Se c’è una metafora che viene sempre usata quando si vive una difficoltà, questa è sicuramente quella del mare in tempesta, e dell’imbarcazione che lo solca. La sua prima sperimentazione si è materializzata nel De Rerum Natura di Lucrezio e poi ripresa nel saggio “Naufragio con spettatore” di Hans Blumberg, docente dell’università di Munster: “il secondo libro del De rerum natura di Lucrezio si apre con un’immagine potente: poggiando sulla terraferma, uno spettatore contempla il travaglio di un naufragio. Non partecipa agli eventi; gode soltanto della visione che ha dinanzi. La sua non è una iocunda voluptas, sorta immediatamente dalle tribolazioni altrui, verso cui guarda anzi con commosso distacco. La serena gioia che lo pervade scaturisce dal confronto fra la sicurezza della sua posizione e il pericolo e la rovina degli altri”. In questo caso ci si concentra sulla fortuna di chi può contemplare la tempesta restando comodamente a riva. Se nella metafora precedente, però, non si parla di “condivisione”, anzi quasi si loda il solipsismo fortunoso, in quella del rabbi Shimon Bar Yochai essa si erge ad esempio: “c’era un gruppo di persone in una barca. Una di loro prese un martello e un chiodo, e iniziò a praticare un foro sul fondo, proprio sotto di lui. I suoi compagni di viaggio gli chiesero perché lo stesse facendo, e quello rispose di non preoccuparsi poiché lo stava facendo sotto il proprio posto. Gli altri, di rimando, gli dissero allora che così la barca sarebbe affondata con tutti loro, e non solo con lui”. La Vita ci chiede un impegno profondo, affinché sia degna di essere vissuta, e ci chiede la “condivisione”. Ebbene, nella benedizione “urbi et orbi” concessa oggi pomeriggio, scegliendo tra le pagine del vangelo di Marco l’episodio della barca nella tempesta sui cui navigano Gesù e i suoi discepoli, il Santo Padre ha riunito abilmente le metafore più profonde della Vita nella difficoltà e le ha donate alla meditazione dell’universo/mondo. Mentre i discepoli si affannano nell’addomesticare la paura delle acque tempestose, il Maestro riposa nella quiete del giusto, di colui che sa che le onde finiranno di agitarsi, che il vento si placherà e che tornerà il sereno. Quasi che lui sia il timoniere che conosce a memoria la rotta e che sappia con certezza quale sia la meta del viaggio. Ma così non è. Lui sa che quella barca va, che deve andare e che in essa è raccolta l’umanità tutta, con i suoi dubbi e i suoi timori. Egli, risvegliandosi, chiama allora a raccolta i suoi perché abbiano fede nella sua parola, in quel suo comandare alle acque e al vento di calmarsi. Tutto questo Francesco lo ha letto, poi benedetto, infine spogliato, quasi scarnificato, sino a farlo diventare giustamente materia di questa nuova ed inaspettata quotidianità. La necessità di restare uniti nella preghiera cristiana o laica che sia, nella fede e nell’amore e rispetto per la Vita di ognuno, scava nelle vene ormai inaridite del consumismo sfrenato, dell’immaginarsi sani in un mondo malato, dell’egoismo che sfocia nell’erotico e, quasi sempre, nella solitudine dell’anima. L’immagine potentissima, cinematografica, degna del miglior Sorrentino, dell’uomo bianco solo in una piazza deserta e straniante, sotto un cielo di piombo che piange e che bagna il Cristo crocifisso, confondendo l’acqua della pioggia con le gocce di sangue del costato, sarà ricordata negli anni a venire come il monito più importante al dovere di amare e di amarsi, dell’obbligo di affrontare i mari in burrasca perché le intemperie non possono essere eterne, e perché poi noi, esseri umani e pensanti, siamo nati per aggiungere Vita ai giorni, e non sterili giorni alla Vita. Nell’era della condivisione tecnologica, riscoprire quella del cuore e della mente, non solo quella dello stomaco, potrà essere la missione salvifica delle prossime generazioni. L’eredità che ci lascerà papa Francesco sarà tutta racchiusa in quello che ha detto e condiviso in un pomeriggio di inizio primavera, piovoso e triste. Ma, citando il film di una intera generazione, “non può piovere per sempre”.