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LA FIGLIA DEL PORTIERE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

20
MAR
2017

Per un periodo ci furono due nastri sullo stesso portone, uno rosa e uno azzurro, il suo più scolorito del mio perché più vecchio di qualche mese, ed eraquello della figlia del portiere.
Con Cristina ci incontrammo per tutta l’infanzia, io scendevo e lei era lì, in cortile, sotto una grande palma, che giocava con la sua bambola.
Quando arrivava l’estate, il condominio si svuotava. Restavano solo i vecchi e la famiglia del portiere e mi dava fastidio che Cristiana, seguendo il padreche aveva le chiavi di casa nostra per annaffiare le piante di mia madre, fosse potuta entrare indisturbata anche in camera mia e avesse toccato le mie cose. E ogni volta che durante l’anno non trovavo qualcosa, le accusavo. Ma con mia madre era inutile lamentarsi, perché sosteneva che erano le persone più fidate di questo mondo.
Abitavano nel cortile interno, nell’appartamento ricavato al portiere. Una rampa di scale e si scendeva alle cantine e alla loro abitazione.
Assieme ai genitori laincontravo di rado. Solo a volte o il sabato pomeriggio,quando tornavano dal supermercato dove erano andati a fare la spesa settimanale. Cristiana, a differenza del fratello più grande, quando m’incontrava alzava gli occhi, mi guardava e salutava. E ci incontravamo anche, più o meno sempre allo stesso punto, quando andavamo a scuola. Mia madre mi accompagnava tenendomi per mano e lei, salutata la sua, usciva e camminava davanti a noi facendo tre passi e un saltello. Tre passi e un saltello.
Mia madre si dedicava totalmente al volontariato e così non era mai in casa. Quando tornava, buttava la borsa e le scarpe in un angolo e si metteva a parlare con mio padre delle sue battaglie contro la povertà, l’emarginazione eil disagio sociale. Il sabato pomeriggio, invece, lo dedicava totalmente a me e mi portava in libreria, al cinema e qualche volta a teatro. Mio padre, più giovane di lei di qualche anno, al contrario, era un uomo silenzioso e monotono. Un sociologo che del suo lavoro ne aveva fatto una sorta di missione, e per questo sempre impegnato.
Pranzavamo tutti assieme solo la domenica. Mangiavano in sala da pranzo, cibi che io trovavoinsipidi, insapori eche venivano serviti da una domestica che dopo aver rigovernato la tavola se ne tornava a casa sua. Mio padre, invece, finito il pranzo, prendeva i suoi giornali e si andava a rintanare nel suo studio.
Quando la vecchia domestica siciliana tornò sull’isola, mia madre aprì le porte a somale, ucraine, romene e mi consegnò alle loro abitudini, ai loro sorrisi stranieri ed io, silenzioso e quasi invisibile com’ero, per loro diventai il bambino ideale da custodire.
Venne l’adolescenza e venne quel morbo. Cominciai a interessarmi alle femmine. In terza media sembravano tutte tante maestrine in una classe di bambini. Parlavano di quelle loro cose, e di chissà cos’altro. Sussurravano e ridevano, ma noi maschi non riuscimmo mai a capireuna sola parola di quello che si stavano dicendo.
Un giorno, rincasando, trovai Cristina davanti alle porte dell’ascensore che era fermo in alto e rimase lì a farmi compagnia. Parlammo un po’, in modo diverso questa volta, anche se non eravamo mai stati veramente amici.
«Sali con me?» Le chiesi. Lei scosse la testa, ma poi entrò in ascensore. La guardai attraverso lo specchio, ma senza più la purezza di un tempo, perché mi accorsi che non era più una bambina. Lei sollevò la testa, guardò in alto e sorrise. Un sorriso di ragazza.
Presi le chiavi ed entrammo in casa, ma ci venne in contro mia madre.
Adesso avevo il motorino, ogni tanto accompagnavo a casa una ragazza, ma ero pieno di quell’autismo emotivo che caratterizza i ragazzi timidi, e non riuscii mai ad andare oltre un complimento, un accenno, un’allusione.
