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Davide Berardi/Musica di lotta (mancina)

Pubblicato da: Categoria: EVENTI

11
GEN
2013

 

Una chitarra per amica, utile da un lato per fare musica, dall’altro per scrivere. E ora che è uscito il suo primo album da solista, il cantautore di Crispiano continua sulla scia dei maestri della parola
 
«Sono nato nel 1985 a Martina Franca; sono un capatosta, quindi.»
Questo racconta Davide Berardi della sua nascita. Figlio di genitori bitontini trasferitisi nel tarantino, a Crispiano, alla fine degli anni Settanta, Davide è il terzo pargolo della coppia a venire al mondo. Sin da bambino, con una madre che cantava nel coro, con un padre collezionista di dischi e con due fratelli maggiori dediti a fare musica negli scantinati, Davide comincia ad assaporare le note, già parte del suo corredo genetico, e all’età di tredici anni chiede di girare le corde di una chitarra (è mancino), il che avrebbe tolto la possibilità agli altri due fratelli (destrimani) di usarla. Davide l’ha vinta e quella chitarra divenne la sua migliore amica: avendo una grande passione per le rime e filastrocche, impara ad usare la chitarra da entrambi i lati: dalla parte cordata tira fuori accordi e melodie, mentre usa la parte posteriore, liscia, per poggiare carta e penna e scrivere.
Dopo tanti anni di studi, esercizi e rime scritte sul dorso della sua chitarra, Davide continua a scrivere per sé, ma è consapevole che la sua musica, una volta liberata dalle corde della sua gola e da quelle della sua chitarra, diventa di tutti. La sua esigenza di scrivere e musicare le parole, la sua valvola di sfogo è anche la principale maniera che ha per abbellirsi e abbellire la vita.  
Una domanda che, credo, ogni artista, sia questi un musicista, un cantante o uno scrittore, si pone: perché scrivere? Perché fare arte?
«“Quando la gente sa che sai suonare, ti toccherà suonare tutta la vita”. Questo lo diceva un grande cantautore italiano, e aveva ragione, perché per me suonare e scrivere, prima di tutto, è un’esigenza personale. Ed è un piacere immenso quando quelle cose che scrivi per te, per quella tua voglia di confronto, diventa poi un messaggio universale. La gente si riconosce in quello che hai scritto. La prima cosa che mi viene in mente dopo aver finito di scrivere una canzone è “ma che diamine se ne fregherà la gente di quello che ho scritto?”, eppure molte volte poi la gente si ritrova. La musica, poi, è un bene pubblico; le canzoni diventano di tutti».
Il titolo del Suo primo disco da solista, “Chi si accontenta muore”, mi piace molto. Immagino che derivi da una riflessione molto profonda.
«Nel giro di questi anni, quando ho cominciato a suonare mi sono ritrovato nel revival della musica popolare. Quando ho cominciato a suonare in gruppo, con i Cantinaria (a quell’esperienza risale il mio primissimo disco), con brani scritti da me, mi sono sempre voluto mantenere sull’universale, nel senso che ho sempre voluto parlare a quanta più gente possibile e usavo il gergo popolare. “Chi si accontenta muore” è la rilettura, non a caso, di un famoso detto popolare, solo che ci si sta dimenticando di quegli antichi pilastri della saggezza popolare, che in qualche modo ci davano solidità su più livelli, quindi ho voluto stravolgere, scherzare con questo famoso detto per esprimere il mio disappunto; urlare alla gente “non solo non abbiamo più un futuro, ma stiamo perdendo anche il presente e il passato”. Magari non ce ne stiamo neanche accorgendo, non lo stiamo facendo nemmeno apposta!
Sono voluto partire da questa frase anche perché, quando ho iniziato la cernita delle canzoni per il disco, mi sono accorto che tutti questi personaggi erano accomunati dall’atto del viaggiare, in vari aspetti. Successi e fallimenti sono accomunati dal fatto che vi si arriva sempre attraverso un viaggio, e il viaggio deriva sempre dal non accontentarsi mai. Se una persona sta male nella propria terra d’origine, è giusto che parta, scopra, torni e si ribelli…».
Sì, dopotutto il viaggio è il pilastro su cui si fonda la cultura europea: Ulisse viaggia per soddisfare la sua perenne sete di conoscenza, non si accontenta mai.
«Proprio così! E non è un caso che mi sia ispirato, per alcune canzoni, anche a un altro famoso Ulisse, quello di Joyce, che ha scritto ed è andato come un fiume in piena. E l’Ulisse antico, quello omerico, ci insegna a non accontentarsi mai. Chi non si accontenta non muore mai, e infatti parliamo di Ulisse l’incontentabile ancora oggi, dopo quattromila anni. E di Ulisse, oggi, ce ne sono ancora molti. E’ stato fondamentale, per me, conoscere la storia di Beppe Alfano, il giornalista siciliano ucciso nel 1993 dalla mafia, che non si è accontentato del compromesso, di sotterrare il suo lavoro d’inchiesta in cambio del denaro sporco ed è stato ucciso per questo. Lui lo sapeva, eppure ha continuato ad insegnare la forza di non arrendersi ai suoi figli. Io ho avuto l’onore di conoscere uno dei figli di Alfano, che poi rappresenta l’etichetta che mi ha sostenuto, e la mia idea ha conosciuto anche l’appoggio di Roy Paci, che è un musicista molto attivo nell’ambito della lotta alla mafia. Diciamo che il mio disco è anche la concretizzazione di questa idea di lotta, insegnatami anche da mio padre: mi ha sempre insegnato a tenere alta la testa e a portare avanti gli ideali senza accontentarmi mai del compromesso».
