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Carlos Solito/Ho raccontato il vento

Pubblicato da: Categoria: COVER

4
GEN
2013

 

Andare, tornare, fare il “pieno di diverso”. La vita di un fotografo (e scrittore) può essere piena di meraviglia. Soprattutto se guardate ad altezza uomo 
 
Cosa distingue un adulto da un bambino? Quando avviene quel cambiamento che fa diventare “grande”? È solo un dato anagrafico? Spensieratezza vs  razionalità,  energia inesauribile contro stanchezza e stress,  ingenuità contro consapevolezza. In una cosa però i bambini sono insuperabili: la curiosità. Quella voglia di scoprire, di conoscere, di esplorare. Quella capacità di stupirsi e di entusiasmarsi di fronte al nuovo, al mai visto. Quella virtù propria dei bambini e solo di una ristretta cerchia di adulti, di cui fanno parte coloro che si lasciano affascinare dal mondo circostante, da chi ancora cerca la poesia di ogni luogo, da chi rimane ancorato all’immaginazione e lascia che la sua vita si colori di fantasia. A questa cerchia appartiene Carlos Solito, scrittore e fotografo grottagliese, che proprio con la curiosità sperimenta nuovi punti di vista.
 
Come è nata la tua passione per la fotografia?
«Nasce tutto dalla voglia di raccontare agli altri quello che vedevo. Questo accadeva già in infanzia e adolescenza. Quando seguivo mia nonna che raccoglieva capperi e cicorie tra le gravine di Grottaglie, ogni volta che tornavo in paese, mi affannavo a raccontare ai miei fratelli e agli amici quello che avevo visto, quello che avevo scoperto. Provavo con il mio vocabolario d’allora, fatto soprattutto di un alfabeto di entusiasmi ed espressioni, a trasmettere le emozioni che quei piccoli canyon, zeppi di tutto l’erbario mediterraneo, mi regalavano. Ecco credo che la mia fotografia sia nata all’epoca, senza nessuna macchina e obiettivo. Solo fascinazione per gli occhi». 
 
Cosa ti colpisce maggiormente di quest’arte?
«Raccontare, raccontare, raccontare. La fotografia, una fotografia, racconta un momento, lo congela per sempre e genera, anche a distanza di decenni, una curiosità che racchiude tutto il senso di conoscenza e condivisione del nostro genere: esplorare. Quando si guarda una foto si esplora ogni particolare e, soprattutto, si cerca d’intuire, d’indovinare il pensiero del soggetto ritratto ma anche del fotografo».  
 
C’è un settore che prediligi? Ti senti più un paesaggista, un naturalista, un ritrattista o altro? E come mai?
«Mi sento un narratore e, come tale, preferisco raccontare, attraverso il reportage, una storia che, inevitabilmente, è fatta di cornici di paesaggi naturali, di luoghi urbani e quindi di uomo che, con gesti e/o volti, tesse il suo perché in quel contesto, in quel momento. In summa: qualsiasi soggetto da interpretare mi affascina. Ultimamente, per un museo che sarà inaugurato il prossimo anno nell’Appennino meridionale, mi hanno chiesto di raccontare (con testi e foto) il vento. L’ho fatto, è stato un viaggio straordinario inseguire l’invisibile».
 
Quali sono le caratteristiche di una fotografia ben riuscita? O meglio, quando senti di aver scattato una bella foto?
«Una fotografia ben riuscita? Quella che dovrò ancora scattare. Sono contento quando chi vede una mia foto, nel bene e nel male cambia espressione. Quando qualcuno ha una contrazione facciale, ambasciatrice di una combustione emozionale che accade dentro. Poco m’importa se la trova bella o brutta, m’importa che la foto gli abbia detto qualcosa, qualsiasi cosa».  
 
Quali sono state le esperienze più significative? Quali lavori?
«Quando ho fotografato mio figlio, nelle sue fasi di crescita. Christopher ha 15 anni e ogni volta che gli chiedo di dedicarmi qualche minuto per uno scatto mi tremano le mani. Tra i lavori realizzati in giro per il mondo potrei elencarti diversi esempi, però, tutte le volte che fotografo il nostro Sud è una sorpresa che spiazza. Mai illudersi di conoscerlo del tutto il nostro Mezzogiorno».  
 
