MENU

AL PRONTO SOCCORSO

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

10
NOV
2016
La nottata era stata relativamente tranquilla. I soliti interventi di routine: emicranie, qualche malore, un elettrocardiogramma, medicazione a un bimbo che era stato graffiato dal suo gatto ma nulla di preoccupante. E stava per finire il mio turno quando, verso le sei del mattino, due ambulanze con le sirene accese si fermarono sotto la pensilina e tre ragazzi, due in barella e uno zoppicante e accompagnato da un volontario della Misericordia,entrarono nel pronto soccorso e da quel momento fu tutto un rianimarsi, un via vai di dottori e infermieri, per soccorrere i feriti. 
La loro macchinaera sbandata in curvaeaveva finito la sua corsa contro un platano. I tre occupantierano stati sballottati e sbattuti come in una centrifugama per fortuna, anche se sanguinanti, con qualche bernoccolo e contusioni varie, più che doloranti sembravano frastornati.
Coadiuvando il dottore che visitavail ragazzoricoperto di sangue rappreso e che sembrava il più malconcio dei tre,con le forbici in mano stavo pertagliare la sua maglietta, quando si girò verso di me e chiese:
«Aspetta. Puoi farmi un favore?»
Pensando che si riferisse alla maglietta, risposi che per evitargli dolorosi movimenti nel toglierla, non potevo fare altrimenti. Perciò, prima di procedere alla medicazione,dovevo tagliarla.
«Non m’importa nulla della maglietta».
Mi rispose, con una voce più preoccupata che sofferente.
«E allora, cosa vuoi? Ti dobbiamo medicare le ferite, sì o no? Avrai bisogno anche di qualche punto di sutura al braccio. Guarda come sei conciato».
Gli risposi, mentre ripresi a sforbiciare.
«Volevo chiederti se potevi avvisare mia madree dirgli che mi trovo qui, ma senza farla preoccupare». 
«Non c’è bisogno, ci avrà già pensato la polizia». Risposi.
«No. Senti, viviamo da soli e non voglio che lo venga a sapere da altri, lei si spaventerebbe. Dovresti dirle che ho avuto un contrattempo, un piccolo incidente e che tarderò un pochino. Puoi farmi questo favore?»
«E tu te lo ricordi il numero?» Gli chiesi, tanto per prendere tempo.
Rispose che non sapeva più dove fosse andato a finire il suo cellulare, ma che comunque era meglio evitare la telefonata. Suo padre era morto così, due anni prima in un incidente stradale, e la madre lo aveva appreso da una voce al telefono che gliaveva prima chiesto chi fosse e poi le aveva comunicato che suo marito si trovava all’obitorio dell’ospedale.
«E come faccio ad avvertirla allora?»
«Ti do l’indirizzo. Per favore vaitua casa e dille che mi trovo qui, ma ti prego, fallo con tatto. È molto ansiosa e apprensiva».
Io gettai un’occhiata all’orologio appeso alla parete e mi accorsi che il mio turno stava per finire e allora gli dissi che tra un po’ sarei smontata eche dovevo andare a casa. 
Ero in imbarazzo e non sapevo cosa rispondergli e allora buttai lì:
«Ma tua madre sarà già allarmata a quest’ora, non vedendoti ancora rincasare».
«No. No perché a volte mi fermo a dormire da un amico».
«E non la avverti prima, quando ti fermi a dormire fuori?»
Mi rispose che a volte lo faceva ma spesso, per non disturbarla,la avvisava al suo risveglio. E perciò, anche se non lo sentiva rincasare, era comunque tranquilla.
Mentre il medico gli comunicava che aveva una lesione a una spalla e una frattura al polso sinistro e per questo doveva essere ricoverato,io mi stavo chiedendo chi me lo avesse fatto fare a rispondergli di sì, quando aveva insistito. Non me la sentivo di portare la notizia alla madre:“Suo figlio ha subito un incidente stradaleè ricoverato in ospedale, ma non si preoccupi, non è niente di grave”. Come l’avrebbe presa, come avrebbe reagito,essendo già scossa per quanto successo al marito? Quale sarebbe stata la sua reazione? Ed io cosa avrei potuto fare, come mi sarei dovuta comportare? E stavo per dirgli che forse era meglio chedelegassequalcun altro, magari la polizia stradale che era intervenuta sul luogo dell’incidente e che si trovava in ospedale per accertarsi delle condizioni dei feriti.
Stavo pensandoquesto, quando il ragazzo alzò un braccio e face cenno di avvicinarmi. 
«Allora me lo fai questo favore?»
«Senti. Ci ho pensato. È meglio che ci vada la polizia. Ho atteso che tornassi dai raggi proprio per dirti questo. Non me la sento. Non l’ho mai fatto, e poi non la conosco nemmeno tua madre».