A pensarci bene, questo titolo vale anche per la città di Taranto: ci si è accontentati di puntare solo sull’Ilva, ignorando tutte le altre grandi risorse in suo possesso, e ora è una città che muore, non solo metaforicamente.
«Ecco, bravo, questa è una delle prime interviste in cui esce fuori questo parallelismo. Dopotutto, se devo raccontare una storia che sia universale, devo anche partire da un’esperienza a me vicina. Devo parlare del mio microuniverso per arrivare al macrouniverso. Il disco, non a caso, comincia col brano “Mia Terra”, storia del mio ritorno, e per me non è bello scendere dal treno e trovarmi davanti alle ciminiere che, anche se sotto sequestro, sputano fango e veleno. Vedi, ci troviamo di fronte alle conseguenze di esserci accontentati, ma ora questo non ci soddisfa più, non ci rende contenti. Noi parliamo di Taranto, ma il degrado lo si trova in ogni angolo dell’Italia. La situazione a Taranto è l’aspetto più evidente del degrado italiano, perché è stata soppiantata la “persona”, non si tutela più la gente, ma solo gli interessi. Insomma, non dovrebbe esistere la scelta “morire di fame o morire di cancro”, non si dovrebbe morire né dell’una né dell’altro. Bisogna trovare delle soluzioni alternative, è difficilissimo, ma siamo ad un punto di non ritorno. La Storia ci insegna che una volta toccato il fondo si risale sempre; a Taranto non dobbiamo scegliere più un modo per morire piuttosto che un altro: noi vogliamo vivere! Il fatto è che hanno usato contro di noi una strategia della paura, e continuano tutt’ora: la gente, impaurita, si è accontentata».
La Sua musica è da sempre legata alla tradizione popolare, pugliese. Con i Cantinaria cantavate “Inno del Tavoliere”, “Sud”, “Pizziche e tarante”. In “Chi si accontenta muore” troviamo ancora questo tipo di approccio?
«Sì, sì, ci sono delle canzoni nel disco che affrontano i temi della lingua dialettale, dell’ipotetico Sud del Mondo e della musica popolare. E’ una cosa che io non voglio perdere, mi identifico molto nel posto in cui vivo perché accresce le cose che faccio, ma è chiaro che c’è stata anche un’evoluzione che ha allargato gli orizzonti. Oggi abbiamo la fortuna di suonare anche fuori la Puglia, quindi è necessario cercare di dire quelle cose in modo che arrivino a tutti. Magari il dialetto da me usato oggi è più italianizzato, ma ho fatto sì che non perdesse il suo calore».
Non crede che il Sud Italia venga troppo spesso idealizzato (quando non viene demonizzato) come terra dove c’è solo sole, mare e allegria? Una terra dove non si possa fare altro che ballare la pizzica, quando in realtà sono presenti risorse che, se ben sfruttate e rispettate come lo Stato fa al Nord, renderebbero l’Italia una vera e propria potenza?
«E’ anche questo che voglio dire, nell’intervista come nel disco. Si idealizza un po’ l’intera società. Le situazioni sono simili in tutta Italia. Oggi la Puglia, grazie a una politica che, bene o male, è stata attenta alla cultura (non mi interessa come, ma conta  che sia stata fatta), ha finalmente una musica in cui si può identificare. La Notte della Taranta, al di là di tutte le questioni prettamente economiche e organizzative, è un evento che ci permette di distinguerci e di identificarci intorno a qualcosa che è realmente esistito: il fenomeno del tarantismo appartiene ad una civiltà da cui noi discendiamo. Il tarantismo comprende vari aspetti, da quello scientifico a quello d’intrattenimento, e noi, nel nostro sangue, lo possediamo. Mi sono sempre chiesto perché in America il blues è considerato sacro e in Italia la musica popolare è folklore. Io, per la mia evoluzione personale, sono andato a studiare musiche che non mi appartengono ma che sicuramente mi arricchiscono. Miscelarle con la tradizione popolare, che preferisco, fa parte dell’essere cantautore. L’importante è conoscere bene ciò che, artisticamente, vai a contaminare».
La contaminatio mi suggerisce un altro indizio su chi, secondo me, sia il Suo “Maestro”, ma credo di aver dedotto già la risposta dalla citazione che ha fatto all’inizio.
«Okay, vediamo se indovini».
Fabrizio De André.
«Sapevo che l’avresti detto! Dunque, De André non prescinde dalla musica popolare, ma lui ha spulciato anche indietro, fino alla musica barocca. Ha fatto degli studi di sardo, ha scavato e scoperto le sue radici. La musica popolare è arte, perché dura nel tempo e De André vi si è rifatto. Anche alcuni nel rock o nel metal i musicisti si rifanno a Bach.
Negli anni in cui io cominciavo, De André moriva, quindi io mi legai idealmente a questo cantautore. Ha avuto un ascendente molto forte su di me, sento di compiere un percorso molto simile al suo, non rimanendo solamente nell’ambito della musica popolare ma partire da essa e allargarne lo stile fino a raggiungere livelli nazional-popolari. 
Ovviamente tra i “maestri” non c’è solo De André. La mia grande passione è anche il cantautorato, quindi nel novero troviamo anche Gaber, Capossela e altri maestri della parola. Io provo a fare quello che hanno fatto anche loro: unire l’inedito al popolare. Sono esperimenti quelli che faccio; scrivo un testo e provo a metterlo su un dodici ottavi o un tre quarti. L’arte ha dei codici prestabili, non si deve inventare tutto sempre. I codici ci sono già. Dobbiamo partire da ciò che sappiamo fare già e migliorarsi».
 


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