All’inizio dell’anno scolastico, inaspettatamente, ci trovammo in classe insieme. Era un liceo di quartiere, vasto, pieno di corridoi e di vita. Cristiana era seduta nella fila accanto alla finestra, qualche banco avanti al mio. Le vedevo le spalle, il braccio che si muoveva quando scriveva, e rimase in quella posizione per tutto l’anno. Il fatto di conoscerci, di abitare nello stesso palazzo ci creava un certo imbarazzo, ma non saprei dire bene perché.Ormai si era trasformata in una bella ragazza, non molto alta ma con un corpo armonioso e vestiva dei jeans che le lasciavano sempre scoperta una parte della schiena, e anche la voce non era più la stessa. Curva sul suo banco,con la coda dell’occhio seguiva ogni movimento della classe, e faticava, si capiva lontano un miglio che arrancava in certe materie, ma in primavera, quando tutta la classe cominciò a distrarsi, lei resistette, s’impegnò, e alla fine raggiunse la sufficienza.
Un giorno, ero solo in casa, sentii il campanello della porta suonare e andai ad aprire. Era Cristiana.
«Mio padre dice che può essere urgente. È la posta che stava aspettando tua madre».
Io richiusi, etornai in camera mia, lei mi seguì e si venne a sedere sul letto, accanto a me.
«Dove la lascio?» Chiese. Io le misi una mano sulla gamba e lei la coprì con la sua. Restammo così, fermi, in silenzio, senza guardarci, gustandoci quel momento d’intimità. Sentii la sua mano sopra la mia e mossi le dita come in una carezza. Volevo dirle qualcosa, ma non dissi nulla. Ero in uno stato di grazia, e la sua mano sulla mia me lo confermava.
Mi chiamò: Ivano, e si girò verso di me.
«Ti voglio bene, sai». Sentendole dire quella frase avvampai e provai un’emozione fino ad allora a me sconosciuta. Passarono un po’ di pensieri e un po’ di tempo mentre la sua mano addosso alla mia adesso sudava. Si aspettava qualcosa, ma io non dissi né feci nulla, allora lei mosse la testa e mi guardò.
«Usciamo?»
«Per andare dove», chiesi».
«Dove vuoi tu, fuori». Sollevai lo sguardo verso di lei e i suoi occhi erano cambiati, ora erano accesi, ammiccanti. Ebbi una vampa di desiderio, la trassi a me e la baciai.
Da quel giorno, come se stesse sempre di guardia davanti alla guardiola del padre, quando era sicura che mi avrebbe trovato da solo in casa, saliva da me e andavamo in camera mia.
Quello che seguì fu l’anno più imprevisto della mia vita. Mia madre si alzava la notte e camminava come se la casa non le bastasse mai. Chiamavo mio padre e la raggiungevo alle spalle, le prendevo la mano, le parlavo, ma lei non sentiva le mie parole. Di giorno si adagiava sulla poltrona e dormiva per ore. Improvvisamente era diventata fragile, confusa. Poi le cose precipitarono e la situazione si fece inquietante. Continuava a uscire, si sforzava di sorridere, ma si capiva che stava lottando contro un male oscuro. Il medico, un amico di papà, veniva a visitarla quasi tutti i giorni e la portinaia saliva a farle le punture, ma intanto continuava a peggiorare.
Tornavo dall’università. Alla fine mi ero iscritto a Scienze politiche, così, per esclusione. Untimido palliativo per allontanare di altri quattro anni le responsabilità della vita. Trovai mia madre per terra, nell’entrata, con il cellulare in mano. Si riprese, ma niente fu più come prima.
Mio padre, lo sapevo, era il classico uomo che prima della vecchiaia voleva provareancora dei voli pindarici, ma come non provò vergogna. Dopo due mesi sarebbe rimasto vedovo ed io non avrei potuto obiettare nulla. Invece, in camice bianco, sopra un abito corto, Cristiana era lì, nello studio di mio padre che gli stava accarezzando le guance. Era stata mia madre a insistere, la vecchia segretaria di mio padre se ne era andata e la figlia del portiere l’aveva vista crescere e voleva darle un’opportunità. Gliel’aveva data. Papà come mi vide si era alzato di scatto e aveva fatto un gesto stizzito. Cristiana invece non sembrò per niente turbata. Mi passò accanto tranquilla, come se non fosse accaduto nulla. Aveva capito tutto. Stava guardando molto lontano.
