Anche oggi sono venuto a trovarti e ti ho portato il gelato al cioccolato che ti piace tanto. Sono seduto accanto a te e vedo la mano che ti trema nel portare il cucchiaio alla bocca.
Con un tovagliolo asciugo il gelato che ti cola dagli angoli delle labbra. Non vorrei umiliarti, trattandoti come una bambina, ma poi penso che tu probabilmente neanche ti ponga il problema perché, come sempre, hai la mente altrove e non mi hai nemmeno riconosciuto.
Mi intristisco al ricordo che solo qualche anno fa, nelle sere d’estate, sul nostro balcone di casa, da dove si vede uno scorcio di mare, parlavamo e gustavamo il gelato assieme.
Parlavamo di tante cose, ricordi? Mi raccontavi la tua giornata,mi dicevi dei pettegolezzi che avevi raccolto nel supermercato mentre facevi la spesa. Io ti ascoltavo e poi ti parlavo del mio lavoro, discutevamo dei fatti del giorno. Respiravamo l’aria fresca della sera eintanto parlavamo di nostro figlio Francesco, del suo lavoro,di Andrea, nostro nipote.
Francesco è il nostro bene più grande, il nostro orgoglio, che proprio domani porterà il suo bambino in chiesa per la prima comunione.Ma tu domani non ci sarai, non sarai con noi e non potremmo festeggiare assieme. Sei lontana, scivolata in un altro mondo, avvolta nei tuoi pensieri che solo tu conosci. La tua mente si è ormai persa per strade sconosciute.
Mi guardo intorno, in questa stanza che non è la nostra, in questa casa di cura che ti ospita da quando la malattia ti ha aggredito e ti ha fatto diventare imprevedibile e violenta.
A casa era diventato impossibile continuare. Ti alzavi di notte, tentavi di uscire da casa e se cercavo di fermarti diventavi manesca. Non riconoscevi più nessuno né le cose, né il loro nome,e nemmeno nostro figlio che alla fine, preoccupato, insistevacol dirmi che l’unica cosa da fare era quella di ricoverarti in una clinica specializzata.È stata una decisione dolorosa e sofferta, ma alla fine mi convinsi anch’io, per il tuo bene.
La coppetta con il gelato ti sfugge dalle mani e cade per terra. Mi chino e cerco di pulire il pavimento con dei fazzolettini e intanto ti guardo,ma sul tuo volto non noto nessuna espressione. Con il corpo sei accanto a me ma la tua mente è altrove, persa nei meandri della malattia.
Ti comporti come se fossi un estraneo e continui a guardare nel vuoto. Hai il viso e il corpo smagriti, non sembri nemmeno più tu. L’Alzheimer ti ha trasformato, ti ha sottratto i ricordi, il pensiero e anche il presente. Difficile capire a cosa stai pensando in questo momento, se qualche ricordo di me ti è rimasto nella mente. Neppure i medici hanno saputo dirmelo, si sono limitati a stringersi nelle spalle.
Mi rialzo e ti pulisco ancora la bocca, come facevitu con Francesco, quando era piccolo.
Ti abbandoniallo schienale della poltrona ed io ti sistemo lo scialle sulle spalle e faccio fatica a trattenere le lacrime. Sei sempre stata così attiva e piena di energia…e ora? Ora trascorri le tue giornate così, su questa poltrona che hai spostato vicino alla finestra.
Mi alzo e la apro. Gli alberi sono tornati verdi e rigogliosi. La primavera è arrivata e si avverte già il tepore della bella stagione. Mapurtroppo per te non ci sono più le stagioni, ora vivi solo in un lungo interminabile inverno.In un’eterna settimana santa, senza più Pasqua.
Ti guardo e vedo il tuo viso scolpito da profonde rughe. Rughe incise dal tempo e dalla malattia, che io non riesco ad accettare.
Ti parlo di Birillo, il nostro bastardino che tu amavi tanto e che ormai non c’è più. Ti ripeto che domani il nostro nipotino farà la prima comunione, ma tu non mi guardi nemmeno, continui a fissare il tuo infinito oltre la finestra. O forse non mi hai neppure sentito, e nemmeno il nome di nostro figlio o di Andrea, ti dice assolutamente niente. Quando li nomino tu non dimostri nessuna reazione, non ti suscitano nessuna emozione.
