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Ascanio Celestini: A ognuno il proprio tiranno

Pubblicato da: Categoria: EVENTI

31
AGO
2012

 

Attore teatrale, regista cinematografico, scrittore e drammaturgo, continua la sua tournèe estiva tra le piazze e la strada con “Discorso alla Nazione”. Narrazioni, storie vere o traslate, in cui interpreta i comportamenti umani influenzati da una società che ci divide e ci isola, ma non sempre
Il suo è uno studio, scrive e prova direttamente in scena e via, si comincia. Il suo tiranno non si ispira a nessuno in particolare, ma parla come parlerebbero i nostri tiranni democratici, se non avessero bisogno di nascondere il dispotismo sotto il costume di scena dello Stato democratico. Il suo spettacolo è un susseguirsi di situazioni sullo scenario di una guerra civile non dichiarata, gestita e controllata dagli economisti, in cui il capitalismo rema contro l’umanità: il primo va veloce, la seconda va lenta. Ribalta e probabilmente schiarisce le idee, perché in una democrazia come la nostra, sono i governatori che scelgono il Paese, non il contrario; attraverso un breve studio e calcolo, riescono a cogliere ciò che fa piacere alla gente, ai sudditi, ciò che questi si vogliono sentir dire, riuscendo a farsi acclamare e a votare.
Come è nato questo progetto?
«Questo progetto sta nascendo, nel senso che è uno studio; una parte di questi racconti l’ho scritta negli ultimi due anni, qualcuno l’ho interpretata in televisione alla trasmissione di Serena Dandini e su La7, altri li ho scritti senza utilizzarli, altri ancora  li sto scrivendo. Ne è venuta l’opportunità di fare la tournèe estiva  allestendo una volta una piazza col palchetto, un’altra volta un campo sterrato; a me piace molto partecipare a questo genere di situazioni, nei posti in cui il teatro non c’è, perché si semplifica il meccanismo e si arriva dritti alla questione».
Come una volta? Tornare alle origini del teatro?
«Sì, perché l’attore tecnicamente non ha bisogno di niente, è tutto nel suo repertorio. Adoro l’idea di salire sul palco senza sapere quali racconti farò: mi capita spesso in situazioni non teatrali, ultimamente per esempio in Val di Susa, o per un centro sociale che è bruciato a Roma, Corto Circuito a Cinecittà. Ho messo in fila alcuni racconti che hanno dei temi di fondo:  un Paese con una guerra civile in cui alcuni aspiranti dittatori parlano al popolo, ma in realtà è un Paese che non esiste e per il tiranno non mi sono ispirato a nessuno, pur essendoci voci registrate come quella di Bush, Craxi e Giovanni XXIII. Il tiranno è quello che si trova nelle condizioni di poter essere tale, è colui che sta più in alto rispetto agli altri. Tra gli altri temi che legano questi racconti, c’è la pioggia continua, una serie di personaggi armati, e questa idea di violenza che molto spesso nasce nel linguaggio e si esplicita nella realtà. Il tiranno parla di situazioni attuali, della condizione operaia o dei diritti da difendere».
A proposito dell’operaio, nel suo percorso storico, come è cambiata la sua natura?
«Poco. Ho scritto il libro “Lotta di Classe” con una dedizione particolare al precariato; il problema è che in tutti questi anni, si è parlato di precariato come se i lavoratori precari fossero una categoria. La precarietà è una condizione, non è un elemento che ha prodotto la qualità delle persone: è precario quello di 26 anni ma anche quello di 45, è precario quello che sta a sud in una situazione economica pietosa, ma è precario pure quello che sta a Parigi, è precaria la donna come l’uomo, tutte persone diverse tra loro. Manca il vincolo di solidarietà secondo me. I grandi cambiamenti stanno accadendo dove il vincolo di solidarietà c’è, o perché non si è perso o perché si è creato adesso; l’esempio classico è la Val di Susa, in cui tutti i cittadini vivono la medesima condizione».
