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In evidenza/Parole che contano

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

10
MAG
2013

 

Parte da questa setttimana la nostra rubrica dedicata alle segnalazioni di alcune recenti pubblicazioni che meritano di arricchire il bagaglio di lettori
 
 
“Ogni lettura importante reca con sé i segni di una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza, come quando un canto si innalza d’improvviso e trova la sua armonia. Il libro allora diventa una creatura, che hai sempre a fianco e che porta nella tua vita i suoi affetti, le sue ragioni a interpellare i tuoi affetti, le tue ragioni…Un libro non è soltanto i significati che comunica, ma i significati che vi aggiungiamo, garantiti, se non dalla correttezza intellettuale, dall’intensità del sentimento, dall’emozione, dall’affetto.” da “LE VOCI DEI LIBRI ” di Ezio Raimondi
 
L’ILVA torna ad essere al centro di un nuovo romanzo, si tratta di VELENO (Sperling & Cupfer), scritto da Cristina Zagaria, originaria di Taranto, residente a Roma, giornalista de La Repubblica, autrice  fra l’altro, di  Malanova, storia vera di Anna Maria Scarfò, la prima donna in Italia costretta a vivere sotto scorta dopo aver denunciato i suoi stupratori. Con “Veleno” la Zagaria ci consegna un romanzo civile che racconta di una donna alla riscossa, Daniela Spera, che tornata a Taranto nell’estate del 2009 dopo alcuni anni trascorsi a Parigi, inizia la sua battaglia in quella “città dai 256 camini”, nella quale si spazza via polvere nera, si vieta ai bambini di giocare nei parchi, si seppelliscono morti, si contano i malati di cancro. Il tutto vissuto e percepito come fosse naturale. Fra gente che è stanca di sentir parlare di ILVA, convinta che tanto nulla cambierà, Daniela Spera,  inizia una battaglia che la porterà dove mai avrebbe immaginato, sostenuta da un profondo senso della giustizia e da quella passione che rende grande chi è piccolo e annienta chi sembra immenso. “Taranto – scrive nell’introduzione Cristina Zagaria – è una città che vive in ostaggio. Salute o lavoro. Presente o futuro. Sfiducia o reazione. Non si può scegliere. E allora rimane solo la rabbia, la rabbia che maledice, come quella della targa di ferro arrugginita che Peppino Corisi, operaio Ilava, morto di tumore nel 2012, ha voluto affiggere sotto casa sua, al quartiere Tamburi. La rabbia dell’impotenza. Ma a Taranto c’è anche chi ha scelto di non arrendersi.”
 
 
Remo Bodei recentemente è stato ospite a Martina Franca, nell’ambito delle attività promosse dall’Assessorato alla Cultura e al Diritto allo studio, e ha affrontato il tema della memoria e dell’oblio. Ora ci consegna un suo interessante e approfondito intervento, BEATI I MITI, PERCHE’ AVRANNO IN EREDITA’ LA TERRA, (Lindau) scritto insieme a Sergio Givone, ordinario di Estetica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia di Firenze, nel quale ancora una volta, con un tempismo straordinario, affronta una tematica di grande attualità politica: quella della mitezza.  “Chi sono i miti?” si chiede Remo Bodei. “La mitezza viene oggi popolarmente intesa come una forma di rassegnata condiscendenza, di gentilezza apatica, di delicatezza di sentimenti e di modi da parte di anime affabili e premurose, che rifuggono dall’aggressività e dalla superbia...In un periodo di grave crisi finanziaria, di accresciuta percezione dell’insicurezza personale, di preoccupante assenza di lavoro, di allentamento dei legami sociali e familiari appare più difficile lo sforzo di conservare la mitezza, di conciliare fermezza, coraggio, pazienza e gentilezza, mantenendo nello stesso tempo, la fiducia e la speranza nella possibilità  di modificare insieme il futuro. Prevalgono l’iracondia, lo scontento, la rinuncia o l’indignazione spesso non indirizzata verso obiettivi specifici e largamente condivisi…”  da queste considerazioni  scaturiscono le riflessioni di Bodei e Givone che colgono nella mitezza la fonte alla quale attingere le energie necessarie per procedere fiduciosamente lungo il cammino della vita.  
 