Ma io non demordo eanche se non ci riescocerco di riattivare la tua memoria, di attrarre la tua attenzione sulle cose che prima amavi tanto.Birillo ci ha lasciato da anni, ma tu hai conservato il suo guinzaglio e il collare con la medaglietta. Li ho ritrovati nella tua scatola dei ricordi, dove li tenevi assieme alle fotografie e ad altre tante cose: tasselli della nostra vita trascorsa insieme. Nella scatola ho trovato anche lepartecipazioni del nostro matrimonio; il primo dentino che ha perso Francesco. Ricordi? Lo mettesti sotto il suo cuscino e al mattino gli facesti trovare una monetina. Rivedo ancora la finestrella al posto del dente mancante, mentreFrancesco felice rideva.
Sorrido, ma ho le lacrime che mi pungono gli occhi. Ti accarezzo il dorso della mano, ostinato non mi arrendo nemmeno davanti all’evidenza della tua passività , al tuo non riconoscermi, al non riconoscere tuo marito, che un tempo hai tanto amato.
Ma non importa Bianca, io sono qui con te e sarò sempre accanto a te, fino alla fine.
Vengo a trovarti il più spesso possibile, trascuro i miei interessi e tutto il resto, pur di starti vicino. Anche se non lo puoi più percepire,io ho sempre bisogno di te. Ho bisogno di sentirti vicino, e ti chiedo scusa se qualche volta ritardo o non posso venire a trovarti, come succederà domattina. Macome ti ho detto, domani farà la prima comunione Andrea. Tu non ci sarai, ma ti racconterò tutto quando verrò da te. Te lo prometto.
Quanti sacrifici e rinunce abbiamo fatto per permettere a Francesco di raggiungere il traguardo della laurea, ricordi? Ma noi eravamo felici e orgogliosi perché niente ci sembrava troppo oneroso per nostro figlio. Volevamo solo che lui potesse realizzare il suo sogno: diventare chirurgo.
Vivevamo la nostra vita serenamente, poi erano arrivati anche gli anni della nostra meritata pensione e con essa, improvvisa, la scure. L’Alzheimer si è abbattuta su di te e da quel momentosono rimasto solo. Mi hai lasciato solo e sei partita per il tuo lungo viaggio senza emozioni e senza ritorno.
Testardo come un mulo, continuo a parlarti. Ti racconto le mie giornate senza di te. Ti dico che ho fatto ridipingere la nostra stanza da letto con colori tenui, come piacciono a te; ti parlo di Francesco, di Andrea. Cerco di farti ridere. Ti racconto qualcosa di allegro, ma tu resti in silenzio e mantieni lo sguardo fisso nel vuoto. Sapessi come mi mancano quelle nostre discussioni quotidiane, quel tuo modo disincantato di commentare i problemi, le vicissitudini della vita.
Io continuo a parlarti e tu resti assente, persa nel tuo mondo fatto di nuvole nere. Ti parlo,ti sorrido, ti accarezzo, e intanto non riesco a buttare giù il nodo che mi si è formato in gola.
«Chi sei?» Mi chiedi all’improvviso, lasciandomi pietrificato e dubbioso.
«Sei l’uomo dei palloncini?» Insisti,e io mi sorprendo per il riaffiorare di quel lontano ricordo, che non so come tu abbia fatto a ripescare nel marasma della tua mente.
L’uomo dei palloncini… lo rivedo come fosse ieri: baffuto, obeso, in testa un cappello a larghe tese e la pipa all’angolo della bocca. Se ne stava in piedi davanti all’ingresso dei giardini pubblici, dove noi la domenica mattina portavamo nostro figlio. Compravo un palloncino, lo legavo con un fiocco al polso di Francesco e lui strattonava il filo per far ondeggiare il palloncino. Una domenica che forse non glielo avevo legato bene, il palloncino si era slegato ed era volato in cielo.
Gliene comprai subito un altro, ma Francesco non lo volle. Non sarebbe stato più lo stesso, ci disse. Aveva ragione, le cose perdute si possono riacquistare, ma se a quelle cose ci tieni davvero, niente può sostituirle.Tante cose in questi anni sono volate via e si sono perdute come quel palloncino di Francesco, ma una cosa non si è mai perduta, ed è il bene che ti ho sempre voluto.
