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PATOLOGIZZAZIONE

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

26
APR
2018

Questa volta alle prese con una delle tante possibili derive dell’eccessiva medicalizzazione della vita d’ogni giorno. Auspicandoci dei servizi alla persona con meno etichette e più soluzioni.

L’etichetta diagnostica è comoda. Definire un individuo “evitante” piuttosto che “ossessivo”, ci serve per rendere più celeri le comunicazioni tra addetti ai lavori. Capita così che l’intera vita di una persona venga ridotta, per esigenze di natura pratica, ad un’espressione verbale. Di fatto la diagnosi, anche quando più articolata, non è mai completa: essa, come ogni processo conoscitivo, risulta sempre in divenire. Di giorno in giorno cambia qualcosa nel paziente e di lui si impara qualcosa di nuovo. Inoltre bisogna anche ammettere che, per quanto le nostre tecniche si facciano sempre più attendibili, la verità diagnostica mai coincide del tutto con la realtà effettiva. Certo, nelle malattie non psichiche lo scarto tra diagnosi e realtà risulta oggigiorno assai ridotto poiché tante sono le patologie diagnosticabili tramite segni evidenti ed esami oggettivi. In psichiatria, invece, pochissimi sono i segni oggettivi e ancora meno gli esami strumentali di cui ci si può avvalere nella diagnosi. Ci si affida soprattutto ai sintomi, ossia all’esperienza soggettiva così come riportata dal paziente. E la quasi totale assenza di riscontri oggettivi implica che il canone aureo della diagnosi psichiatrica consista tutt’oggi nel consenso tra più clinici esperti. Ne consegue che la psicopatologia sia, allo stato dell’arte, una scienza principalmente descrittiva, dove al succitato consenso, soprattutto terminologico, non corrisponde necessariamente un altrettanto ampio consenso su cause e su soluzioni.

Potete ben capire come in questo scenario l’etichetta diagnostica finisca per possedere assai sovente una valenza meramente orientativa. In essa viene compendiato, con tutti i limiti dell’estrema sintesi, un dato fenomeno, senza però trattare necessariamente questioni, direi importanti, quali le cause o le soluzioni, che, mi preme ricordarlo, in psichiatria variano sempre caso per caso. Pertanto un’etichetta pura e semplice, slegata da una storia clinica opportunamente ricostruita, serve assai poco per spiegare, comprendere e risolvere un dato caso.

Anzi, vi dico di più. L’etichettatura, nel problematizzare e nell’ufficializzare una data condizione, potrebbe perfino arrecare, in determinati frangenti, dei danni ulteriori, connessi alle tristi conseguenze dello stigma sociale nonché agli effetti della cosiddetta “profezia che si auto-avvera”, ossia quel noto principio per cui “ciò che viene ritenuto reale diviene reale nei suoi effetti”. In pratica si corre il rischio, molto concreto, che una persona, suggestionata dalle aspettative insite nell’etichetta affibbiatale, possa finire per conformarsi ad essa, rendendo così la propria condizione assai più grave di quanto magari non lo fosse in partenza.

Quindi, al fine di evitare queste spiacevoli derive, il clinico coscienzioso, nell’interesse di chi tiene in cura, opera con cautela e discrezione, cerca di conferire il giusto peso ad ogni problematica e rifugge quanto più possibile da etichette omologanti, per dare priorità alla comprensione delle singole storie, alla spiegazione delle varie concause, quindi alla gestione dei casi specifici.



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