Per la sua ultima storia, che è una fiaba, Antonio Moresco ha scelto come protagonisti un vecchio straccione, che si chiama proprio come lui, Antonio, un “giovane colombo”, dalla “zampetta spezzata e dall’ala ferita, che però riusciva a muovere quando doveva volare” e che gli sta sempre vicino e una “meravigliosa ragazza”, Rosa, dagli “occhi neri”.
Perché Moresco ha scelto proprio uno straccione? Per sottoscrivere la sua volontà di fare della letteratura una forma di aderenza alla realtà? Tutt’altro. “Io non voglio raccontare la maschera della realtà, non accetto che due più due fa quattro, non accetto il mondo così com’è. Io voglio raccontare l’inaudito. Abbiamo bisogno dell’impossibile, altrimenti siamo fottuti.” Bastano queste sue parole, pronunciate venerdì scorso nella libreria L’Approdo di Locorotondo, dove il giovane editor Giovanni Turi ha condotto un incontro davvero memorabile, per comprendere la potenza letteraria di Antonio Moresco, la sua radicalità che non fa sconti, la volontà di rompere, sgretolare la maschera del reale, di turbare, scoperchiare il caos, riattivando, attraverso delle storie, qualcosa che si è perso. Che cosa? Forse, alludendo al titolo, viene automatico pensare all’amore, ma non è esattamente così o almeno l’amore c’entra ma a condizione che vi sia dell’altro: la libertà, questo fardello dal peso insopportabile che non riusciamo ad accettare, proprio perché abbiamo smesso di credere nei miracoli, nell’impossibile e ci siamo rifugiati in un mondo che non è altro che una discarica, anche se ci vogliono far credere il contrario. Un mondo in cui la “città dei vivi”, pur attraversata dalla luce, non permette di vedersi, di riconoscersi, di incontrarsi, perché quello che si scorge dalle vetrine dei ristoranti non sono altro che “un gran numero di teste e di bocche” che si muovono, parlano e masticano. Da questo mondo-discarica a salvarsi sono proprio gli straccioni, coloro che se ne tirano fuori, che scelgono la solitudine, e che accettano l’amore come l’incontro di due libertà, di due persone che non scendendo a patti riescono a vivere il miracolo di passare dalla vita alla morte e dalla morte alla vita. Di credere nelle fiabe.
In “Fiaba d’amore”, ma anche nel precedente “La lucina” è presente quell’aspetto infantile di Moresco che lui stesso ha ammesso essere un suo tratto peculiare: “Mi sembra di essere come una bilancia: devo andare molto in basso da una parte se dall’altra voglio andare in alto e portare la fiaba nel mondo.” E nel mondo, così com’è oggi c’è proprio bisogno delle fiabe perché esse ci insegnano che le cose grandi si conquistano solo se si superano determinate prove. “Antonio e Rosa, i protagonisti di “Fiaba d’amore”- spiega Moresco – superano le prove perché hanno il coraggio di cambiare rotta: lui che aveva rifiutato il mondo ed era divenuto straccione, accoglie la prova del mondo; lei che aveva scelto il mondo accoglie la prova facendosi stracciona.”
Abbiamo quindi bisogno di compiere un’inversione ad U nella nostra esistenza, di farci insaponare e lavare, di togliere dagli occhi la cispa della rassegnazione ma anche dell’indignazione e della rabbia che si avvitano su se stesse e che ci portano a vivere molti toni al di sotto della luce. “Fiaba d’amore” è un libro straordinario, un libro vivo in un mondo di morti che non sanno più distinguere la vita dalla