come poterle eventualmente aiutare.
Considerato quanto su esposto, potrei pure supporre che quello che lei reputa costituire un sovraccarico di lavoro potenzialmente patogeno («si carica e poi si esaurisce») possa magari non risultare affatto tale per la persona interessata. E, anche qualora questa dovesse presentare dei segni di sofferenza non riconducibili ad una malattia d’origine organica, anche in quel caso dovremmo procedere con molta cautela, mettendo in campo delle opportune distinzioni. Perché, al di là del relativismo occupazionale citato in premessa, non nego che esistano dei limiti oggettivi alla resistenza umana, ma, sulla scorta della casistica, posso ragionevolmente sostenere che gran parte degli scompensi lavoro-correlati d’oggigiorno non derivino primariamente – ribadisco: primariamente – dal superamento di detti limiti, bensì dalla scarsa capacità nel gestire dei fattori stressanti magari spesso tollerabili. E in ciò non vi è né colpa né stoltezza, ma solo mancanza di una competenza psicologica e gestionale che non viene ancora insegnata a tutti coloro che potrebbero beneficiarne, per il bene della loro salute e dei loro affari, che senza di essa non possono di certo procedere nella direzione desiderata.
Infine, cerchi, per quanto possibile, di non disprezzare chi conferisce priorità al proprio lavoro, perché esso, specie se scelto e amato, costituisce, al di là di quanto le possa sembrare, un universo di esperienze molto variegato, a volte anche così pieno da risultare di per sé bastante, specie quando, per vie che non ci è dato sempre conoscere, ben si concilia con la vita degli affetti.
 



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