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In Libia/Non chiamateli centri di accoglienza

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

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LUG
2018

Il Ministro dell'Interno Salvini ha dichiarato che la tortura in Libia è “solo retorica” e che i centri sono all’avanguardia. Ecco la testimonianza di chi ha visitato uno di questi centri  – a Misurata – e può testimoniare il contrario

Sono stata in Libia nel dicembre del 2007. Un viaggio di lavoro, un’opportunità per chi come me si occupa di immigrazione e vuole capirne meglio le dinamiche. È stata un’esperienza interessante, condivisa con altri colleghi. Cinque giorni intensi che mi hanno permesso di aprire una personale finestra di riflessione su questo Paese, ieri come oggi ancora così contraddittorio. Una finestra che non si è mai chiusa.
Dico contraddittorio perché, malgrado quello che si possa credere, la Libia resta un luogo affascinante. Per non parlare di Tripoli, una città ancora per certi versi così incredibilmente italiana. Sono stata in Libia con l’UNHCR e alcuni colleghi di altre organizzazioni italiane. Un’occasione per verificare di persona le condizioni ed il trattamento riservato agli stranieri in Libia, l’accesso alle procedure di asilo ed il riconoscimento dei diritti umani. Della Libia sapevo tante cose. Era allora, ed ancor di più oggi, un Paese in crisi, una forte crisi economica iniziata diversi anni prima, la stessa che negli anni successivi avrebbe investito anche il nostro Paese e il resto dell’Europa. Una crisi economica che l’aveva segnata, aveva generato delle conseguenze di non poco conto sul tessuto sociale del Paese, già così frammentario, e gli stranieri presenti erano stati i primi a pagare lo scotto delle conseguenze.
La Libia è stata da sempre meta di migranti provenienti da diverse parti dell’Africa e dell’Asia. I motivi erano diversi ma una ragione fondamentale era che vi potevano trovare lavoro e stabilità senza dover fare scelte di vita e di migrazione più drastiche. Poi la crisi aveva rovesciato tutti gli equilibri e molti di questi stranieri si era ritrovati a non essere più tollerati come un tempo. In quegli anni di inizio della crisi quindi, per quanti provenivano da Paesi di lingua araba, si poteva ancora parlare di tolleranza e tutela, ma per chi veniva da Paesi come l’Eritrea e l’Etiopia non era più così. Dai racconti di molti di loro emergevano risvolti anche drammatici. In tanti raccontavano di venire segnalati alla Polizia, come irregolari, dai loro stessi vicini di casa che, un momento dopo il loro arresto, piombavano nell’abitazione facendo razzie di tutto quanto fosse possibile portare via. “Era la crisi”, ti dicevano.
Sono stata in Libia quando il Paese era ancora governato da Mu’ammar Gheddafi, seppure ancora per pochi anni, e a farci da guida in quei giorni di soggiorno in Libia fu un’organizzazione libica legata al Governo.
La missione ci ha permesso di fare diversi incontri con diplomatici di vari Paesi europei, di altre organizzazioni, raccontandoci ciascuno un pezzo di verità di questo Paese.
Se ne parla tanto oggi dei luoghi di detenzione dei migranti in Libia. Ho letto le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ho letto che ha dichiarato che la tortura in Libia è “solo retorica” e che i centri sono all’avanguardia. Io ci sono stata in uno di questi centri  – a Misurata – e posso testimoniare il contrario.
Nel centro c’erano centinaia di detenuti. Li chiamo detenuti perché utilizzare la parola accolti non è corretto. Alla parola accoglienza corrispondono altre azioni, altri obiettivi, altre finalità, quindi altre modalità, altre logiche, tutele. Sicuramente loro erano detenuti.
Vivevano in questa struttura uomini, donne e bambini insieme, in grandi stanze fatiscenti, prive di letti, di servizi igienici adeguati, di riscaldamento. Le stanze davano tutte su di un grande cortile posizionato al centro della struttura. Uno spazio all’aperto nel quale, di fatto, si incontravano tutti. Immagino che d’inverno fosse una fangosa latrina. Una volta arrivati ci fu permesso di visitare il centro e di parlare con quanti si trovavano detenuti. Ci chiedevano di portarli via da lì e lo facevano con dignità ma anche con cautela. Forse per timore di essere ascoltati. Durante la visita, surreale, fummo portati all’interno di una stanza guidati dal direttore del centro, da alcuni militari. Si trattava, a loro dire, dell’infermeria. Vi erano pochi mobili. L’essenziale direi. Una scrivania, un armadietto a vetri. Ci tenevano a mostrarci questo luogo per dimostrarci la cura e l’attenzione che riservavano ai detenuti. La stanza sapeva incredibilmente di pittura fresca. I detenuti, perlopiù eritrei ed etiopi, che parlavano in inglese e comunicavano con noi appena possibile, ci dissero che non c’era mai stato un ambulatorio! L’avevano pitturato la notte stessa. Era stato imposto loro di pitturare quella stanza. Non era mai esistita nessuna infermeria in quella struttura. Frastornati, cosi ci sentivamo, cosi mi sentivo. Insieme alle guardie e al direttore, due medici ci accompagnarono in questo sopralluogo. Perlomeno così si erano presentati. Ed effettivamente potevano sembrare dei medici per via del camice bianco che indossavano. Ora, mi colpì molto questo camice. Mi aveva dato l’impressione di essere stato appena tolto dalla busta di plastica che lo conteneva, e lo si capiva dal fatto che, malgrado fosse stato indossato dai due, ancora conservava le pieghe rettangolari tipiche di quando togli un indumento che è stato conservato in una busta di plastica di dimensioni ridotte. Mentre andavo via, dalla jeep che ci aveva portati lì, ho visto chiaramente uno dei due medici sfilarsi lo stesso camice, appallottolarlo tra le mani e gettarlo in un angolo nel cortile. Questa è stata l’ultima immagine che mi porto dietro da quella visita insieme alle voci delle persone trattenute, i sorrisi dei bambini, le donne abbandonate a se stesse: tutti però a chiederci di portarli via. Evidentemente, non avevamo questo potere, ma non avevamo neanche la consapevolezza di dove fossimo stati portati.
Poi la visita al sito archeologico Leptis Magna, un posto bellissimo. Un’antica città romana. Un patrimonio inestimabile. Non c’era nessuno.
Quelle donne, quei bambini sono un ricordo che mi accompagna da anni. Gli stessi anni in cui, fino a oggi, ho assistito e ascoltato migliaia di persone, di migranti. Con reticenza ne racconto le storie. Per pudore, rispetto, per fatica anche. Ma di recente mi capita sempre più spesso però, e non lo faccio per cercare lacrime, suscitare emozioni, applausi e approvazione da parte di chi mi ascolta. E’ piuttosto il mio personale contributo a questo processo lento ma inevitabile che spero porti tutti, prima possibile, alla consapevolezza di quanto accade nel resto del mondo, al di là del mare, a un’ora di volo dall’Italia, anche quando qui “c’è gente dal barbiere” come diceva una canzone tanti anni fa.



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