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MIO FIGLIO VIVE ISOLATO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

23
NOV
2017

Con la speranza di non trovarlo incollato al pc, apro piano la porta della stanza e Francesco è lì, come ogni giorno. Lo sguardo fisso sul monitor e le dita sulla tastiera a chattare furiosamente con i suoi amici virtuali e ignorando tutto ciò che lo circonda.
Ragazzi e ragazze che si sono allontanati dalla vita reale, inconsapevoli che un giorno si troveranno comunque a doversi confrontare con il quotidiano, con i problemi della vita che saranno costretti ad affrontare.
Gli psicanalisti li chiamano hikikomori, termine coniato dai giapponesi e che significa “vivere isolati”. Il fenomeno è estremamente diffuso in quel Paese, ma ormai sta dilagando anche in tutto il mondo, tra le nuove generazioni e le cause sono molteplici: vergogna per il proprio aspetto fisico (obesità o anoressia), noia, tedio, insofferenza verso lo studio, la famiglia o le amicizie e soprattutto delusioni amorose.
Nella mia ricerca in rete, per documentarmi sul “fenomeno hikikomori”, ho trovato diversi blog e forum di genitori che hanno lo stesso mio problema e ho conosciuto anche Roberto, un ingegnere con lo stesso mio problema: una figlia di sedici anni che lo sta facendo dannare e preoccupare per lo stesso mio problema.
A casa nostra questo calvario è iniziato poco più di un anno fa, quando io e suo padre ci siamo separati. Da allora Francesco si è chiuso in se stesso e ai miei tentativi di dargli delle spiegazioni mi ha sempre risposto rancorosamente e alzando le spalle, dicendo che i motivi non gli interessavano. Poi va aggiunto che tre mesi fa è stato lasciato dalla ragazza e da allora le cose sono precipitate. Adesso non parla più con nessuno, frequenta la scuola mal volentieri e senza interesse, e i profitti sono quelli che sono. Ha allontanato gli amici che aveva; quando è a casa si chiude in camera sua e per ore ed ore non smette di dialogare con il monitor del suo computer.
Ossessionato com’è dal mondo virtuale, gli interessa solo il suo modus vivendi. Da tre mesi a questa parte ha reciso ogni legame con tutto ciò che esiste oltre l’uscio e la tapparella sempre abbassata della sua stanza. E come il solito, quando mi vede aprire la porta, dimostra solo insofferenza e disappunto.
Ogni giorno per farlo alzare e mandarlo a scuola è un’impresa. Non si cura della sua persona e non nutre più alcun interesse al di fuori del suo mondo virtuale, quel chattare convulso con altri hikikomori come lui che scrivono e si confrontano unicamente tra di loro, chiusi a riccio nel proprio mondo, dove credono di sentirsi protetti, più forti e pieni di amici.
Il mio ex marito, da parte sua, ha sempre sfuggito e continua a sfuggire i problemi. Non è stato mai capace di assumersi le proprie responsabilità. È un uomo immaturo e superficiale, cosa di cui purtroppo mi sono resa conto quando ormai Francesco stava per venire al mondo. Pensavo che la paternità l’avrebbe cambiato, fatto maturare, ma mi sbagliavo e con il trascorrere del tempo mi sono convinta che le persone come lui non cambiano mai.
«Sei ancora qui? Cosa vuoi?» La voce di Francesco è dura, irritata ed io mi ritraggo scoraggiata e richiudendo alle mie spalle la porta non riesco a trattenere le lacrime. Questa situazione mi sta fiaccando nel fisico e nella mente, ma non trovo vie d’uscita.
In ufficio non riesco a lavorare, ho difficoltà a concentrarmi su ciò che devo fare, perché il pensiero è perennemente rivolto a Francesco e sul come riuscire ad abbattere quel muro che mio figlio ha innalzato tra sé e tutto ciò che no gli interessa.
Sono la responsabile del settore economico di un’azienda e l’impegno quotidiano è costante e gravoso. La gestione di duecentoventi dipendenti, tra quadri, amministrativi, impiegati e operai non è un’impresa semplice e basta un niente per sentirsi richiamare all’ordine per aver dimenticato di inserire in busta paga il compenso per le ore di straordinario svolte da qualche tecnico, o il rimborso spese a funzionari che con la scusa di aggiornamenti professionali o sopralluoghi tecnici, per una settimana riescono a stare lontani dall’ufficio. Della mia situazione se ne sono accorti tutti, compreso il mio dirigente che a più riprese mi sprona a fare meglio, a evitare certi errori, per lui incomprensibili.
«Cosa le sta succedendo, Teresa?» Mi chiede, incrociando le mani sotto il mento.
Stringo le labbra e ingoio le lacrime che in questi ultimi tempi mi salgono agli occhi per un nonnulla.
«Niente». Mormoro attorcigliando nervosamente le dita e sfuggendo il suo sguardo.