Tilde Pomes, nata ad Ostuni, risiede ad Altamura, dove insegna Italiano e Storia in un istituto di istruzione secondaria superiore. Ha voluto provarci. E’ nato così il suo primo romanzo AMORE SCARNO (Manni), una storia intensa, dura narrata in prima persona da Sara al fratello Angiolino, andando a ritroso negli anni. L’ambientazione è Ostuni, in primo piano le stanze di un palazzo signorile nel quale si compiono le vicende raccontate con un linguaggio denso, realistico che permette ai vari personaggi di balzare nitidi agli occhi del lettore: una madre inconsapevolmente egoista, un padre-padrone violento, una nonna e un fratello adorati dalla protagonista, gli zii, le amiche, la scuola e il paese, il tutto in un abile intreccio di tensioni, colpi di scena, emozioni e passioni che ricostruiscono  con la precisione dei dettagli gli anni fra i Cinquanta e i Settanta. Un esordio, quello di Tilde Pomes, che promette molto bene, un incipit che stuzzica: “Quel giovedì sera ero in braccio a mamma, e insieme guardavamo la televisione, quella in bianco e nero. Un signore simpatico, un  certo Mike Bongiorno, che mi chiedevo come fosse finito in quella stravagante scatola ciarliera, ci salutò con Allegria e invitò un giovane impacciato, con gli occhi di pesce morente, a lasciare o raddoppiare non si vedeva cosa;…”
 
Nel 2012 sono state uccise tantissime donne, non si conosce il numero esatto perché a oggi non esiste un centro di monitoraggio ufficiale che riveli quanti sono quelli che la cronaca chiama delitti passionali e che si è convenuto chiamare femminicidi. Michela Murgia e Loredana Lipperini, due voci autorevoli del mondo letterario e giornalistico, con L’HO UCCISA PERCHE’ L’AMAVO, partendo da “fatti” e da “parole” offrono un saggio necessario, assolutamente da leggere e far leggere nelle scuole, nel quale sul femminicidio si riflette  e si discute con l’attenzione massima che le parole meritano. “Si è maschi e femmine per natura e non per cultura” tutto parte da qui, da quello che le autrici definiscono un “racconto deviato”, un racconto che nonostante i secoli è ancora ben scalfito nell’immaginario collettivo. “…quel malinteso concetto di natura, uomini forti e donne deboli, uomini predatori e donne prede, si miscela con un generale terrore dell’abbandono che oggi ci riguarda tutti, donne e uomini. Ma le donne, diceva una psicologa tempo fa, temono di essere lasciate, gli uomini lo rifiutano. Per cultura e non per natura: il femminicidio si chiama così proprio perché definisce un tipo di delitto che avviene all’interno di relazioni impregnate di una struttura culturale arcaica, che ancora non si dissolve. ..molti negano il femminicidio e ripetono che il genere umano è cattivo e che è sempre successo. E invece no, non è sempre successo, non così.” Le donne nei secoli sono morte e sono state uccise per svariate ragioni (perché giudicate eretiche, streghe, seduttrici, adultere).  Ma, questo è il punto, continuano a morire a decine e centinaia per uno specifico motivo: l’abbandono. “E lui… arriva all’appuntamento con un coltello o una pistola o una tanica di benzina, oppure con le mani sole. O mia o di nessuno.” MIA – IO . Ecco è  da queste parole che occorre partire, in esse la radice:  “Il possesso, oggi, non è più mitigato dalla socialità. Il “mio” non è più “nostro”. Gli io sono soli. Soli si muovono nel mondo, cercando il proprio posto che spesso è illusorio.”
 
 
 


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