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IN VECCHIAIA NON TUTTO È DA BUTTARE VIA.

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

5
APR
2018

Dalla piazzetta del mio paese, dove sono nato, si vede il mare ed è lì che vado ogni qualvolta sento il bisogno di rilassarmi. È così da quando ero piccolo. Se trovo una panchina libera bene, mi siedo, altrimenti mi appoggio alla ringhiera e guardo l’orizzonte che lontano sfuma tra cielo e mare.
Questa mattina il tempo è incerto, c’è un po’ di foschia e le nuvole basse non promettono niente di buono. Solo qualche raggio di sole riesce a bucarle e illuminare il mare.
Sulla piazzetta ci sono dei ragazzini che con dei pennarelli stanno imbrattando una panchina e io cerco di farli desistere ma loro non sembrano sentirmi. Smettono solo quando mi avvicino e li sgrido, ma so già che domani saranno di nuovo qui per dare seguito al loro scempio.
Mentre si allontanano, sbuffando e sghignazzando, uno si gira e grida:
«Vecchio rimbambito. Ma fatti i fatti tuoi o vai all’ospizio?»
Il vecchio rimbambito naturalmente sarei io, ma ai miei tempi nessuno si sarebbe permesso di mancare di rispetto a una persona anziana, ma cosa possiamo fare? I tempi sono cambiati e la colpa va addebitata solo all’educazione che questi ragazzi non hanno mai ricevuto dai loro genitori.
Prendi i miei vicini, per esempio, quelli che abitano nel palazzo giù in città. Sei mesi fa, mentre rincasavo, li ho visti uscire dal portone portandosi dietro un grosso sacco nero.
«Poldo è morto, era molto vecchio e malato, e il veterinario ce lo aveva detto che non sarebbe vissuto ancora per molto». Esordì la donna, con gli occhi lucidi, mentre io mi facevo da parte per farli passare.
«Andiamo a seppellirlo in campagna, nel terreno di un amico». Aveva aggiunto il marito, come se a me la cosa potesse minimamente interessare. Io non avevo risposto, mi chiesi solo come si potesse dare un nome simile a un cane, ma qualche giorno dopo, quando davanti all’ascensore incontrai il figlio della coppia, il ragazzino mi chiese:
«Sono tre giorni che Poldo è scomparso, non è che per caso l’ha visto in giro?»
«Che io sappia il tuo cane è morto e i tuoi genitori lo hanno anche sepolto in campagna».
Gli dissi, dandogli l’unica risposta che ritenevo sensata, ma lui si mise a piangere.
La mattina dopo trovai la madre che mi stava aspettando davanti al portone.
«Complimenti signor Ermanno, con mio figlio non ha dimostrato nessuna sensibilità, né discrezione nei suoi confronti. Lui ha solo dodici anni e adorava il suo cane e lei con noncuranza gli ha detto che è morto. Non le sembra di aver esagerato? Di essere stato troppo brusco e diretto?»
Avrei voluto risponderle che mi dispiaceva, che pensavo lo sapesse e che non ci fosse niente di male a dire a un ragazzino che un cane vecchio e malato poteva anche morire. E avrei voluto anche dirle che continuando a crescere il figlio così, a mentirgli in quel modo, lo avrebbe fatto diventare uno smidollato credulone, nonché facile preda degli scherzi dei suoi coetanei, ma mentre lei, con le sue pesanti borse della spesa si dirigeva verso l’ascensore, mi limitai a bofonchiare solo qualche parola. Avrei potuto anche darle una mano, visto com’era ingombra di bustoni, ma mi è sempre stata antipatica quella donna lì e allora ho aperto il portone e senza nemmeno salutarla sono uscito. Da quel giorno sia la coppia sia il figlio, quando mi incontravano non rispondevano più al mio saluto e si giravano dall’altra parte. Come se a me potesse interessare qualcosa del loro saluto o sapere che ce l’avevano con me per la faccenda del cane, ma quello era il loro modo di comportarsi e quella l’educazione che davano al figlio.
Una sera, mentre stavo tranquillamente a casa e leggevo un libro sulle imprese belliche della prima guerra mondiale, sentii squillare il telefono e, curioso di sapere chi mi stesse chiamando a quell’ora, visto che sono vedovo e vivo solo, sono andato a rispondere.