«Non è vero. Lei non è più la stessa e il suo lavoro ne sta risentendo pesantemente. È troppo intelligente per non essersene resa conto da sola. Io l’ho sempre apprezzata, ma da un anno a questa parte ha la mente altrove e… lei capisce che non possiamo continuare ad andare avanti così». Aggiunge in tono severo.
Non tento nemmeno di giustificarmi, perché non ho scuse. So benissimo di lavorare con il pensiero sempre rivolto a mio figlio e non vedendo l’ora di ritornare a casa, nella vana speranza di ritrovarlo miracolosamente com’era un tempo: allegro, spensierato, sorridente.
«A questo punto non mi lascia altra scelta. Da lunedì la dottoressa Morani la sostituirà e lei si occuperà dell’aggiornamento della nostra banca dati. Mi dispiace Teresa, ma non posso fare altrimenti». Conclude il capo.
«In parole povere mi spedisce in archivio…» Lui annuisce senza aggiungere altro ed io mi sento precipitare in un buco nero.
Vorrei supplicarlo di ripensarci, di darmi un’altra possibilità, ma il mio orgoglio me lo impedisce e chino il capo rassegnata. Mi sento assalire dall’angoscia ma devo stringere i denti. Se crollo è la fine per me e anche Francesco sarebbe perduto per sempre.
In serata, prima di uscire dall’ufficio ho chiamato Roberto, poche frasi intorpidite da una pesante giornata di lavoro, per spiegargli la mia nuova situazione. Gli ho raccontato di quanto fossi depressa per quello che era successo sul lavoro e per mio figlio. Roberto che è separato da due anni e che sta vivendo la mia stessa esperienza, mi ha proposto di incontrarci, di conoscerci di persona per parlare a voce di quello che ci sta succedendo.
Ci siamo dati appuntamento per questo pomeriggio sul tardi, davanti i grandi magazzini di corso Roma, di fronte al cinema Odeon e verso le sei e un quarto lo vedo venirmi in contro con la giacca sul braccio e la cravatta slacciata. Le foto del blog non gli rendono giustizia, penso mentre ci stringiamo la mano.
«Scusami per il ritardo ma non riuscivo a trovare parcheggio».
Ci avviamo verso i tavolini di un bar e, forse per prendere tempo nel cercare le parole più adatte ad affrontare il nostro comune problema, facciamo quel breve tragitto in silenzio.
«È come una droga». Esclama in fine Renato, e prosegue:
«Non riconosco più mia figlia. Prima era gioiosa e vivace e adesso è totalmente cambiata. La decisione di sua madre di separarsi da me e andare a vivere in un’altra città, l’ha molto provata ma… non credo che sia stato solo quello a indurla a isolarsi. Io avrò anche le mie colpe… mi sono dedicato troppo al lavoro, lasciandola sola a superare quel brutto periodo e nella sua età più delicata, ma…»
«Potrei dire la stessa cosa anch’io. Dopo la separazione, forse anch’io ho cercato più a ritrovare un mio equilibrio, una serenità interiore, trascurando Francesco e i suoi problemi e ho dimenticato anche quanto la sua sia un’età fragile e difficile. Dal padre non ho nessun aiuto e il suo ultimo consiglio, quando gli ho parlato per l’ennesima volta della china che stava prendendo Francesco, è stato: “Due schiaffi, e vedrai che tutto si risolve”». Mormoro sommessamente.
Roberto ed io, dopo questo esordio di autoaccuse, parliamo a lungo, svisceriamo il problema, cerchiamo le risposte, le soluzioni. Entrambi ci chiediamo quale possa essere la direzione giusta da prendere per far uscire i nostri ragazzi dalle loro stanze e ricominciare a vivere normalmente.
«Prendi ancora qualcosa?» Mi chiede Roberto, mentre il tepore del locale diventa gradevolissimo. Beviamo una bibita e intanto ci sforziamo di conversare d’altro: del nostro lavoro, interessi personali, amicizie, della nostra vita, ma il problema dei figli resta sempre al centro del nostro dialogo.
«Devo fare qualcosa, non so cosa ma non posso perdere anche Laura, dopo aver perso sua madre. Scusami se mi sto alterando». Sbotta ad alta voce Roberto, mentre una coppia anziana, seduta vicino a noi, ci guarda stupita e incredula.
«Ti capisco, perché sono allo stremo anch’io». Gli rispondo. Ed è davvero così, perché anche i miei nervi sono diventati tesi come le corde di un violino.
Usciamo dal locale e ci rituffiamo tra la gente, ma senza aver trovato nessuna soluzione contro quel mostro senza volto che ha aggredito e avviluppato i nostri figli.
«Ti accompagno a casa, ho la macchina parcheggiata poco lontano». Mi dice Roberto, prendendomi sotto braccio.
Mi lascio guidare dal suo braccio verso la macchina e nel tragitto verso casa nessuno dei due parla più, perché non abbiamo più nulla da aggiungere a ciò che ci siamo detti.
