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Giovanni Princigalli/Com´è bello errare

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

21
NOV
2014
La comunità di Rom rumeni che vive nel quartiere Japigia di Bari, gli emigrati italiani in Canada e le donne africane combattute tra desiderio di emancipazione e voglia d’amare. Il regista barese racconta l’incontro tra culture e umanità con colori intensi e pastosi
 
«Al Pacino è un bel nome per il mio bambino? Anche adesso che sono mamma guardo cartoni animati. Come si dice … da una bambina nasce un bambino, vero?». Capelli raccolti, una sciarpa dal colore viola acceso che, da qualche anno va molto di moda tra le ragazze. Un sorriso pulito che non ha dimenticato la spensieratezza, nonostante sedici anni molto più densi di quanto l’anagrafe suggerirebbe. Nelle sue parole, nel modo in cui le dice, l’incontro di (almeno) due culture, quella rom rumena in cui è nata e di cui fa parte, e quella italiana in cui è immersa e vive la quotidianità. Il suo accento è, inconfondibilmente, barese, esattamente come quello di una coetanea nata a Madonnella. Calamita l’attenzione del regista che, con le sue domande, dipana il racconto come un gomitolo, e, ovviamente, anche quella del pubblico. Intorno a lei, ulivi, roulotte e bambini che giocano a pallone. Il tratto lieve che s’incarna attraverso colori intensi, pastosi. Sono questi i caratteri inconfondibili dell’opera dell’autore barese Giovanni Princigalli che, dopo la laurea in Scienze Politiche presso l’ateneo del capoluogo pugliese e gli studi di sociologia economica e della cultura, ha intrapreso quelli cinematografici con Giuseppe Piccioni, Umberto Contarello e Carlo Pinelli. Attualmente vive in Canada.
La vita è un sentiero da immaginare e tracciare giorno dopo giorno, una sorta di metafora della nostra identità, che raramente arriviamo a svelare e “possedere” per intero. Si tratta piuttosto di un percorso di avvicinamento fatto di successive approssimazioni, che, grazie all’esperienza, diventano sempre più efficaci e precise. Giovanni Princigalli costruisce la sua poetica intorno a queste direttrici, raccontando, di volta in volta, differenti spaccati di umanità: la comunità di Rom rumeni che vive nel quartiere Japigia di Bari (“Quaderni gitani”, presentato a settembre nell’ambito della Fiera del Levante), gli emigrati italiani in Canada (“Ho fatto il mio coraggio”, “Gli errori belli”, “Prima o dopo Sant’Anna”) e le donne africane combattute tra desiderio di emancipazione e voglia d’amare (“I fiori alla finestra”).
I lavori di Giovanni Princigalli sono animati da “coppie” di opposti solo apparenti che, una volta uniti, regalano al pubblico immagini (reali e figurate) sorprendenti e sovversive. “Gli errori belli” è il nome di una delle sue prime opere, a proposito della quale, ricorda: «è nato come un progetto a me commissionato dall’Istituto Italiano di Cultura di Montreal e dai lettori di lingua italiana di Montreal, Chiara Vigliano e Mirella Jolly». Il titolo sarebbe dovuto essere “Se dico Italia” ma, come spesso succede, un imprevisto, strada facendo, ha mescolato le carte in tavola e tutto ha assunto un’altra prospettiva. «Ho cambiato il titolo in “Gli errori belli”, quando mi son accorto in montaggio della frase dell’insegnante d’italiano all’Università di Montreal, che così definiva gli errori dei suoi studenti, in cui vi erano molti figli e nipoti di emigranti italiani, desiderosi di apprendere lingua e cultura specchio della loro duplice identità: italiana e canadese. Essi appartengono a tutte due ma non totalmente a nessuna di essa. L’errore è lo specchio di uno sforzo, di una tendenza, ma anche di un limite, a vivere l’una e l’altra lingua e identità. All’inizio del film spiego come errore ed errare hanno la stessa origine etimologica».
Successivamente, Giovanni Princigalli ha fondato una casa di produzione dal nome, ancora una volta, incredibilmente evocativo, e deliziosamente suggestivo, Héros fragiles. L’ispirazione, in questo caso, ha preso vita dalla tesi del master in cinema (“Incanti e disincanti del fragile eroe”), in cui il regista aveva analizzato una figura umana “obbligata” dagli eventi a oltrepassare i propri limiti, spostare l’asticella un po’ più in alto. Per amore di sé, o di un ideale. «Questo atto è improvviso, una sorta di corto circuito con un quotidiano ordinario o piatto. Ma l’eroismo in quanto fenomeno umano (e non divino) fragile, emotivo, contraddittorio, sofferto, difficile».
E in un certo senso anche il regista, scegliendo questo lavoro, ha fatto il proprio coraggio. Lo ha “plasmato” affrontando, opera dopo opera, incognite, incertezze, noia e curiosità. Decidendo, ogni volta, di “consegnare” il proprio sguardo all’istinto che “sa”, che conosce le cose, più che alla razionalità, con il suo “brutto vizio” e la sua ossessiva ricerca di una giusta distanza. 
 


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