Era il figlio di un mio vecchio compaesano, un caro compagno di giochi che in gioventù mi aveva conteso anche le ragazze. Era stato un mio caro amico, ma ormai Tommaso era morto da anni e allora cosa voleva il figlio da me.
«Ermanno, ti ho chiamato perché la tua vecchia casa qui in paese ha bisogno di una ristrutturazione. Sono caduti dei calcinacci dal balcone e dal cornicione. Sono intervenuti i Vigili del Fuoco e sono venuti anche i tecnici del comune a controllare e hanno detto che la casa ha bisogno di urgenti lavori di consolidamento. Dovresti venire subito, almeno per dare un’occhiata, se no potresti passare dei guai».
Sono in pensione da tre anni e sono solo. Detesto viaggiare e il trambusto che ne consegue. I miei figli che vivono in altre città lo sanno e per questo non mi vedono mai, ma ripensando a quella telefonata mi sono allarmato e allora ho pensato che sarebbe stato doveroso andare a dare un’occhiata e magari trascorrere qualche giorno in paese per rendermi conto della situazione.
Nella casa dove sono nato, non ci mettevo piede da anni, ci ero andato qualche volta e devo dire che avrei voluto ristrutturarla già da tempo, ma il lavoro, i figli, le spese, il mutuo per la casa in città… Poi i figli si sono sposati, mia moglie si è ammalata ed è morta e io non ci ho più pensato. Ma adesso, anche con i soldi della liquidazione, quella casa avrei potuto sistemarla a dovere e magari trascorrerci qualche giorno d’estate. E, cosa di non poco conto, andando via dalla città non avrei più avuto la sventura di incontrare i miei antipatici e altezzosi vicini.
Fatta la valigia, ho telefonato ai miei figli per avvisarli che per qualche giorno mi sarei assentato, e sono partito. Al mio arrivo notai con sollievo che la casa, se pur bisognosa di ristrutturazione, era ancora in piedi e uguale a come la ricordavo: l’intonaco grigio un po’ sbiadito e scrostato, le persiane verdi scolorite e la ringhiera di ferro battuto del balcone, da dove un tempo pendevano i gerani, tutta arrugginita.
Sono entrato e mi sono guardato attorno. Ogni oggetto e soprammobile mi riportava indietro nel tempo, a quando vivevo qui con i miei genitori e fratelli. Ogni sguardo, ogni movimento faceva tornare alla mente un ricordo, una persona cara. Mi si strinse il cuore e mi prese la nostalgia, perché lì dentro ho trascorso gli anni più belli e felici della mia vita. Cercai di scacciare la malinconia e pensai che la casa non era poi messa così male come aveva cercato di farmi credere il figlio del mio vecchio amico, e mi tranquillizzai.
Ho aperto persiane e finestre per fare arieggiare. Ho alzato la levetta del contatore, ho collegato alla presa la spina del frigo e del televisore, ho acceso lo scaldabagno e ho cominciato a togliere tutte le lenzuola che proteggevano dalla polvere i mobili, il divano e le poltrone.
Verso mezzogiorno sono uscito per andare a parlare con i tecnici del comune e per fare provviste. Il pomeriggio l’ho dedicato invece al giardino, a estirpare erbacce e a tagliare i rami secchi e troppo bassi dei due pini che mio padre aveva piantato ai lati del cancello d’ingresso. La sera uscii per fare una passeggiata, volevo andare in piazzetta per vedere il mare, ma fatti pochi passi ebbi la sensazione che qualcuno mi stesse osservando. Mi guardai attorno, ma scorsi solo un gatto nero che stava puntando un colombo appollaiato su una tettoia.
«Buona sera. È venuto ad abitare qui vicino a noi, nella casa accanto?» Mi sentii chiedere.
Alzai la testa e da una finestra illuminata vidi una signora che mi fissava. Le faci un cenno di diniego con la mano e ripresi a camminare, augurandomi che quei vicini non fossero degli scocciatori come quelli lasciati in città. Forse aveva ragione mia moglie quando diceva che sono un orso e un asociale, ma sono fatto così e alla mia età non posso certo cambiare.
Andando via ho dato un’occhiata alla casa di quella signora e ho notato che il giardino era più trascurato di quello di casa mia, che non ci mettevo piede da anni, ma non erano certo fatti miei.
