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1945/2015/ Settant´anni dopo, parliamone ancora

Pubblicato da: Categoria: EVENTI

24
APR
2015
"Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, oggi 25 aprile, in nome del popolo e dei volontari della libertà e delegato del solo governo legale italiano, ha assunto i poteri di governo": Correva l’anno 1945 e la guerra era finita. Sono trascorsi 70 anni da quello storico annuncio del CLNAI che non riguardava solo Milano, sede del comando partigiano dell’Alta Italia, ma simbolicamente tutta l’Italia, liberata dall’occupazione nazi-fascista. Settant’anni sono passati dalla fine della seconda guerra mondiale. Cosa ha lasciato dietro di sè la catastrofe?
L’Italia fascista già nel 1935 si presentò in armi contro l’Etiopia e dopo sette mesi la sottomise per farne una colonia. Alle ore 18:00 del 10 giugno 1940 Mussolini, dal balcone di palazzo Venezia arringava l’oceanica folla intervenuta, con queste parole: “ Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del regno d’Albania, ascoltate! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia…….” Con queste parole, osannate dalla folla inebriata che forse non si rendevano ancora conto che sarebbe stata lei a doversi mettere in armi e fronteggiare le ostilità, l’Italia entrò in guerra. Ne uscì solo cinque anni dopo, sotto un cumulo di macerie, di milioni di morti e con uno strascico di guerra civile.
Settant’anni sono trascorsi. Ormai non se ne parla più, se non nelle ricorrenze: Festa della Liberazione, Giornata della Memoria, ricorrenze partigiane (sempre meno frequenti). Forse è giusto così. Che serve rivangare in un passato di dolore e di sofferenza, ormai? Un tempo, da ragazzo, mi capitava di ascoltare i discorsi dei grandi, dei reduci della seconda guerra mondiale: gente che si ritrovava intorno a un camino a parlare delle loro esperienze in Albania, in Grecia, in Africa, in Russia, sul Don. Gente che portava ancora i segni delle storie che raccontava. Chi ai piedi aveva delle scarpe stranamente piccole, chi al posto di una mano, di una gamba, di un braccio, mostrava una protesi, un moncherino o chi aveva una benda su un occhio. Mio padre mi spiegò che erano reduci di battaglie combattute al fronte e chi portava quelle scarpe così piccole era perché gli erano state amputate le dita dei piedi, chi era senza un arto o senza un occhio era perché era stato fortunato ad essere rimasto solo ferito in guerra. Soldati partiti su tradotte militari con muli, divise estive e scarpe di cartone, per invadere la Russia nel 1941, si sono trovati a fronteggiare due inverni sul fiume Don con temperature glaciali. Poi lo sfondamento dell’Armata Rossa nel gennaio 1943 che travolse le divisioni alpine e che provocò la ritirata in condizioni disumane, senza cibo e senza mezzi, di oltre 1000 chilometri dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia - 220.000 uomini). Di quanti erano partiti nel ’41 ne furono fatti prigionieri dai russi 70.000 e di questi solo 10.000 fecero ritorno in Patria nel 1946 – 30.000 mila caddero in battaglia o di stenti durante la ritirata. A questi vanno aggiunti i dispersi, più i militari che per malattie, per congelamento, o per le ferite riportate in battaglia, morirono nei mesi e anni successivi in Patria. Una catastrofe che negli anni ’50 e ’60 era ancora viva, nel ricordo e nella vista delle menomazioni dei reduci.
Mio padre, anche lui combattente e reduce, non volle mai parlarmi delle sue esperienze militari. Era partito con gli altri suoi coscritti alla fine del 1941, a 26 anni. Quando partì aveva già perso il fratello Fiorello nel ’41, in Albania. L’altro fratello, Guido, era stato arruolato in marina e di lui, sino alla fine del ’45, non se ne seppe nulla. Però a mio padre piaceva parlare di quel periodo con i suoi amici e coetanei. Quando si ritrovavano a casa nostra, dopo una giornata di lavoro, e con un fiasco di vino sul tavolo, si lasciavano andare a raccontarsi esperienze d’armi, di sofferenze, di morte. Io, rannicchiato in un angolo, vicino al focolare, stavo ad ascoltarli e capii anche del perché mia nonna fosse sempre triste e vestita di nero.
Poi questa gente, col passare degli anni, di queste cose non ne parlò più. Chi era troppo vecchio per lasciarsi andare, chi, dopo tanti anni di sofferenze e ricordi amari, non poteva più farlo perché la vita gli si era spenta. Per ricordare, per non far cadere definitivamente nell’oblio, queste date, queste tragedie umane, questi morti, sono rimaste ora solo le ricorrenze e i discorsi ufficiali delle autorità di turno. 
Che ne sanno, ad esempio, queste nuove generazioni, dei sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre del 1943, mentre gli alleati erano già sbarcati in Sicilia e stavano risalendo la Penisola? Cosa ne sanno della repubblica di Salò? Cosa gli è stato riferito su Auschwitz, Birkenau e i campi di sterminio o, più semplicemente delle sofferenze patite dai loro nonni e bisnonni? Credo poco o forse nulla. 
Cosa si insegna nelle scuole sulla seconda guerra mondiale? Forse qualche data ufficiale, qualche tema che parli di questa o quella ricorrenza o giornata. Non credo molto di più. Ma forse è meglio così. Le angosce e le sofferenze altrui è giusto che vengano dimenticate e non farle ricadere su queste generazioni così lontane e diverse da quelle che sono morte, per la cretineria umana, sui fronti africani, greci o russi o seppellite in fosse comuni sui vari campi di battaglia.
25 Aprile, Festa della Liberazione. Oggi penso che se ne potrebbe trarre una domanda per un quiz televisivo e vedere quanti saprebbero rispondere.
 


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