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Teatro/Siamo tutti Ada e Savino

Pubblicato da: Categoria: EVENTI

23
NOV
2012

Siamosolonoi: non è la canzone di Vasco Rossi, ma lo spettacolo che Marco Andreoli porta in scena al TaTà.  L’amore spietato e dolcissimo, il dolore, l’abbandono e la consapevolezza di diventare adulti fanno da padroni. Vi ricorda qualcosa?

Vorrebbe essere un romanzo di formazione, autobiografico se vogliamo, ma non solo per l’autore e gli attori, ma per tutti noi; come se ripercorresse il trascorso di tutti: i giochi, i timori, le curiosità, l’incoscienza, la paura delle responsabilità, la solitudine, l’amore, l’elaborazione di un lutto, la verità di una colpa, il dolore e l’abbandono. Il tutto si svolge in una cucina, con un tavolo, qualche sedia, un piccolo albero di Natale, un frigorifero. Tutto un po’ sovradimensionato, e sul frigorifero, seduta come si mettono a sedere le bambole, una bambola di pezza, Ada. Poi c’è qualche macchia di sangue e la mano di un uomo morto che sbuca da una lenzuolo a losanghe. E infine c’è Savino, che stringe i pugni, distoglie lo sguardo e pensa; pensa a quanto tempo gli rimanga per mettere ogni cosa al suo posto. Ada, come ogni gioco che prende vita, vive e interpreta i personaggi, i desideri e le paure che smarginano dalla testa di Savino. Ada è tutto ciò che Savino vorrebbe che fosse: Ada è mamma, è l’amante, la sposa, l’insegnante che gli corregge i congiuntivi, Ada è la voce della sua coscienza, ma alla fine, il tutto è mosso dal pensiero di Savino, dal suo istinto, che lo porta alla curiosità, al cambiamento e quindi all’abbandono di Ada. Ognuno di loro persegue uno scopo diverso, Ada lo status quo, Savino l’emancipazione. Ecco che allora, in questa cucina da pulire e riordinare, si scatenano duelli fatali e vendette violente, messinscene nere o leggere da morire, racconti di ambasciatori d’altri tempi o di madonne diseredate. Ma una stanza del genere deve contenere anche la vita quotidiana, così come solo la mente di un bambino abbandonato può desiderarla: nient’altro che un piccolo mondo infinito nel quale preparare il pranzo e guardare la tv, nel quale allevare un figlio, nel quale ci si stringe la mano o ci si scopre gelosi per il solo gusto di esserlo. Il racconto è articolato, dall’andamento incalzante, ricco di immagini e di alternanze, risultando come la metafora di un percorso umano di privazione e di liberazione, di conquista e di sconfitta. Il percorso  va da sé,  necessario quanto inevitabile; il tempo, la memoria, la percezione del reale: sono queste le variabili che alimentano e consumano l’amore patologico, possessivo, infantile che unisce Savino alla sua bambola Ada. Savino, del resto, è solo un bambino chiuso in una stanza, che per sopravvivere alle violazioni del proprio spazio e del proprio tempo, inventa un mondo di oggetti, di cose; un mondo che dovrebbe poter dominare ma che in realtà, avverte come un continuo fallimento emotivo. Ada è uno di questi oggetti, una di queste cose: una bambola dalle personalità multiple che, al tempo stesso, definisce e articola l’universo chiuso di Savino.
Un uomo e una donna in un confronto che al tempo stesso vuole essere spietato e dolcissimo, senza per questo voler mai dichiarare né il vinto né il vincitore. Siamosolonoi si rivolge a un pubblico variegato che, quasi sicuramente, sente nascondersi, dietro a ogni sorriso sereno, un’ombra flebile di malinconia. A interpretare un bambino e una bambola, protagonisti dello spettacolo sono Michele Riondino, il giovane attore tarantino e Maria Sole Mansutti, già nota al pubblico nelle ficton “Don Matteo”, “Ris” e “Distretto di polizia 10″. «E’ una storia di amore e di abbandono» – spiega il registra Marco Andreoli durante il dibattito  con il pubblico dopo lo spettacolo– «Abbiamo lavorato su ritmi e situazioni molto diverse tra loro, con una scenografia molto importante che diventa un personaggio fondamentale insieme ai due attori». I due protagonisti soddisfano le domande del pubblico subito dopo la loro interpretazione, chiarendo molti punti e dandone spiegazione
Perché lo definite “amore patologico” il vostro?
Riondino: «Perché l’amore è una malattia, è patologia così come l’abbandono; l’amore che raccontiamo in scena non è gestibile da parte di entrambi».
Ma Savino e Ada sono una coppia?
Riondino: «Savino è un bambino che vuol giocare, forse più sensibile degli altri, che ha ucciso il padre e lo ha fatto a pezzi; Ada è la sua coscienza, che tenta di fargli capire che deve crescere, che non può giocare per sempre. E’ uno spettacolo molto fisico e acrobatico, Ada e Savino non fanno altro che combattere in scena; è molto metaforico nel raccontare il rapporto di coppia e la chiusura di esso. La metafora di questi ragazzini la raccontiamo proprio per spiegare le dinamiche di chi sta per diventare adulto, sfiorando argomenti come amore, morte, abbandono, crescita; è un continuo scoppiettare come fuochi d’artificio». 
Mariasole: «Ada è quelle che non vuole che le cose cambino, ma alla fine si scontra con il cambiamento, con Savino che cambia insieme al mondo. Savino crescendo acquisisce competenza, esperienza e coscienza del suo stare al mondo e del suo rapporto con Ada».
Savino in che modo decide di seguire il suo pensiero e di abbandonare Ada?
Riondino:«Savino già aveva preso la sua decisione, ma le prova tutte per convincere Ada, per portarla con sé, ma era sempre coinvolto dal senso di responsabilità, dalla crudeltà del mondo esterno: ognuno di noi ha un doppio, il progressista e il conservatore».
Mariasole: «Quando Ada indossa l’abito da sposa, dopo il ballo e pronuncia il suo discorso, pieno di progetti futuri, ben definiti, tutto ciò che Ada avrebbe voluto essere per Savino, “il suo inizio e la sua fine, lo spazio non superiore a mezzo metro che li separasse”, tutto ciò che aveva la possibilità di chiudersi in quella casa, con lei; in quel momento Savino acquisisce consapevolezza della loro distanza e della netta differenza nell’approcciarsi alle cose. Savino in quel momento apre la porta e va via, provando al tempo stesso un forte dolore, rappresentato ancora una volta dalla vista del sangue che sgorga dalla portella di un mobile della cucina».
Come è stato tornare bambini?
Mariasole: «Per me molto semplice e divertente: ho una figlia di 12 anni!».
Michele se potessi esprimere tre desideri per la tua città, cosa chiederesti?
Riondino: «Ce ne sarebbero tanti, ma soprattutto chiederei di avere l’importanza culturale che ci meritiamo, in quanto portatori per eccellenza di cultura. Poi ancora di saper riconoscere l’importanza culturale del nostro territorio, dal punto di vista del turismo, intrattenimento; abbiamo tanto da offrire, ma altrettanto da imparare. Vorrei che la coscienza dei tarantini si risvegliasse e sta succedendo per fortuna!» 
Com’è stato recitare nella tua città ora che sei famoso?
Riondino: «Emozionante, molto emozionante! Soprattutto perché sono tornato a recitare nel teatro da cui son partito, quando il Crest era a Taranto Vecchia; è stato molto d’impatto. Taranto è una città che amo così tanto, quanto l’ho odiata in passato!».
 
 
 
 


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