Gli open days delle scuole: occasione per riflettere e ripensare ad un’azione didattica che si confronti con i cambiamenti accogliendoli e al tempo stesso opponendo una resistenza costruttiva e critica
Questi sono i giorni dell’orientamento, dell’open day delle scuole. I giorni che vedono studenti e studentesse, ma anche genitori e insegnanti, impegnati in un’operazione che porta con sé un forte senso di responsabilità, schiacciante in alcuni casi, in quanto è strettamente legato alla paura di fallire: quello della scelta del percorso di studi a compimento del primo ciclo dell’istruzione. Liceo o istituto tecnico/professionale? “Qual è la scuola migliore per me?”. In un suo recentissimo intervento (www.edscuola.com) l’Ispettore emerito del MIUR, Maurizio Tiriticco, si è chiesto: “Che cosa significa dire che una scuola è migliore di un’altra?” E poi, ha aggiunto, “Le scuole non producono saponette o coltelli! “. In pratica la scuola non è assimilabile ad un’azienda, non va asservita ad una logica utilitaristica. Essa è luogo di interventi di educazione, formazione e istruzione progettati e realizzati dalle varie istituzioni scolastiche per favorire lo sviluppo della persona umana, adeguandoli ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche dei soggetti coinvolti.
Viviamo in un’epoca di cambiamenti profondi che investono non soltanto la sfera economica, sociale e politica, ma anche quella della comunicazione che coinvolge i saperi e l’interpretazione degli stessi. La scuola ha una duplice missione: adattarsi alla modernità, scientifica e sociale, integrarla e impartire insegnamenti professionali. D’altro canto, però, la scuola deve prendere le distanze dalla modernità, per guardarla meglio, per interpretarla e insegnare così l’autonomia della coscienza, la problematizzazione, il primato della verità sull’utilità, l’etica della conoscenza.
Se la scuola deve adattarsi alla società, nello stesso tempo deve fare in modo che la società si adatti alla scuola. Se la proposta culturale della scuola è quella che va oltre le forme dell’hic et nunc, è necessario che a scuola si spieghi che proposta serve ai cittadini per vivere meglio il proprio “qui e ora”. Se viviamo schiacciati sul presente, se sembra inevitabile ormai “navigare a vista”, allenarci alla flessibilità, se la dimensione dello spazio si è allargata a discapito di quella del tempo, la scuola deve reagire, opporre una resistenza costruttiva non tanto rendendo attraente, appetibile l’attività dell’insegnare e dell’apprendere, quanto piuttosto ridisegnando, ridefinendo il processo didattico, rendendolo inclusivo dei vari saperi, accogliendo tutti gli strumenti di trasmissione dei saperi, favorendo un approccio alla realtà anche attraverso le forme dell’immaginario veicolate dai vari media.
Dalla scuola dovrebbe partire lo stimolo per quella riforma del pensiero, auspicata da Edgar Morin: “a un pensiero che differenzia bisogna sostituire un pensiero che associa e collega, in un processo dialogico che accoglie nozioni complementari e al tempo stesso antagoniste”.
L’apprendimento significativo, quello che resta, è il risultato della libera partecipazione a un ambiente significante: ecco, chiudiamo questo intervento, con l’auspicio che studenti, genitori e insegnanti compiano una scelta orientata nella direzione di una scuola in cui si impari a conoscere, a fare, a essere e a vivere nella complessità e nelle contraddizioni che la caratterizzano.