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INCONTRI/CARLOS SOLITO, VIANDANTE DI PROFESSIONE

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

4
DIC
2018

Si paragona a un minatore in cerca di diamanti, trovando ricchezza in ogni sguardo e negli animi più puri. Si schiera apertamente contro i fuffologi e si nutre di esperienze e luoghi esplorati. Grottagliese d’origine ma cittadino della terra dell’abbastanza, lo scrittore, giornalista e fotografo racconta di sé e del suo nuovo libro, un’ode alla sua terra da cui è fuggito in cerca della sua dimensione creativa

Vi capita mai di parlare con qualcuno e di uscire rigenerati da quella conversazione, dotati di nuova linfa, di un diverso punto di vista sul mondo? Più fiduciosi, più ottimisti, più desiderosi di fare, di mettersi in gioco. Ecco, a me è successo dopo una chiacchierata con Carlos Solito, scrittore, giornalista e fotografo, autore di numerosi libri – l’ultimo è La ballata dei sassi (Sperling & Kupfer), le cui pagine sono meravigliose tanto quanto la copertina.
Sarà che ha visto tanto, girando il mondo in lungo e in largo con un compagno di viaggio piuttosto speciale, che tutto il vissuto si riflette nel suo sguardo e nel modo che ha di raccontare, di aprirti la mente.
Il titolo del suo precedente libro, Sciamenescià (Elliot edizioni, da cui verrà tratto un film, ndr), è una sorta di invito a partire, scrollarsi di dosso paure e passato e muoversi verso l’ignoto. Con La ballata dei sassi, invece, si esprime il concetto contrario: la voglia di ritornare a casa, al punto in cui tutto ha avuto origine, dopo aver esplorato il mondo.
Proprio come ha fatto l’autore, partito a diciannove anni per inseguire un sogno che qui, probabilmente, non si sarebbe mai avverato.

«Giovanissimo, sono andato via arrabbiato,» racconta, «perché le mie idee creative non trovavano sfogo in questa terra. Sentivo il bisogno di esprimermi e di trovare una mia dimensione. Ricercavo nei volti storie da raccontare, persone depositarie di esperienze da condividere e invece trovavo ovunque barriere e ghettizzazioni. Giravo per biblioteche, portavo sempre un libro con me, ma notavo che per la gente valeva di più il bullo con la birra in mano, che lo studioso armato di penna. Mi chiedevo il senso di tutto ciò, cosa avrei potuto fare nel mio paese, io che a diciassette anni ho scritto il mio primo romanzo? Ho capito ben presto che la terra che mi ha dato i natali non sarebbe stata la terra della mia età adulta e dunque sono partito, ho fatto il salto nel vuoto».

Cosa hai trovato?
«Quando si parte si trova sempre meno di quanto si lascia, ma questo va messo in conto. Andare via implica rinunciare ad alcune comodità, alla sicurezza che la casa paterna ti offre, ai pasti cucinati da mamma, al tepore famigliare. Eppure ne vale la pena, perché si resta affascinati dal senso di scoperta. Il mio sguardo sul mondo è stato forgiato proprio mentre andavo in giro per le grotte della Puglia, del mio territorio. Ho sempre nutrito un amore viscerale per quelle strane radici del cielo. Per me rappresentavano un esercizio esplorativo. In fondo devo tutto alla mia indole curiosa: la curiosità non è che il lievito della vita, ciò che le dona sapore, l’ingrediente di cui non si può fare a meno».

Tu che hai fatto del viaggio e della scoperta la tua ragione di vita, hai composto una sorta di ode alla tua terra, un canto nostalgico per il Sud. Ettore il protagonista, scappa via da giovane, come te, ma a un certo punto capisce di voler tornare a casa. Quanto c’è di te in questo libro?
«Beh, la ritualità del ritorno è comune a tanti giovani, specie a quelli della mia generazione, che hanno scelto di andar via in cerca di opportunità e poi hanno deciso di rientrare. Diciamo che questo romanzo non è interamente frutto della mia fantasia, poiché molte cose mi accomunano a Ettore. Tutto ciò che scrivo in qualche modo esce da me, dalle mie sensazioni. Quando si scrive si ha sempre un po’ l’illusione che la propria esistenza acquisisca finalmente valore. La vita è un calamaio dove si intinge il pennino: la riserva di inchiostro aumenta man mano che accresce l’esperienza e io voglio continuare ad acquisire inchiostro. Ritengo che lo scrittore sia come un minatore, che scava nella roccia in cerca del minerale. Più si cerca, più diamanti si trovano».