Camminando, e respirando con piacere l’aria pulita e frizzante che proveniva dal mare, pensai che con i suoi rumori, il traffico e la sporcizia, la città non mi mancava per niente. E pensai anche a quando avevo quattordici anni e alla cotta che mi ero preso per la figlia di un’amica di mia madre. Si chiamava Sara, era più grande e non si mai accorta di me. Mi strinsi nel giaccone e proseguii sino alla piazzetta. La vecchia osteria era sempre lì e sono entrato per vedere se magari riuscivo a trovare qualche compaesano che si ricordasse ancora di me.
Qualche giorno dopo, mentre davanti alla casa continuavo il mio lavoro di giardinaggio, scorsi una signora in tuta che correva verso di me e portava qualcosa a tracolla. Mi fece un cenno con la mano e poi si fermò davanti al cancello, e in quel momento mi resi conto che anche lei, come tutti in paese, era curiosa di sapere chi fossi.
«Buon giorno. Mi chiamo Silvia e abito in quella casa arancione, laggiù. Lei è venuto ad abitare qui da poco?» Chiese. Io bofonchiai qualcosa, la salutai e lei riprese a correre.
Quando per la prima volta sono andato a fare provviste, per strada e nei negozi quasi nessuno mi aveva rivolto la parola, ma in seguito non sono stato altrettanto fortunato. Dopo qualche giorno tutti mi fermavano, mi salutavano e mi chiedevano se mi sarei stabilito per sempre in paese.
Anche la commessa del supermercato mi fece tante domande, volle sapere se venivo dalla città e se mi sarei fermato per sempre in paese. Io ho risposto accigliato, sperando che si accorgesse della mia scarsa propensione alla conversazione, ma lei continuò parlando della figlia, mi disse che aveva un buon impiego ma che non riusciva a trovare un appartamento tutto per se in città e che era costretta a condividere la casa con un’altra ragazza, con la quale, per altro, non andava d’accordo. Avrei voluto dirle che a me non interessava proprio niente di sua figlia, della sua amica e che la casa in città non intendevo affittarla, ma mi trattenni e, controllato lo scontrino, pagai e uscii.
Un pomeriggio, mentre stavo facendo una passeggiata nei dintorni di casa mia, notai una macchina fotografica per terra e sentii dei lamenti che proveniva da dietro un grande albero e vidi Silvia, quella signora che giorni prima correva in tuta, stesa sull’erba e si lamentava.
«Mi sente. Cosa è successo?» Chiesi, chinandomi su di lei.
Lei aprì gli occhi e come si accorse della mia presenza, mormorò:
«Ero salita sull’albero per scattare delle foto, si è spezzato il ramo e sono caduta».
Presi il cellulare e chiamai il 118. Brevemente spiegai cosa fosse successo alla signora, dove si trovasse e poi mi fermai ad aspettare con lei i soccorsi. Supina per terra, tra lamenti e tenendosi un braccio, mi disse che aveva l’hobby della fotografia, che si chiamava Silvia, che abitava non molto lontano e che forse ci conoscevamo già. Io la pregai di non parlare, di non muoversi, di non stancarsi, ma lei non capì che io lo dicevo solo perché non mi interessava proprio un bel niente del suo hobby, di come si chiamasse e della sua macchina fotografica.
Qualche giorno dopo sentii suonare il campanello e quando andai ad aprire, davanti al cancello vidi quella signora caduta dall’albero. Aveva un braccio ingessato e lo teneva appeso al collo. Mi volle ringraziare. Mi disse che se non fossi intervenuto io, lei da sola non sarebbe riuscita a rialzarsi. Continuò a parlare e a ringraziare e alla fine mi invitò a casa sua per prendere un caffè assieme e io, pur di togliermela di torno, le risposi che ci sarei andato.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, anche se controvoglia, mi diressi verso la casa arancione per tener fede alla mia promessa. Il cancelletto era spalancato e la porta d’ingresso aperta.
«Posso entrare?» Chiesi, ma non ricevetti risposta. Entrai in casa e nel grande salone scorsi decine di fotografie appese alle pareti: monti innevati, ghiacciai, prati fioriti, pozzanghere, cascate, nuvole, fiori, paesaggi campestri, una vela in mezzo al mare.
