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IL RIFUGIO DELLE PROTAGONISTE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

5
FEB
2019

Quando mia madre non lo faceva, avrei voluto che mi circondasse di premure e attenzioni, ma quando tutto andava bene, mi infastidivo se mi accarezzava i capelli o mi chiedeva come stessi.

Sono cresciuta in una bella casa in collina, circondata da alberi altissimi e prati tutt’attorno, un giardino tutto nostro, un cane e dei gattini, una camera con le pareti rosa tutta per me e come tutte le ragazzine credevo che mia madre fosse la più bella del mondo. Aveva solo diciannove anni quando mi mise al mondo. Mio padre, così mi era stato detto, era un militare ed era morto in un incidente stradale e non mi aveva mai visto perché, seppi in seguito, mia madre non gli aveva mai detto che ero figlia sua. Non si erano mai sposati perché lui già lo era e ogni volta che chiedevo dove fosse papà, mia madre rispondeva che era in cielo. Un posto che immaginavo così come veniva comunemente rappresentato: nuvole, arpe, angeli ed eterna serenità.

I genitori, i miei nonni, presero molto male quella gravidanza e una volta venuta al mondo avrebbero voluto che la figlia si liberasse di me, che venissi data in adozione; avevano addirittura trovato una coppia disposta ad accogliermi. Ma una volta che mi ebbe tenuta tra le braccia, mia madre non riuscì a lasciarmi andare e quello fu il primo gesto di ribellione nei confronti del padre.

Dopo la morte dei nonni, mamma fece ristrutturare la casa e la trasformò in un agriturismo completo di reception, telefono e pc all’ingresso. E siccome in quel periodo non c’erano ospiti ordinari, da noi vennero a soggiornare Madame Bovary e Anna Karenina, più Deirdre che era appena arrivata dall’Irlanda. E non chiedetemi di spiegare come fossero arrivate all’agriturismo, perché non lo so.

Mamma era sempre stata una lettrice appassionata e in soffitta, che teneva perennemente chiusa a chiave, conservava i suoi libri accuratamente accatastati e disposti per autore.

Sapevo di farla infuriare come ci riesce soltanto un’adolescente, perché non sopportava che le dicessi che quelle donne non erano reali, ma solo dei personaggi romanzati, ma quella sera mia madre aveva davvero esagerato e mi aveva anche proibito di chiederle chi fosse Deirdre, una delle tre nostre ospiti. Un’eroina irlandese uscita da una tragedia celtica, con una cascata di capelli biondi, una voce angelica, dalle curve perfette e che non faceva altro che piangere per tutto il giorno, e per questo mamma le aveva dato la stanza più lontana, quella in fondo al corridoio.

«Mamma! Non sono re-a-li, sono dei personaggi inventati dagli autori dei libri». E dicendo così cercai di scandire bene le sillabe, ma mia madre non era molto propensa a entrare nei dettagli e mi rimproverò. Ed ero così arrabbiata con lei che uscii di corsa e mi misi a percorrere la strada che costeggia il lago con i sandali infradito che sbattevano contro i calcagni. Ma correre era l’unico modo per farmi sbollire la rabbia che provavo dentro.

Nessuno conosce una furia pari a quella di una quattordicenne incavolata nera, soprattutto se non è ancora sbocciata ed è impaziente di vedere il suo corpo trasformarsi. Magrissima, treccine, ginocchia e gomiti sporgenti e una tavola al posto del petto: avevo quasi quattordici anni, ma fisicamente ne dimostravo ancora dieci.

Correvo, ma devo riconoscere che non ero molto lucida quando incontrai Alberto: quindici anni, un amico d’infanzia che si stava trasformando in un bel ragazzo. Sorriso dolce, sempre gentile, l’apparecchio per i denti che scintillava… in un attimo, rividi lo sfigato che l’anno prima giocava ancora con il piccolo chimico e adesso si fermava a parlare con me. E pensai che doveva essere proprio disperato per chiedere di uscire con una come me, perché non ero una di quelle ragazzine di quattordici anni che ne dimostrano venti. Ma gli ero grata perché mi teneva compagnia e mi faceva sentire bene, mentre mamma non si era ancora accorta che non era più il ragazzino innocente di un tempo. Aveva allentato la sorveglianza proprio nel momento in cui avrebbe dovuto intensificarla, e anche se sapeva che Alberto ed io facevamo lunghe passeggiate in pineta, non aveva il minimo sospetto sulla nostra crescente esuberanza giovanile.

