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A scuola di dialetto

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

9
FEB
2021
Nei primi anni dell’Unità, quando l’italiano non lo parlava quasi nessuno, i maestri erano costretti a insegnare la lingua patria partendo dal dialetto locale, un po’ come oggi si insegna la lingua globale partendo da quella nazionale. E così andò per molto tempo, tant’è che lo stesso ministro Gentile, quello dell’omonima Riforma, consigliava di procedere dal “dialetto alla lingua”, perché anch’egli riteneva opportuno che la didattica considerasse come punto di partenza il contesto linguistico e socioculturale degli studenti.
Ma, oggi che il dialetto non è più parlato come un tempo, oggi che tutti parlano l’italiano, che senso avrebbe l’insegnamento del dialetto a scuola? Il senso è che il dialetto, a dispetto di un certo negazionismo linguistico, esiste tutt’oggi e resiste soprattutto a livello fonetico e sintattico, dando principalmente luogo a due fenomeni detti accento e forma dialettale, ossia uso di particolari pronunce dei suoni e di costruzioni della frase non sempre pienamente intellegibili da tutti gli altri abitanti della Penisola. E solo attraverso un certo approfondimento del dialetto, o di quel che ne resta, si può cominciare a riflettere su questi accenti e su queste forme. Per esempio, risulta assai difficile spiegare la differenza tra vocali italiane aperte e chiuse ai bambini martinesi perché essi possono incontrare una naturale difficoltà nel distinguere la “pèsca”, il frutto, dalla “pésca” quale atto del pescare! La stessa differenza, invece, viene da loro subito colta quando la si cala nel contesto fonetico locale ricorrendo a termini ancora comuni in città quali, ad esempio, “pèscÉ™” (pace) e “péscÉ™” (peggio). Lo stesso discorso vale, a livello sintattico, per le cosiddette “forme dialettali”, tipiche di quel parlato semicolto che si colloca a metà strada tra l’italiano e il dialetto.
Insomma, non si può insegnare per bene la lingua nazionale né tantomeno quella globale senza aver prima fatto i conti con quel che resta del nostro vivissimo substrato linguistico locale. Ben venga, quindi, lo studio del dialetto come occasione per riflettere scientificamente sugli aspetti fonetici, morfologici e sintattici del linguaggio. Certo, coi bambini (e pure con molti ragazzi!) non si può mica esordire con la dialettologia del celebre glottologo Gerhard Rohlfs, ma si può benissimo (come già si fa!) introdurre l’argomento in maniera giocosa, attingendo dal vasto repertorio del folclore locale, ambito in cui tutt’oggi il vernacolo, o quel che ne resta, rimane il veicolo privilegiato di una certa emotività comunicativa e di una particolarissima sagacia popolare non ancora del tutto estinta.
Quindi, studiare (ma non troppo!) il proprio punto di partenza, il dialetto, o quel che ne resta, per riflettere su certe tendenze e, magari, correggerle. Studiare la linguistica per meglio usare il linguaggio. Perché non abbiamo altro strumento per capire, capirci e farci capire.


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