«Le piacciono?» A parlare era stata quella signora, Silvia.
«Sì, sono molto belle. Lei è davvero brava». Le risposi. Che cosa potevo dirle?
Poi lo sguardo mi cadde su una foto che ritraeva un uomo non più giovane, spettinato e con la barba lunga, rancoroso e non mi ci volle molto a capire che quell’uomo ero io.
L’aveva scattata a mia insaputa, forse quella volta che correva in tuta. Poi con una strana espressione, come se stesse cercando di trattenere le lacrime, mi mostrò un’altra foto, questa incorniciata e che ritraeva un uomo più giovane di me.
«Mi… mi scusi». Balbettò, e io non seppi cosa rispondere.
«È stata la mia gelosia a farci litigare e tutti e due eravamo troppo orgogliosi per fare un passo indietro, ma ormai non posso più dirgli quanto fosse importante per me e quanto ancora mi manchi. È morto in un incidente stradale», e asciugandosi una lacrima aggiunge:
«Vede quell’alberello in giardino? Lo abbiamo piantumato il giorno del nostro anniversario, ma adesso anche lui sta per lasciarmi, è tutto rinsecchito e sta per morire». Mormorò.
Tornato a casa e andato a letto, non riuscii a prendere sonno. Ripensavo a quella foto che mi ritraeva: rancoroso, ostile, troppo serio e, soprattutto, troppo solo. La mattina mi alzai, presi gli attrezzi da giardinaggio e mi presentai davanti alla casa arancione e suonai il campanello.
«Che succede, signor Ermanno?» Mi chiede Silvia, in pigiama e ancora assonnata.
«Succede che ho deciso di aiutarla a rimettere in sesto quell’albero a cui tiene tanto».
Le risposi, mostrandole le cesoie, la zappa e il sacchetto di concime che avevo acquistato.
Nei giorni seguenti tornai a occuparmi del giardino di quella signora non più giovanissima. Estirpavo erbacce, potavo alberi, tagliavo siepi e intanto parlavamo. Mi piaceva trascorrere il tempo in sua compagnia, e non mi sembrava assurdo sentirmi così bene.
Passarono i giorni e i lavori alla mia vecchia casa erano terminati, ma di tornare in città non ne avevo più nessuna voglia, anzi, presi seriamente in considerazione l’idea di fermarmi per sempre in paese e lo dissi anche a Silvia.
«Mi fa piacere sentirtelo dire», rispose, e poi aggiunse:
«Vedi l’alberello? Grazie alle tue cure si sta riprendendo e tutte queste attenzioni che hai nei miei confronti mi fanno enorme piacere. Qui prima era una desolazione, ma ora grazie a te tutto sta rifiorendo». Poi sfiorò con dolcezza i rami rigogliosi dell’alberello e sorrise.
Io distolsi lo sguardo e tornai a estirpare erbacce. Mi sentivo a disagio, ma inaspettatamente provai anche una strana e piacevole sensazione. Roba d’altri tempi che non pensavo di poter più riprovare.
«Con te sto provando la stessa sensazione che provavo un tempo con lui e non credo sia troppo tardi perché questo possa accadere». Le scappò detto a Silvia.
Io mi voltai e guardandola, stupidamente, risposi:
«In città ho tante conoscenze, se vuoi, ti posso presentare qualcuno della tua età».
«Grazie, non è necessario, non è questo che voglio. E poi ho sempre avuto un debole per gli uomini con qualche anno più di me». Replicò.
Tornato a casa, nella quiete del pomeriggio, pensai a quello che aveva detto Silvia e sorrisi. Forse aveva ragione, non era troppo tardi per intraprendere una nuova relazione e provare a camminare insieme.
Fino a quel momento, dalla morte di mia moglie, avevo vissuto una vita buia, come si guida di notte, guardando solo il tratto di strada illuminato dalla luce dei fari e non oltre, ma adesso anch’io sentivo il bisogno di dare una svolta alla mia vita, e allora chiamai Silvia e le chiesi se potevamo vederci e magari cenare assieme, perché avevo cose importanti da dirle.
Non le avrei detto tutto, perché la mia vita non è stata sempre serena e lineare e ci sono cose che non ho mai rivelato nemmeno in famiglia ma, sicuramene, avrei trovato le parole giuste.



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