Arrivati sotto il mio portone, ci salutiamo con le solite parole di circostanza.
Come sempre, ho passato la notte rigirandomi nel letto e al mattino faccio colazione, da sola in cucina. Do uno sguardo al cellulare e trovo un messaggio di Roberto.
“Mi ha fatto molto piacere conoscerti di persona e mi piacerebbe rivederti, anche per farmi perdonare lo scatto d’ira di ieri al bar”.
Dato che sto attraversando un brutto periodo e la mia vita è già abbastanza problematica per conto suo, non vorrei rischiare di complicarla ancora di più e sono indecisa se accettare un nuovo incontro. Ma poi mi dico che se tra noi dovesse nascere una serena amicizia, farebbe bene a entrambi e ci aiuterebbe a superare questo periodo nero.
“Anche a me farebbe piacere rivederti”. Rispondo.
“Sabato sera a cena, allora?”
“Va bene”.
“Passo a prenderti alle otto”.
“Va bene. A sabato sera, allora”.
Trascorrono i giorni e mi sorprendo ad attendere con ansia il fine settimana, e per la prima volta, da un anno a questa parte, comincio a sentirmi viva.
Il sabato mattina decido di andare dal parrucchiere, che non mi vede da mesi, per chiedere un taglio nuovo che riesca a ringiovanirmi e dei colpi di sole che illuminino il mio viso. Tornata a casa, passo il pomeriggio alla ricerca dell’abito che dovrò indossare per la cena e alla fine scelgo un tailleur pantaloni nero e un top bordeaux. Un filo di trucco, una spruzzata di profumo e sono pronta.
Mi affaccio alla camera di Francesco, che senza staccare gli occhi dal monitor arriccia il naso e chiede:
«Ma cosa ti sei messa addosso?»
« Il mio solito profumo». E intanto mi chiedo se per caso abbia esagerato.
Lui scrolla la testa senza commentare e torna a estraniarsi.
«Torno presto». Gli dico, richiudendo la porta sul suo silenzio, ma già il fatto che abbia avvertito la scia del mio profumo mi sembra un passo avanti.
Il locale scelto da Roberto è fuori città, in collina, dove servono piatti tipici in una cornice rustica ma raffinata. Una cameriera ci accompagna al nostro tavolo sul quale è stata accesa una candela. Penso che forse sia tutto troppo romantico e quando Roberto, nello spostare la sedia, sfiora ripetutamente il mio braccio, mi scosto cercando di non apparire troppo brusca, ma non posso trascurare il turbamento che quel tocco mi ha provocato. Roberto mi piace e non solo fisicamente e leggo nei suoi occhi la medesima attrazione verso di me, e allora mi trincero dietro il menù.
Al dessert ho la testa che mi gira, mi sento galleggiare su una nuvola e anche i miei pensieri sono diventati più leggeri. Ma uno sguardo all’orologio mi fa sobbalzare e fa svanire l’incantesimo.
«È tardissimo, devo tornare a casa!» Esclamo allarmata e alzandomi di scatto.
Usciamo nella notte piena di stelle e mentre andiamo verso l’auto, lui mi prende sottobraccio. Mi sento serena, come non lo ero da tempo, eppure non ne avrei motivo. Sarà il vino, sarà la notte stellata…
«Sai… avrei pensato a uno stratagemma per tirare fuori dalle loro stanze i nostri figli». Mi dice Roberto, mentre saliamo in macchina.
«… A mia figlia piaceva molto immergersi nella natura andare a cavallo, prima che nascessero tutti questi problemi frequentava un maneggio e io avevo anche pensato di comprargli un cavallo tutto per se, ma da quando si è chiusa in se stessa, non ne abbiamo più parlato. Perciò, perché domani non andiamo tutti e quattro al maneggio e passiamo la giornata all’aperto? Passo io a prendervi domattina e vedrai che tuo figlio, sentendo che porterò Laura e che se lo volesse potrà montare anche lui a cavallo, ci verrà volentieri. Vedrai che in qualche modo troveremo la chiave del loro malessere e riusciremo a tirarli fuori da quelle maledette stanze».
Roberto mi guarda speranzoso e io sento che insieme forse riusciremo a risolvere il problema che accomuna i nostri figli.
Tornata a casa, trovo Francesco ancora sveglio e allora gli racconto dove sono stata, gli parlo di Roberto, gli dico che è un amico e che mi ha invitato domani ad andare con lui e sua figlia in campagna, in un maneggio che loro già conoscono e frequentano da tempo e dove potremmo trascorrere tutti assieme una bella giornata all’aria aperta e che se lui lo avesse voluto avrebbe potuto imparare ad andare a cavallo.
Francesco, scosta il viso dal monitor e mi guarda incuriosito.
« E come si chiama questa?»
«Laura». Rispondo io.
«E quanti anni ha?»
«Sedici anni, più o meno avete la stessa età». Gli dico, mentre scorgo sul suo viso un improvviso interesse.



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