Mi prese la mano e me la strinseforte e poi, cercando di sollevarsi, mi chiese di aiutarlo, di non abbandonarlo. Mi disse che altrimenti si sarebbe fatto dimettere subito e sarebbe andato a casa. Doveva evitare a tutti i costi che fossero altri a informarla,perché per la madre sarebbe stato un colpo troppo forte. 
Era preoccupato e non faceva che ripetermi che non gli restava altro dafare. Sua madre non avrebbe retto alla notizia, ne era certo. Ci era già passata ed era rimasta traumatizzata.
«Va bene. Dai, dimmi almeno come ti chiami e dove abiti. Vedrò cosa posso fare. Tu intanto rimettiti giù, rimanicalmo e lascia stare icolpi di testa. Conciato come sei, non ti puoi muovere».
Sentendomi rispondere così sembrò rasserenarsi, reclinò la testa sulla barellae mi bisbigliò il suo nome,l’indirizzo epoi chiese quando sarei tornata perfargli sapere come aveva reagito la madre.
«Domani, ma stai tranquillo, ci vado a casa tua. Passo ad avvertirla e vedrai chetua madre ti verrà a trovare prima di me. Noi ci vedremo domani pomeriggio, quando rimonto in servizio».
Gli stavo dicendo questoquando due infermieri inforcarono la sua barella e gli dissero che dovevano trasferirloin ortopedia. Io gli sorrisi, e mi venne spontaneo chinarmi e dargli un bacio sulla guancia, e salutarlo così. 
Appena all’aperto l’aria frizzante del mattino mi scrollò di dosso il torpore di quella nottata per certi versi strana, e subito mi misi in macchina per recarmi a casa di quel ragazzo.
Un viso scavato, pallido, mesto. Due occhi infossati e un nasone appuntito, rigido egrande come una vela in mezzo al mare, questa la figura della donnache mi venne ad aprire.
Sospettosa, mi squadrò dalla testa ai piedi e poi chiese cosa volessi. 
Non fu facile trovare le parole giuste. Le dissi che ero un’amica di suo figlio e che lui aveva perso il cellulare e che mi aveva pregato di avvisarla che… che… che aveva avuto un contrattempo, insomma un piccolo incidente con la macchina ed era ricoverato ma,ma nulla di grave. 
Non c’erano altre parole per dirglielo, o almeno io non riuscii a trovarne altre. 
Aggiunsi che ero un’infermiera dell’ospedale, e che era stato proprio suo figlio a pregarmi di andare da leiper avvisarla. Ripetei che non era nulla di grave, era ricoverato, masolo per accertamenti e per unpiccolo problema a un polso.
Il corpo della donna sembrò irrigidirsi. Immobile sulla porta, aggrappata allo stipite per non cadere, ebbe solo la forza di chiedermi se suo figlio era vivo. 
Io schiusi le labbra in un ampio sorriso e tornai a rassicurarla. Le dissi che lo avevo visto, ci avevo parlato, lo avevo medicato e che era stato proprio lui a darmi il suo indirizzo perché, aggiunsi, non voleva che lo venisse a sapere da altri.
«Aiutami per favore, avvicinami una sedia, mi sento male».
Mormorò,mentre cercava di aggrapparsi alle mie braccia, prima discivolare a terra.
Riuscii a rianimarla, le feci bere un sorso d’acqua, la adagiai sul divano e standole vicino continuai a rincuorarla e a dirle che suo figlio non aveva nulla di grave.Era ricoverato in ospedale,sì, masolo per lievi contusioni.
«Posso chiederti un favore?»
Io con il capo le feci cenno di sìe lei mi chiese se potevo aiutarla a vestirsi. 
«Vogli andarci subito in ospedale.Voglio vedere come sta. Avrà anche bisogno delle sue cose: pigiama, ciabatte, non so cosa gli possa servire, ma voglio andarci subito. Aiutami per favore».
Non guidava.Non sapeva come raggiungere l’ospedale, e allora la accompagnai io. E solo quando vide il figlio, finalmente riuscì a rasserenarsi un pochino. 
Lo baciò, lo accarezzò,e mentre con il dorso della mano si asciugava le lacrime, in silenzio continuava a guardarlo.
«Grazie».Disse Gianluca, rivolgendosi a me.
Poi anche la madre si girò e, come se si fosse accortasolo in quel momento della mia presenza,ringraziò anche lei.
«Ma di niente signora. Ora l’importante e che si rassereni. Come vede non ha nulla di grave.Suo figlio ha solo un polso fuori posto e qualche punto di sutura al braccio».
Lei non sapeva chi guardare mentre parlavo. Mi fissava e annuiva, e intanto accarezzava il figlio. Lo guardava epoi girava la testa verso di me.
