Il bianconiglio non faceva altro che sfidare un tempo tiranno. “E’ tardi, è tardi!” ansimava. Sembrava un azzeccagarbugli impegnato nella rincorsa della prescrizione. Già, una figura mitologica quella del mitico avvocato manzoniano, ciclicamente riproposta per ferire, stigmatizzare, insultare lo spirito dell’avvocato. Un ruolo infame quello del difensore, nevvero? Abbiamo bisogno di frugare nelle pieghe, nelle inefficienze dell’ordinamento, dobbiamo scoprire falle, buchi, incongruenze, inesattezze, sfruttandole per le migliori sorti dei nostri assistiti. E’ così dalla notte dei tempi, da prima, molto prima, che Alessandro Manzoni ci dicesse che a noi tocca imbrogliar le chiare carte. Ma se pure fosse Antonio, o Giovanni, o addirittura Alessandro, il senso dell’agire azzeccagarbugliesco resta l’essenza bifronte della professione legale. Eternamente sospeso, in bilico, “tra santi e falsi dei”, intento a ricercare il giusto, il vero e il sacro, ma attratto dall’utile, dal disdicevole e dal funzionale, l’avvocato impugna, contesta, disvela e rivela, perché questo è quello che s’ha da fare. Fino a quando e fino a dove, forse non può dirlo nessuno.
Tempo fa mi appassionai ad un film di discreto successo: “Il mistero Von Bulow”. Tratto da un’opera biografica dell’avvocato Alan Dershowitz, il film racconta dello scarto tra ciò che è reale e quello che viene statuito in tribunale. L’ultima frase del collega, rivolto all’imputato scagionato, è forse l’essenza del nodo gordiano che affrontiamo. Alan si rivolge al suo assistito con una battuta che recita pressappoco così: “dal punto di vista legale è una vittoria brillante, per quanto attiene alla coscienza, se la vedrà lei”.
Torniamo nella foresta di Alice, a quel coniglio bianco che deve sfuggire all’implacabile tagliola del tempo e torniamo nel processo, civile o penale che sia. Dopo dieci anni di professione posso guardare alle porte dell’Oracolo del Sud con una certa dose di cinico distacco. Vorrei poter dire anche io di aver incontrato preti spretati, avventurieri, uomini soli, intrallazzieri, ma uomini, soltanto uomini, davvero di rado. Torno alle pieghe dello Stato, a quella cosa, bella e terribile, come un esercito schierato in battaglia, che rifugge da ogni risoluzione. Verba volant, come i famigerati pezzi da otto dei pirati, scambiati con fiumi di rhum. E’ così che si costruiscono lunghi viaggi, non sempre costellati di diamanti tra le stelle, ma più spesso scanditi dalle fasi, dai cavilli, dagli interrogatori. La prescrizione del reato è anche questo: un velo che copre, un manto che non intacca in alcun modo la città sommersa, ma che è in grado di nasconderla agli occhi della legge. Si dice che ogni processo sia già una pena e che essere imputati possa distruggere la vita. Nulla di più giusto, perché ogni volta che l’uomo è solo di fronte all’abisso della possibile privazione della libertà, o della piena agibilità sociale, non si può ignorare che persino una tardiva assoluzione contenga già in sé gli elementi inaccettabili di un’angosciosa condanna. Occorre dunque comprendere quella tensione tra il frettoloso coniglietto, l’azzeccagarbugli e lo stregatto, che spesso giudica con la stessa abnegazione con cui cancella la retta via dalla vista della povera Alice. Eh sì, siamo giunti alla falsa morale della triade processuale: il bianconiglio lotta contro la prescrizione, l’azzeccagarbugli celebra il non compleanno, perché di compleanni ce ne sono troppo pochi, mentre gli stregatti sorseggiano rhum, che “i palmipedon, neppur…”