Partii, e Londra mi accolse e mi fece tornare di nuovo me stesso. Lì trovai esattamente quello che cercavo, ma dopo sei mesi Londra cominciò a sembrarmi meno scintillantedi prima. Il clima sempre schifoso, troppi turisti su quei bus a due piani, tutti quegli eccessi, tutte quelle bizzarrie in mezzo a tanta muffa conservatrice: il cambio della guardia reale, gli strilloni davanti al museo delle cere e,tutt’intorno, quell’infinita povertà. Però, intanto, ero riuscito a laurearmi e avevo anche iniziato a collaborare con l’università. L’ambiente universitario mi piaceva e i miei più cari amici erano i docenti con cui lavoravo.
Poi, un giorno, mi arrivò l’annuncio delle nozze di mio padre. Lo avevo visto una sola volta in tutti quegli anni, quando mi venne a trovare. Era sceso dall’aereo ed era andato a dormire in albergo. Era sempre lo stesso di sempre, chiuso nei suoi silenzi, con le sue contraddizioni e le sue domande cretine. Un uomo che non era mai riuscito a porsi adeguatamente con gli altri, tantomeno con suo figlio.
Mandai un telegramma: “Causa improrogabili impegni già assunti, non posso venire. Auguri. Stop”. Maquel sabato, trovandomi da solo, con un invito per un weekend da trascorrere a duecento miglia da Londra, chiamai un taxi e mi feci accompagnare all’aeroporto.
Atterrai, e da un altro taxi mi feci lasciare in città, davanti a quell’albergo che aveva davanti il portiere in livrea e che mi aprì la portiera. Salii al primo piano e il banchetto era lì. Feci due passi e subito incontrai mio padre. Aveva il volto arrossato ed era vestito in maniera ridicola: panciotto e cravatta bianchi e una coda da pinguino. Sempre molto asciutto, sembrava più giovane di come me lo ricordassi, ma probabilmente ero solo invecchiato io. Portavo gli occhiali e miero stempiato un po’, esattamente come lui. Ormai assomigliavo in tutto e per tutto a mio padre.
Sembrò incredibilmente felice di vedermi, i suoi occhi si inumidirono e mi abbracciò. Tremava, e la mia sorpresa fu quella di vederlo così emozionato. Ma forse era solo l’eccitazione per la sua seconda vita che stava iniziando quel giorno.
«È il regalo più grande che potevi farmi. Il più grande, Ivano». Mi disse.
Mi prese a braccetto e mi fece girare per la sala con lui. Cominciò a presentarmi a tutta la gente che era lì. Alcuni si ricordavano di me, di quando ero ragazzo e si alzarono per abbracciarmi. Rimasi lì, stordito, a stringeremani calde e sudate. Mio padre ripeteva a tutti: mio figlio, professore di Storia dell’arte a Londra, mio figlio. Ero un semplice ricercatore, uno dei tanti, ma lo lasciai vantarsi. Passò un cameriere e presi un bicchiere, poi un secondo e un terzo.
… Come si vive a Londra? È molto cara? È vero che piove sempre? Si vede mai la regina? Ed io, disponibile ma infastidito, rispondevoa quel tipo di domande.
Mio padre mi portò al tavolo degli sposi. In fondo alla sala, tra i suoi nuovi parenti. C’era anche la sorella di mio padre, zia Enza, sempre con i suoi capelli corti e frangetta, di ottimo umore ma pronta, appena possibile, ad andarsene. Zio Luigi, il fratello di mia madre, non era presente e non mi aspettavo di trovarlo. Non sarebbe mai venuto al matrimonio del vedovo di sua sorella, rimpiazzata con la figlia del portiere.
Erano lì, sull’altro lato del tavolo, il portiere, ormai in pensione, vestito come un manichino taglia forte e la moglie in un vestito troppo sgargiante e con i capelli a permanente, che mi stavano osservando. Sembravano sperduti anche loro. Come mi avvicinai si alzarono e mi salutaronoquasi con soggezione. Sorrisi, strinsi le loro mani e posai un braccio intorno alla spalla dell’uomo, lui davvero molto invecchiato.
