Scudo penale, protezione penale, immunità penale, sono modi differenti per esprimere un unico concetto. Corrispondono alla possibilità di commettere un reato penale senza doverne subire le conseguenze. Sulla liceità di questo principio si può discutere all’infinito e in qualunque sede ma, di fatto, qualsiasi siano le motivazioni addotte, si tratta di un privilegio e di una disparità di trattamento fra cittadini. Ci si può interrogare su tutte le cause che inducano a giustificare il permesso impunito di delinquere ma, comunque si ponga, appare una forzatura difficile da accettare. La ragione più comune è che si sia costretti a commettere un reato per evitare conseguenze ben più gravi. Un caso, ad esempio, è la soppressione di un individuo per impedire che questi causi una strage. La cancellazione di una vita per salvarne molte altre. Un fatto del tutto straordinario che è difficilmente paragonabile. Eppure, lo scudo, la protezione, l’immunità, in Italia sono stati concessi per molto meno. Il caso più recente e rilevante riguarda lo stabilimento siderurgico ex Italsider/Ilva di Taranto che, dopo aver perpetrato per decenni reati ambientali, causa di gravi danni alla salute e al territorio della provincia ionica, ha ottenuto l’autorizzazione per continuare a farlo in nome della ragione di Stato, dell’economia nazionale e dell’occupazione. È così che oggi, la “fabbrica di voti e di morte” continua a esistere gestita da ArcelorMittal, leader mondiale dell’acciaio, al quale è stato concesso di continuare a produrre in virtù della promessa di causare meno danni alla popolazione e all’ambiente in un lauto lasso temporale purché non incida sugli utili e sulle condizioni politiche del Paese. Una sorta di permesso di uccidere ma non troppo. Non importa se l’acciaio prodotto in quel modo sia in netto contrasto con la crisi internazionale della produzione degli acciai, che l’industrializzazione intensiva si sia rivelata un fallimento, che, di fatto, produrre acciaio a Taranto con la gestione di un leader mondiale straniero non apporti nessun vantaggio economico al Paese e che ArcelorMittal, sulla base delle sue realtà disseminate nel mondo, si sia rivelata una realtà che miri a curare spregiudicatamente solo i propri interessi, ma gli è stata concessa, ugualmente, la possibilità di farlo nonostante l’immenso danno che procuri. Non andremo nuovamente e per l’ennesima volta a ripercorrere la storia di questa fabbrica ma ci limitiamo a costatarne la sua attuale condizione: lo stabilimento di Taranto oggi come ieri esiste in funzione di un ricatto occupazionale e la nuova gestione ha solo lo scopo di concretare i disegni del colosso mondiale della siderurgia che ha l’intento di acquisire il monopolio di fatto, indipendentemente da leggi civili e morali. Nel momento in cui la legalità ha posto un limite a questo modo di agire contro ogni logica economica, legale, etica, la reale natura del progetto siderurgico di Taranto si è rivelato nella sua interezza tant’è, oggi 4 novembre 2019, una nota stampa diramata dall’ArcelorMittal ha comunicato il recesso dal contratto di affitto dell’azienda Ilva, imputando la costrizione al Parlamento italiano che ha negato l’ennesima “protezione legale” e al Tribunale penale di Taranto che ha imposto l’attuazione delle prescrizioni ambientali entro il 13 dicembre 2019. Ciò che ArcelorMittal ha individuato oggi era assolutamente prevedibile all’atto della sottoscrizione del contratto e la paventata crisi occupazionale per circa 10mila unità è la stessa di allora. Questi mesi hanno giovato soltanto alla classe politica che, senza nessuna attenzione per le finalità utili e necessarie, ha adoperato, ancora una volta, lo stabilimento siderurgico di Taranto per acquisire visibilità, per acuire gli scontri fra le parti e quale eccezionale strumento di propaganda elettorale. Qualunque siano i motivi per l’esistenza di un male così profondo, c’è una domanda che continua a non trovare risposta: quale ragione può spiegare che l’esistenza del lavoro per qualcuno debba significare sofferenza e morte per gli altri?