Mi circondai le costole scarne con le braccia, abbassai lo sguardo sul mio petto, stanca della mia mediocrità, stanca del rifiuto del mio corpo di arrotondarsi come quello di altre ragazze della mia età e mi fermai a parlare con Alberto.

Qualche giorno dopo, una volta che si fu sistemata ogni cosa, mentre con un occhio guardava la tv, mamma mi raccontò la storia delle sue ospiti e poi salimmo la scala che portava in soffitta. Cercò a tastoni la chiave della porta che nascondeva sotto un grosso vaso e trasse dallo scaffale tre libri impolverati: Madame Bovary di Flaubert, Anna Karenina di Tolstoj e un libro sulle tragedie celtiche. Per lei l’idea che io non conoscessi la storia delle sue ospiti, era insopportabile e mi diede i libri per farmeli leggere.

Andai a letto e aprii il primo romanzo solo per farla contenta, ma anche per capire perché Madame Bovary fosse venuta da noi, perché avesse bisogno di starsene per un certo periodo da sola, fuori dal suo ambiente. Ma in breve mi feci coinvolgere dalla trama e fu una delizia leggere del corteggiamento che Rodolphe le riservava. Ma non riuscivo a capire il carattere della donna: un’anima romantica che si era pentita di aver sposato Charles, uomo sbagliato e si era lasciata andare tra le braccia di un altro uomo, anche questo alla fine rivelatosi sbagliato. Non la giudicavo, perché dal mio punto di vista era assolutamente razionale che una donna che aveva sposato l’uomo sbagliato dovesse pentirsene amaramente e cercare di rifarsi una vita.

Il problema fu che Emma perse del tutto la testa per questo Rodolphe, al punto di progettare la fuga con lui, mentre Rodolphe, forse intimorito dalla sua determinazione, decise di scaricarla. Ma la cosa peggiore fu apprendere che quella donna che soggiornava nella stanza sopra la mia, era destinata a morire avvelenata dall’arsenico. Non mi sarei mai aspettata una fine così tragica.

Sere dopo, mamma ed Emma si ritirarono nel salotto ed io, curiosa di sapere cosa si sarebbero dette, mi andai a rintanare dietro la porta. Non riuscivo a sentire molto, ma udii chiaramente che parlavano di Rodolphe.

«È così elegante e raffinato». Disse Emma, e mia madre fece un cenno di approvazione.

«Se n’è andato via forse perché temeva di rovinare la mia reputazione e non voleva che una donna nella mia posizione fosse fatta oggetto di critiche e calunnie». Continuò Emma.

Chiusi gli occhi e annuii. Dunque era arrivata all’agriturismo dopo aver appreso che Rodolphe intendeva mandare a monte il suo progetto di fuga.

«Forse». Commentò mamma.

«Ma perché non ha capito che delle critiche degli altri non mi importa nulla. Non mi importa nulla dell’etica sociale». E prendendosi la testa tra le mani chiese:

«Pensi che ritornerà?»

«Non saprei». Rispose mia madre.

«Come ha potuto avere il coraggio di abbandonarmi. Come ha potuto rinunciare alla nostra felicità, innamorati come eravamo?»

«Cerca di non agitarti, ora. Sei qui per rilassarti e un po’ di distrazione ti farebbe bene».

«Mi distraggo solo se penso a lui e ancora mi chiedo perché sia fuggito via? Avermi nascosto così malignamente le sue intenzioni mi fa sanguinare il cuore».

In quella posizione cominciavano a farmi male i piedi e mi chiedevo perché Emma si fosse ridotta in quello stato, dopo l’abbandono del suo amante.