La portiera aveva curato mia madre, le aveva fatto le punture, lavato la biancheria di casa, l’uomo aveva innaffiato i suoi gerani. Soggetti di una volta, pronti a ogni chiamata. Ora suoceri di mio padre.
Svuotai un altro bicchiere. Non vedevo più bene, matra gli invitati riuscii a scorgerla mentre mi stava fissando. Cristiana era dimagrita, era bionda e la ricordavo bruna. Mi sorrise, mi venne incontro e mi abbracciò come faceva da bambina, poi mi prese la mano e mi tirò giù a sedere accanto a lei.
Mentre passavano le fette di torta, sciorinai anche a lei la nenia della mia vita londinese, migliorandola non poco e, raccontandola, la trovai anch’io più interessante di come in realtà fosse.
Vedevo mio padre e Cristiana seduti uno accanto all’altra e pensavo solo a resistere. Mio padre in quel momento si alzò, si tolse la giacca e la invitò a ballare e fu l’ultima immagine, l’ultimo ricordo che ho di loro assieme.
Tirai su un altro bicchiere, per non capire più nulla e dissi:
«Vado», lui cercò di fermarmi.
«Ivano aspetta», ma Cristiana lo trattenne.
Tornai a Londra. All’università, da quei ragazzi che si aspettavano tutto da me, dal giovane professore italiano che teneva corsi monografici su Caravaggio e Leonardo e che ormai dell’Italia non gliene importava più nulla.
La sera a casa, due uova al tegamino e tre bicchieri di brandy prima di andare a dormire.
Venne Natale e tutti avevano un luogo doveandarlo a trascorrere. Tacchino al forno e alberi illuminati. Mi chiusi in casa con la mia bottiglia di brandy e fui ricoverato per tre giorni al St Thomas’ hospital. Mi curarono, mi fecero tutti i controlli e poi mi dimisero. Solo, con una busta in mano, come un barbone, tornai a casa.
All’università ricominciarono le lezioni e conobbi Kaori, una giapponese che mi fu presentata da un collega. E accadde in una di quelle feste stravaganti, in un locale sul Tamigi. Era accanto a un’altra ragazza e indossava un pullover attillato e una minigonna nera.
«Quale delle due?» Chiese il collega.
«Quella con la minigonna». Risposi, sperando di non averlo deluso.
Così me la presentò e ci mettemmo a parlare e a bere. Verso la fine della festa, ormai ubriaco, mi misi ai suoi piedi e le chiesi di sposarmi. Naturalmente lei si mise a ridere. Naturalmente indietreggiò, ma dopo un anno divenne mia moglie.
Al mio matrimonio non invitai nessuno, chiesi solo a due colleghi di farci da testimoni e in Italia non ci tornai più per molti anni. Fino a quel sabato pomeriggio quando squillò il cellulare ed era Cristiana. Voleva avvisarmi che mio padre si era sentito male ed era stato ricoverato. Aveva superato i settant’anni e si era ammalato gravemente.
«Grazie Cristiana». Risposi.
Arrivai in ospedale nel momento in cui un prete gli stava toccando la fronte. Lo chiamai e lui aprì gli occhi, ma non fui certo che mi avesse riconosciuto. Lo accarezzai, accostai il mio viso al suo, gli parlai, ma ormai non potevo più pretendere che mi stesse ascoltando, che capisse quello che gli stavo dicendo. Quello che per una vita gli avrei voluto dire e invece gli avevo sempre taciuto.
Volevo dirgliquanto mi fosse mancato, nel bene e nel male, e di quanto bene provassiancora per lui, ma un dottore mi mise una mano sulla spalla e mi trasse indietro.
Quando incrociai il suo sguardo il dottorescosse la testa, e allora le lacrime cominciarono a rigarmi il viso.
 




Commenti:

D'Urso Gennaro 21/MAR/2017

Grazie per il racconto che mi è piaciuto molto, come gli altri.

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