Nei riguardi di questo momento storico sei ottimista?
«Non esattamente, ma penso anche che potrebbe andare peggio. Ci sono tante realtà di organizzazione, per esempio Riano Flaminio, vicino Roma, è stata scelta come sito per due discariche: a gennaio i cittadini hanno occupato e hanno fatto un presidio, la strada è bloccata tutt’ora, e non perché sono tutti attivisti, ma lo sono diventati per la condizione che li accomuna. I politici non si devono porre il problema di dove poter fare le discariche, perché non ci devono essere, bisogna fare la raccolta differenziata, il Paese deve crescere; bisogna partire da un problema singolare per arrivare a quello generale. Molti di questi movimenti, tranne i No TAV, nascono e muoiono velocemente, questo è un indice di grande forza non di debolezza, perché gli aderenti a essi, poi ne formano altri, e altri ancora per anni: il collettivo precario Atesia, uno dei più grande call center, dopo che i dipendenti sono stati assunti, non aveva senso che rimanesse in piedi, ma Valerio che stava all’interno del collettivo, ha formato un gruppo di lavoro all’interno di Leroy Merlin perché ora lavora lì».
Secondo te, in questo mondo di banche sorvegliate, di uomini che girano con la pistola, qual è la cosa che abbiamo perso nella nostra democrazia, e nella vita sociale e relazionale?
«La sfera pubblica. Abbiamo totalmente perso l’idea di ciò che è pubblico, tutto si è rovesciato nel privato, soprattutto tutti i nostri bisogni: tutto ha avuto inizio quando i piemontesi arrivarono a Palermo dopo l’unità di Italia, intorno al 66’, i bisogni che erano prima condivisi sono diventati privati, per cui non si ha più la necessità solo di una casa, ma c’è l’esigenza di avere il ventilatore perché fa troppo caldo, oppure della lavastoviglie che lavi i piatti. Si può avere una villa enorme, ma non sarà mai paragonabile a una piazza e a una città per scambiarsi idee e opinioni; alcune battaglie sociali hanno avuto quella forza che le ha contraddistinte proprio per spirito di solidarietà e condivisione, perché il cittadino da solo non ce la fa, è cambiata la dimensione del sociale, il singolo non può opporsi alla discarica da solo, deve scendere in strada con gli altri. Tutti coloro che hanno fatto  battaglie, a costo di sacrifici, ammettono che la loro vita è cambiata: a Riano Flaminio c’è un ingegnere italofrancese che ha vissuto in Libano fino a pochi anni fa, e che ora sta al presidio della discarica, così come un contadino che in nome della solidarietà cucina per tutti, rendendo la cucina qualcosa di speciale. Marta, una ragazza di Vicenza, dice che probabilmente la costruiranno la base militare nella sua città, ma la sua vita è cambiata da quando è scesa in piazza con gli altri: poteva starsene nei pub con le amiche, ma ha conosciuto la maestra in pensione e tanti altri  coetanei, migliorando la sua vita. Noi avremmo bisogno della sfera pubblica, per il nostro spirito, ma ci hanno imposto la lavatrice, il televisore, e la rete, che è la cosa più dannosa».
Non credi a chi dice che oggi dalla rete passano tante opportunità?
«La rete è uno strumento, come una forchetta o un martello; i miei discorsi stanno in rete perché tutto sta in rete, ma non è detto che passino solo attraverso essa. Si tratta di  un’entità vastissima, per cui tu trovi le cose se le cerchi, non ti capitano davanti, o ti serve o non ti serve».
Se ci fosse un discorso alla Nazione positivo, a chi si dovrebbe rivolgere?
«Io non credo proprio nelle Nazioni, la democrazia è possibile solo se diretta, per essere diretta anche uno stato piccolo come l’Italia è troppo grande, io non sono per niente europeista. L’era dei comuni medioevali, o del rinascimento, son state molto importanti anche per questo, perché la dimensione era molto più umana».
 


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