«Gli ho detto che avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Lo chiamavo il mio amore. Gli dicevo che sarei stata la sua schiava, la sua amante sottomessa, invece…»

«Forse aveva bisogno di riflettere». Intervenne mia madre.

«Su cosa? Lui diceva di amarmi ed io non facevo che pendere dalle sue labbra».

«Non so cosa pensare». Le disse ancora mia madre.

Per poco non scivolai a terra. Certo che sapeva a cosa stava pensando. Mia madre aveva letto il libro e sapeva benissimo che Rodolphe l’aveva scaricata. Era scritto chiaramente nel capitolo 12. Lui era stufo di quella routine di amore e odio ed era fuggito.

«Pensi che tornerà da me?» Tornò a chiedere Emma, con gli occhi lucidi e sgranati.

“Non tornerà. Rodolphe ti ha lasciata e non tornerà più, e tu stai per compiere un gesto insano”. Volevo gridarle questo, ma ebbi paura della reazione di mia madre che intanto si era accorta di me ed era saltata su dal divano.

«Non osare mai più». Mi disse sottovoce e richiudendo dietro di sé la porta.

Perché mia madre non aveva detto a Emma la verità. Perché ad Anna Karenina, dopo la fine della sua relazione con Vrònskij, non le aveva detto che si sarebbe lanciata sotto un treno nei pressi di Mosca?

Di Deirdre invece ne sapevo ben poco. Figlia di un bardo, era vittima di un sortilego e il re dell'Ulster aveva deciso di tenerla reclusa per poi sposarla quando fosse stata abbastanza grande. Tuttavia, prima di essere imprigionata, incontrò, si innamorò e fuggì in Scozia con Naoise, un giovane guerriero che venne in seguito rintracciato e fatto uccidere dal re. Ma anche per Deirdre, devastata dal dolore per la perdita del suo amato, l’autore aveva riservato un’atroce fine, perché, per il dolore, lei si uccise.

Me ne stavo tornando delusa e arrabbiata in camera mia, quando passando davanti alla sua porta sentii singhiozzare. Mi fermai per un attimo e stavo per proseguire quando decisi di bussare.

«Chi è?»

«Sono io, Rebecca». Le sussurrai attraverso l’uscio.

Deirdre venne ad aprirmi e mi fece cenno d’entrare.

Le chiesi perché continuasse a piangere, e lei rispose che era preoccupata per Naoise che da giorni non aveva più sue notizie.

«Quando sono venuta qui per rilassarmi un po’ mi trovavo in Scozia con lui, e prima di partire mi aveva assicurato che mi avrebbe raggiunta. Ma sono trascorsi già tanti giorni e non si è fatto ancora vivo».

Cosa avrei potuto risponderle? Che forse era già stato ucciso dai sicari del re?

«E cosa intendi fare?» Chiesi.

«Vorrei uscire per andare a cercarlo. Forse non sa dove mi trovo. Ma ho paura, perché so che mi stanno cercando e se mi trovano, verrò rinchiusa nella torre».

«Ho un’idea. Forse potremmo travestirci e con l’aiuto di Alberto, un mio amico, potremmo uscire e andare in cerca del tuo amato».

«Ma ti ho detto che temo di essere vista, riconosciuta. Se mi scoprono, sarei subito riportata indietro e non saprei più niente di Naoise». Rispose preoccupata Deirdre.

«Siamo a carnevale, potremmo mascherarci e passare tra la gente senza essere riconosciuti.

«E cosa sarebbe questo carnevale?» Chiese.

«È una tradizione che forse tu non conosci, ma è una storia antica, anzi vecchissima. Già al tempo dei Romani, in un certo periodo dell'anno, si usava mettersi una maschera, scendere per le strade, ballare e fare la più grande baldoria possibile e queste feste, cui partecipava tutto il popolo, duravano giorni interi. Più avanti, nel Medioevo, iniziarono a vedersi anche maschere dal volto tragico e comico insieme e a Venezia è ancora una tradizione mascherarsi nel periodo di carnevale».

«Sì. Va bene, ma io cosa dovrei fare?»