Anche se non mi riconosci, sono convinto che tu mi vuoi ancora bene e che percepisci i miei sentimenti e l’affetto che conservo per te, e questo mi basta, me lo faccio bastare.
«Io sono tuo marito, Dario». Ti ripeto, mentre ti accarezzo una guancia.
«È un bel nome». Mi rispondi, sfiorandomi appena con lo sguardo.
Ti prendo il volto tra le mani, ti chiedo di guardarmi, di fissarmi. Ti ripeto che sono Dario, tuo marito. Ti dico sono Dario, ma tu rimani avvolta nella nebbia dei tuoi pensieri e mi respingi impaurita. Mi allontani ed io lascio cadere le braccia sconfitto, consapevole che non riuscirò più a penetrare la tua mente, il tuo inconscio, a vederti tornare quella di prima.
Ti aiuto ad alzarti dalla poltrona e ti chiedo se vuoi andare in giardino a prendere un po’ d’aria, ma mi riferisco più a me stesso che a te, perché mi sento soffocare in questa stanza semibuia e satura dell’odore dei medicinali che ti prescrivono per tenerti tranquilla, mache intanto ti riducono una larva umana, incapace di reagire.
Ti lasci prendere per mano senza reagire e mi segui in giardino strascicando sul pavimento le pantofole che ti ho regatato due mesi fa, in occasione del tuo settantesimo compleanno. Camminando piano andiamo a sederci all’ombra. Di fronte a noi è seduta una signora molto anziana che sta cullando con aria assorta un bambolotto. Alza gli occhi, ci guarda, ci sorride, poi si mette un dito sulle labbra, come a invitarci a non fare rumore per non svegliare il bambolotto che tiene in braccio e sta cullando.
«Si è appena addormentato». Sussurra, accarezzandogli la testolina e continuando a cullarlo.
Ti cingo le spalle con un braccio e ti sento tremare. Ho la speranza che ti si affiori un barlume, un ricordo di quando Francesco era piccolo e tu lo prendevi in braccio e lo cullavi per farlo addormentare.
La vecchietta di fronte a noi continua a togliere e a rimettere il succhiotto in bocca al bambolotto e ricomincia a cullarlo. Gli parla sottovoce, lo accarezza. Lo abbandona sulla panchina e poi lo riprende e ricomincia a cullarlo.
Ti guardo di sottecchi, ma la tua espressione non è cambiata, il tuo viso è rimasto di pietra, avvolto dalla nebbia che ti avvolge.
È inutile che cerchi di illudermi, mi devo convincere, non sei più tu, non ci sei più. Non tornerai più indietro, non sarai più come prima. Nessuno degli ospiti di questa struttura tornerà più indietro,tornerà come prima.
Ma io tornerò sempre qui da te. E avrò sempre l’assurda speranza che un giorno si possa compiere il miracolo di rivedere nel tuo sguardo la luce e la serenità di un tempo.
Il campanile della chiesa batte le ore. Tra poco dovrò andare via. Ma mi si strazia il cuore al pensiero di doverti lasciare qui da sola,attorniata dai tuoi fantasmi. Mi auguro solo che nella tua mente non nascanonuove angosce, nuovepreoccupazioni o dolori. Voglio immaginarti come in una specie di limbo, in un giardino fioritoe circondata da una serenità irreale.
Mi alzo e mi chino a baciarti il viso rugoso e scavato. E intanto penso a quando ci siamo conosciuti, a quel giorno che ci siamo incontrati. Cinquant’anni fa al mare, in quell’afosa domenica estiva. Io ero solo e immusonito, seduto sulla battigia e mi guardavo intorno. Avevo appuntamento con una ragazza e lei mi aveva dato buca. Non sapevo cosa fare, se restare o andarmene. Tu arrivasti con un gruppo di amici. Eravate tutti allegri e sorridenti. Vi toglieste subito gli abiti e vi tuffaste in mare. Ti rivedo giovane e bella, i lunghi capelli scuri sparsi sulle spalle.