Nel tuo vasto repertorio c’è una foto che prediligi in particolar modo e un’altra che invece vorresti non aver scattato?
«Il mio chiodo fisso o, meglio, il mio “obiettivo” fisso è il Sud Italia. Più giro a sud, o meglio, più mi perdo a sud e più scopro luoghi sconosciuti che vivono e non sopravvivono, che pulsano lenti e costanti reggendo la vera identità di quell’Italia ‘così Italia’ velata dalla magia del neorealismo tra Appennino, coste, borghi, contrade, campagne, folclore, dialetti, storie che non esito a definire un vero e proprio mondo a parte. Mezzogiorno forte e debole, vecchio e bambino, madre e padre, angelo e diavolo, bianco e nero, accecante e buio, arrabbiato e calmo, felice e triste, cristiano e pagano, sole e luna, dolce e amaro… così pieno di tutto, di tanti ingredienti che nel corso dei secoli, dei millenni, prima la natura e poi la storia ci hanno regalato il più straordinario angolo del Mediterraneo, proprio lì in mezzo al Mare Nostrum». 
 
Di recente hai vinto un premio molto importante. Di cosa si tratta? Deve essere stata una bella emozione e una grande soddisfazione.
«Sì, mi sono aggiudicato il Premio Giornalistico Internazionale Mare Nostrum Awards 2012, bandito dal Gruppo Grimaldi e dedicato, appunto, al Mediterraneo come bacino storico e quindi alcova di scambi, collegamenti e sviluppo sostenibile per tutti i paesi di questo vero e proprio continente acqueo. Ad assegnarmi il riconoscimento, lo  scorso 18 novembre a Napoli, sono stati il noto documentarista e scrittore Folco Quilici e il fotografo internazionale Mimmo Jodice: “due maestri del viaggio e dell’avventura che, dalla mia adolescenza, sono un esempio da seguire con continua ammirazione per le loro ‘gesta interpretative’ nel Mediterraneo e in ogni angolo del mondo, in chiave fotografica e narrativa.”  Il premio è per la mia mostra fotografica SUD – Sguardi Uomini Donne, esposta lo scorso giugno a Taranto presso il MuDi (Museo Diocesano), nell’ambito della rassegna annuale Foto Arte. SUD – Sguardi Uomini Donne, è un vero e proprio diario di viaggio tra mare e migrazioni “acquee” del nostro Mezzogiorno, contemplando anche dei fuori rotta nell’entroterra che “al pari delle coste fanno Mediterraneo”. Una raccolta antologica di scatti in bianco nero dalla Puglia alla Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia».
 
Ho letto che viaggi spessissimo. È più un piacere o un sacrificio? 
«Viaggiare, andare, fare il pieno di diverso, tornare e poi ripartire, appena il tempo di riordinare la valigia, è una condizione nomade che annuncia il desiderio di scoperta e conoscenza che è alla base dell’evoluzione dell’essere umano. E’ come avere un biglietto sempre in tasca per la novità, sia essa bella e brutta, una metropoli, i ghiacciai dell’Islanda, le città Maya sperdute nelle foreste tropicali, la fame in Sudan, l’Ilva di Taranto». 
 
Le nuove tecnologie hanno portato a un’esuberanza di aspiranti fotografi, o sedicenti tali. Chiunque possegga un cellulare con fotocamera ad alta risoluzione pensa di avere tutti gli strumenti utili per diventare un grande fotografo. Cosa pensi al riguardo?
«È vero, la tecnologia accessibile a tutti ha generato un delirio di onnipotenza e saccenteria in ogni campo, anche nella fotografia. Qualche giorno fa a una ragazza che fotografa per passione ho scritto su facebook: “Non è l’ultima ammiraglia macchina fotografica, robusta, perfetta nel designer, e con un sensore di milioni e milioni e milioni di pixel, a garantire la spettacolarizzazione della fotografia ma il messaggio che è stato la genesi della stessa immagine e, non per ultimo, la maestria, condita da istinto (da governare), con la quale si è realizzata”. Mi è personalmente capitato di pubblicare foto fatte con il cellulare, sgranate sì, ma scelte dagli editor perché comunicavano. Una grande lezione di fotografia è stata data dal noto reportagista e pluripremiato Steve McCurry (l’autore dello scatto della ragazza afghana pubblicato sulla cover del National Geographic) che in barba a chi insegue tecnologie e organizza set con uno staff da squadra da calcio ha fotografato il leggendario calendario Pirelli 2013 con una semplicissima tecnica.
Cosa dire a chi guarda la spada e non l’umiltà di un guerriero? “Affinate l'occhio e siate più leggeri nell'equipaggiamento e nelle autotitolazioni. I fotografi, quelli veri, camminano ad altezza uomo e, a volte, strisciano col sorriso negli occhi.”». 
 