«Niente di cui ti debba preoccupare. Per l’occasione uno dei tuoi abiti andrà benissimo. Anzi mi travestirò anch’io, così sembreremo due damine del seicento. Poi chiederò ad Alberto di procurarci le mascherine e tutti e tre andremo per strada e tu, non riconoscibile, potrai guardarti in torno e cercare tra la gente il tuo amato».

Deirdre sembrò sorpresa e preoccupata nello stesso tempo, ma poi annuì.

«Va bene, faremo come dici tu. Ma ti prego sbrighiamoci perché non ho molto tempo. Devo trovare Naoise prima di tornare tra le pagine della mia storia».

Dopo due giorni Alberto tornò e da sotto il giaccone tirò fuori tre mascherine, delle stelle filanti e non so quanti coriandoli. Ci preparammo con cura e a Deirdre nascosi i capelli sotto un ampio cappello e per coprirle il volto le feci indossare la maschera tutta bianca. Appena si fece buio, facendo attenzione a non farci vedere da mia madre, uscimmo di casa.

Quando arrivammo in centro, le strade erano già gremite e festanti. Ragazzi e ragazze sfilavano e ballavano allegramente assieme a decine di altre maschere che seguivano i carri.

«Non lo vedo». Mi disse sottovoce Deirdre.

«Aspetta, forse si sarà travestito anche lui. Forse non è ancora arrivato. Mescoliamoci alla folla e vedrai che qualcosa succederà». Le risposi.

Continuammo a passeggiare fino a notte fonda e quando stavamo ormai per tornare a casa deluse, mi sentii stringere un polso.

«Eccolo». Mi sussurrò Deirdre indicandomi il suo amato.

Era un ragazzo biondo che indossava una corazza medioevale, senza nessuna maschera che gli coprisse il volto e in una mano brandiva una lunga spada. Sembrava spaesato, si aggirava guardingo e minaccioso. Forse temeva di incontrare i suoi sicari o forse lui era arrivato al punto della tragedia che aveva svelato il finale.

Ci avvicinammo e appena gli fummo davanti Deirdre si sollevò la maschera e si fece riconoscere. Lui da prima sembrò stupirsi poi, come la riconobbe, sciolse i tratti del suo volto in un sorriso e l’abbracciò. Parlarono a lungo tra loro, ma io non capii una parola di quello che si stavano dicendo, poi Deirdre si girò verso di me e ridandomi la maschera mi disse:

«Devo andare via. Scappo con lui. Ci stanno inseguendo e hanno scoperto dove mi trovo e vogliono ucciderci».

Avrei voluto dirle qualcosa, salutarla, chiederle se sarebbe tornata da noi, ma non mi dette il tempo di dire una parola che si era già confusa tra la folla.

Quando tornai a casa, prima di andare in camera mia entrai nella sua ma trovai tutto in ordine, il letto era ancora intatto, mentre le sue cose non c’erano più. Era sparita.

Il mattino mi svegliai con un gran mal di testa e mi chiesi cosa mi fosse successo, se avessi sognato? Se avessi veramente vissuto un’avventura straordinaria senza essermene resa conto.

Una scia di coriandoli sul pavimento, il mio abito da damigella e la maschera che avevo indossato la sera prima per andare alla sfilata di carnevale erano abbandonati sulla mia vecchia poltroncina, mentre sul comodino i tre libri non c’erano più. E quando chiesi a mia madre di Deirdre, di Emma Bovary e di Anna Karenina, lei si stizzì e tirandomi giù le coperte mi disse che dovevo smetterla con le mie fantasticherie; che i romanzi dovevano essere letti per il piacere di leggerli, senza lasciarsi coinvolgere al punto da personificare le sfortunate protagoniste.

Uscii di casa che ero più arrabbiata del solito, perché ero sicura di aver conosciuto Emma, Anna e Deirdre, ma quando incontrai Alberto che come me, tutto acciaccato stava andando a scuola e mi chiese come mi sentissi dopo tutti quegli aperitivi e spumante che avevamo bevuto durante la notte, capii che forse avevo sognato, o peggio, dopo essermi addormentata, di aver trascorso il resto della notte in preda agli incubi.



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