Quando tornaste a riva, un ragazzo della tua comitiva insisteva per spalmarti la crema solare sulla schiena, ma tu ti scostastie passasti il tubetto a una tua amica. Mi fece piacere quel tuo gesto stizzito, quel aver allontanato quel tipo che voleva solo accarezzarti la schiena.
Ti guardai e a un certo punto i nostri sguardi s’incrociarono. Tornammo a guardarci e alla fine fu un colpo di fulmine. Non ti persi più di vista, con una scusa cercai di parlarti e facemmo anche il bagno assieme. Da quel giorno non ci separammo più.
Due anni dopo ci sposammo. In chiesa eri splendida, mentre nel tuo abito bianco avanzavi verso di me. Eri sotto braccio a tuo padre, più emozionato di noi. Ti guardavo e mi commossi, e in quel momento giurai a me stesso che avrei sempre avuto cura di te.
I tuoi genitori ci avevano consigliato di aspettare ancora qualche anno, per rafforzare la nostra situazione economica,ci dissero, ma noi non potevamo più aspettare, ci amavamo troppo. Poi io avevo cinque anni più di te e sentivo il bisogno di crearmi una famiglia. Di crearmi una famiglia con l’unica donna che amavo. Con te.
Ti sfioro la fronte con un bacio e ti sussurro un saluto. Per un istante, distogli lo sguardo dal tuo nulla e accenni un sorriso lieve. Inaspettatamente mi prendi una mano e me la stringi. Ricambio la stretta e sento il cuore battermi forte e ti guardo fisso negli occhi, come a interrogarti. Ma la tua mano, quasi inerme, scivola immediatamente lungo il tuo fiancoeio ripiombo nello sconforto di sempre.
Dove sei Bianca. Perché ti sei ridotta così? Dove stai andando? In che mondo vivi ora? Con chi condividi le tue emozioni… sempre che tu ne abbia ancoraemozioni.
Eravamo così felici. Nostro figlio Francesco era la nostra gioia, il nostro orgoglio. Avevamo lavorato una vita e volevamo goderci la pensione. Parlavamo di viaggi, crociere, di settimane intere da trascorrere al mare, di cene al lume di candela. Ricordi? Per il nostro anniversario avresti voluto rifare il viaggio di nozze. Rivedere gli stessi luoghi, le stesse città , scendere negli stessi alberghi. Ma non abbiano fatto in tempo, tutto è sfumato con il sopraggiungere di questo male subdolo e terribile.
Non c’è una risposta per spiegare perché tu ti sia ridotta così. È stato il caso o il destino a volerlo, a volertiqui da sola,mentre io altrettanto solo devo tornare a casa nostra. Solo di una cosa sono certo, me lo giurai il giorno del nostro matrimonio e lo ripeto ora: io ti resterò sempre vicino, perché ti voglio bene e sei la mia vita. Perché tu sei tu, la mia Bianca di sempre.
La tua mente, lo so, è lontana, ma vicino a me sento il tuo corpo, la tua voce che non è mai cambiata, sento il profumo della tua pelle e so che questo non mi abbandonerà mai. Tu sarai sempre la mia Bianca, ed io sarò per sempre il tuo Dario.
Ti riaccompagno in camera tua e ti adagio sulla poltrona che tu hai spinto vicino alla finestra. Fuori è quasi buio e si vedono volteggiare i passeri che fanno un frastuono indescrivibilementre cercanoil ramo miglioreper trascorrervi la notte.
Tu guardi fisso fuori dalla finestra e sorridi. Cosa ti ricorda quel cinguettio frenetico degli uccelli? Non lo saprò mai.
Arrivederci amore mio. Domani verrò un po’ più tardi, ma tu forse non te ne accorgerai nemmeno, ma come ti ho detto domani e il giorno della prima comunione di Andrea, il nostro nipote e non posso mancare. Scatterò qualche foto con il telefonino e poi te le farò vedere. Ti racconterò come è andata, come si è svolta la cerimonia e il pranzo al ristorante. Mi mancherai, ma cercherò di farmi forzaimmaginandoti vicina, al mio fianco, anche se tu non ci sarai.
Quando verrò,ti racconterò tutto, ti porterò i saluti di tutti, di dirò della festa, seguiterò a parlarti, anche se tu continuerai a guardare fuori dalla finestra, con aria assente.
«Buona notte Bianca. Buona notte amore mio, a domani».
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