Oltre a essere un fotografo affermato, sei anche uno scrittore. Raccontami del tuo amore per la scrittura.
«Scrittura, insieme a fotografia e video, fa parte della mia personale metodologia del raccontare. La scrittura è la mamma di tutto, ogni mio lavoro nasce dalla penna. La fotografia è arrivata dopo qualche anno dall’uscita del mio primo libro a 17 anni: un romanzo storico su un personaggio del brigantaggio postunitario dell’antica Terra d’Otranto. Ho pubblicato diversi libri fotografici, alcuni tradotti anche all’estero, e dopo quella parentesi adolescenziale (piccola e simpatica!) con il romanzo, pubblicato per un editore locale, mi sono riavvicinato alla narrativa da qualche anno, con un po’ di vissuto da proiettare negli scritti. Tra gli ultimi lavori da qualche mese in libreria il volume "MONTAGNE Avventura, passione, sfida” (Elliot, Roma), che ho curato e nel quale ho scritto, appunto, di viaggi sulle alte quote, e nelle varie declinazioni, insieme a Dacia Maraini, Paolo Rumiz, Maurizio Maggiani, Andrea Bocconi e altri». 
 
Spesso quando si legge qualcosa si ha la distinta e limpida percezione di vedere il paesaggio o il volto descritto nei minimi particolari. Anche la tua scrittura risente di questo influsso “fotografico”?
«Certo che sì. Assolutamente! Il mio narrare acquisisce sfumature e “pesi” diversi ogni volta che si carica a nuove visioni, viaggi, incontri e interpretazioni fotografiche. Il bello della creatività è che non ha un tempo, credo sia eterna ed esula da mode e tendenze. L’ultimo arrivato a complicarmi la vita, il video, mi sembra il giusto contenitore per shakerare scrittura e fotografia. Ho già sperimentato qualche lavoro e il tutto mi prende con le stesse sensazioni di come quando, da bambino, scoprivo le porte di casa. Chissà cosa succederà… è proprio il caso di dire, staremo a vedere!».
 
Da pugliese emigrato, cosa pensi riguardo alla situazione lavorativa, soprattutto per quanto concerne l’attività artistica, al Sud? Credi che se non fossi andato via non avresti avuto le stesse possibilità?
«Non è affatto facile ambire a lavorare attraverso le proprie passioni. Diventare un fotoreporter, viaggiare ovunque nel mondo, scrivere, assaggiare un po’ di regia filmica nel nostro sud non sono certo ambizioni comuni; eppure quanti libri, film e reportage hanno come location il nostro Mezzogiorno. C’è un luogo comune attorno a chi “fabbrica” arte nelle sue declinazioni più differenti: pazzia e confusione. Tipico atteggiamento bislacco di chi non conosce qualcosa o qualcuno ghettizzando senza cognizione. In tessuti sociali piccoli e autoreferenziali, nei quali inevitabilmente il nostro sud, ma non solo, questo pensiero è quasi la regola, un aspirante scrittore, fotografo e regista sarà sempre additato come un folle, un tipo sui generis. Né di più né di meno il principio inquisitorio della massa non si discosta tanto dal decadente pensiero medievale in cui si bruciavano donne perché accusate dalla vox populi di stregoneria. In Puglia da qualche anno a questa parte c’è stata una presa di coscienza generale che fa respirare, dal Gargano al Salento, addirittura un investire in termini di idee, credo e denari nell’arte. Basti pensare ai cineporti e relativi operati che attirano, come miele per le api, produttori e registi affinché producano film nella nostra regione con tanto di maestranze locali. Apprendere fuori e poi ritornare nei luoghi di origine per “infettare” qualcuno con il proprio bagaglio di conoscenze professionali è il traguardo più ambìto per chi, come me, ama scrivere e fotografare nella sua espressione più viscerale. Per il momento è troppo presto pensare a questo, ma, vorrei che accadesse».
 
Torni spesso nella tua città?
«Appena posso. La luce più bella del mondo è quella che vedi appena nasci. La luce meridiana della nostra Puglia è magia, sortilegio, impossibile resistergli. Poi, ho necessità di tornare a Grottaglie, dove devo assaggiare i piatti coi quali sono cresciuto e impastare la lingua col mio dialetto e condividerlo con famiglia e amici». 
 
Quali sono i tuoi prossimi progetti/impegni?
«La mia prima vera narrativa, “Il contrario del Sole” (Versante Sud, Milano, 2010), per tutto il mese dicembre sarà in scena a Parigi. Ho firmato la sceneggiatura teatrale insieme alla regista italo-parigina Paola Greco che dirigerà lo spettacolo a le Theatre du Temps, nel quartiere Voltaire della capitale francese. Con il mio grandissimo amico Ciro Gerardo Petraroli, con il quale ci siamo rincontrati, a distanza di anni e anni, lontano dalla Puglia (e pensare che quando io ero appena nato lui abitava nella stessa casa, a un piano diverso) abbiamo iniziato un progetto di musica e arti visive che, proposte in simbiosi, in veri e propri spettacoli, racconteranno il nostro Sud in giro per l’Italia e non solo». 
 
Qual è il tuo sogno nel cassetto? 
«Una tavolata lunga, lunghissima, con tutte le persone amiche sparse per il mondo con le quali intonare un brindisi con il nostro Primitivo.» 
 


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