Dunque, a differenza di Ettore, tu non torni. Continui a nutrire la tua curiosità in giro per il mondo.
«Sono dell’opinione che siamo quello che facciamo. Troppa gente si trincera dietro l’apparenza, l’autocelebrazione della fuffologia. Sono tutti poeti con il self-publishing, tutti artisti sui social. Ritengo che più che parlare e riempirsi di parole inutili, si debba fare, esplorare, sperimentare. Io sento di aver rispettato in qualche modo ciò che l’universo prevedeva per me. Ed è questo l’augurio che faccio a tutti i giovani, compreso mio figlio Christopher, che ora ha ventidue anni».

Che tipo di papà sei?
«Un papà giovane, l’ho avuto a soli diciannove anni ed è stata una botta di vita, il motore che mi ha fatto capire che dovevo dare il massimo, uno spartiacque che ha rivoluzionato completamente la mia esistenza. Chris è un ragazzo straordinario, viaggia con me, siamo stati insieme in Cina e in Giordania, tra noi c’è una grande intesa e collaboriamo spesso anche per vari libri fotografici. Molti scatti pubblicati sono i suoi, ne sono orgoglioso».

Città protagonista della Ballata dei sassi è Matera. Perché proprio lei?
«Perché nutro un’affezione speciale per questa città. È il luogo in cui ho conosciuto l’amore, è un posto iconico, come può esserlo il Lungosenna, ad esempio. Si dice che quando Adriano arrivò a Matera fosse notte e, vedendo queste luci sospese letteralmente sul nulla, la paragonò a un cielo stellato. Per me è stato lo scenario perfetto per il mio libro, nel quale ho voluto mostrare la sua straordinaria bellezza e unicità. C’è una lietezza in quello skyline che ha fatto innamorare tanta gente, è una città dell’amore».

Cos’è l’amore per te?
«Un ciclo di stagioni. Inizia con la primavera, l’innamoramento, il romanticismo; continua con la calura estiva, la passione sfrenata; poi arriva l’autunno dove tutto si appiana, trova un equilibrio e in seguito l’inverno, la stasi, ma non intesa come morte, sia chiaro, quanto come rinascita. L’amore, come la vita, attraversa varie fasi, e anche la più bassa serve, è necessaria per ridare una nuova spinta».

Questa risposta svela il tuo stile poetico, di cui il tuo romanzo è intriso.
«Dicono che io abbia uno stile particolare, ma ogni volta che mi rileggo non apprezzo mai ciò che ho scritto».

Allora significa che sei bravo davvero! Chi si piace troppo quasi sempre è mediocre. Ogni capitolo del tuo libro è strutturato come un incontro. Tra i tanti che hai fatto, qual è stato l’incontro che ti ha segnato maggiormente?
«Potrei parlarti di Franco Dragone, il padre del Cirque du Soleil, il quale mi ha insegnato a non mollare mai la mia parte bambina, quella che mi fa avere uno sguardo puro sul mondo, una curiosità senza filtri. O di Abbas Kiarostami, poeta, che mi ha dato il benvenuto nel mondo degli inquieti. Eppure sento di non poter parlare di un unico incontro, perché è la somma di questi ad avermi forgiato e arricchito. Non vanno letti nella loro singolarità, ma nel complesso. Ogni persona è il tassello di un puzzle infinito, che non si completa mai. Ho la fortuna di venire dalla terra dell’abbastanza, ho conosciuto molto, ho visto tanto dolore, tanta sofferenza, ma anche tanta ricchezza, natura rigogliosa, paesaggi mozzafiato. Ciò che mi auguro è di essere io, per qualcuno, la specialità di un incontro».

Senz’altro lo è stato per me.


 



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