Mi disse del marito, del trauma che aveva subito,l’ansiache aveva provato per la paura di non farcela da sola. Mi raccontò, e non so perché, che dopo la morte del marito aveva dovuto vendere la casa,tirata su con tanti sacrifici. L’aveva venduta a pezzo a pezzo, prima un piano e poi l’altro, per tirare avanti, per mandare alle superiori e poi all’università il figlio e che ora abitavano in affitto in quel piccolo appartamento di periferia, ma non le importava. Quello che contava era suo figlio. Gianluca era tutto ciò che le restava a questo mondo, concluse, continuando a guardarlo e adasciugarsi le lacrime.
Mentre Gianluca si stava assopendo, la madre mi parlava. O forse parlava a se stessa, ma intanto mi teneva la mano ed io non sapevo come comportarmi. Il mio compito eraterminato. Per farle piacere ero anche tornata in ospedale con lei, ma ora sentivo il bisogno di andare a casa. Ero stanchissima e in tutto quel trambusto avevo anche dimenticato di avvisare mia madre del ritardo che avrei fatto quel mattino.
Quando arrivarono i medici per controllare il decorso e le condizioni di Gianluca, io e la madre dovemmo uscire dalla stanza e allora presi coraggio e le dissi che si era fatto tardie che magari sarei tornata a trovarlonella serata.
Mentre parlavo, la signora annuiva, ma non ero certa che mi stesse ascoltando. Tenevasempre lo sguardo rivolto verso alla porta chiusa,e quando vide i medici uscire, andò loro incontro.
«Contusioni, qualche ferita, escoriazioni, piccola frattura a un polso. Dovrà restare ricoverato in osservazione». Le risposero.
Rientrammo nella stanza, e dissi subito che per me si era fatto tardi, tardissimo. Detti un altro bacio sulla guancia a Gianluca, salutai la signora, efinalmente tornai a casa.
Trascorsi il resto della giornata sonnecchiando, ascoltando musica, e intanto continuavo a pensare a Gianluca. A quel ragazzo di cui non sapevo nulla. A quel ragazzo che si era aggrappato a me come fossi stata la sua ancora di salvezza. Ero un’infermiera mi dissi, e non dovevo farmi coinvolgere emotivamente. Un paziente mi aveva chiesto un favore ed io lo avevo accontentato, e quello doveva bastare. 
Il pomeriggio successivo,arrivata in ospedale,prima di riprendere servizio, salii in ortopedia per andarlo a trovare, ma il suo letto era vuoto e intatto. Chiesi di lui al paziente che occupava da solo la stanzae questi mi disse che era andato via. Peccato, pensai. Lo avrei rivisto volentieri, ma comunque provai piacere nel sapere che era stato dimesso.
Arrivata al pronto soccorso,trovai una busta chiusa con scritto: per Ilaria, il mio nome. La aprii e dentro trovai un biglietto e lessi:“Grazie, Gianluca”. Richiusi la busta e pensai che magari avrebbe potuto sprecarsi un po’ di più, ma subito fui presa dal mio lavoro e non ci pensai più. 
Serata piena. Continui interventi e ricoverisino a fine turno. Poi, finalmente alle venti arrivarono i colleghi a darmi il cambio, e con loro arrivò anche la sorpresa. 
Con il polso sinistro ingessato e il braccioadagiatosu un foulard appeso al collo, ad attendermi accostato alla macchina,con una rosa, c’era Gianluca. 
«Ciao». Gli dissi. «Come sapevi che era proprio la mia questa macchina?»
«L’ho chiesto a mia madre, non mi ha saputo dire il modello, ma quando mi ha detto che era di colore rosaho pensato che non ce ne dovevano essere poi tante in ospedale di questo colore, ed eccomi qui».
«E come facevi a sapere che sarei smontata a quest’ora?» Gli chiesi, più per reprimere l’imbarazzo e per non far trapelare la gioia che provavonel rivederlo.
«Mi sono informato, ma possiamo andarea parlarealtrove?»
Mi chiese, stringendomi la mano,allungandomi la rosa e dandomi due baci sulle guance.
«Va bene. L’ospedale non lo puoi proprio vedere nemmeno dall’esterno». Gli risposi ridendo. 
«Ma il posto lo scelgo io, d’accordo?» Aggiunsi.
Salimmo in macchina e andammo a prenderci un gelato e poi parlammo a lungo, e intanto sentivo che anche il mio imbarazzo iniziale stava scemando. Mi raccontò di lui, degli ultimi due esami che gli mancavano per laurearsi. Volle precisare che era single e che gli aveva fatto molto piacere incontrarmi, sebbene in ospedale e in circostanze impreviste. Gli raccontai di me, del mio lavoro e aggiunsi che anch’io ero sola, poi, lentamente lo riaccompagnai a casa. 
Da quel giorno Gianluca venne a prendermi tutti i giorni al lavoro.Facevamo una passeggiata in macchina, prendevamo un gelato e poi lo accompagnavo a casa. Una volta però, prima di scendere,mi disse che alla madre avrebbe fatto piacere rivedermi, e così chiese se volevo entrare con lui per salutarla.Io gli risposi di sì e lo seguii. Ma non perché ci tenessi a salutare la madre,solo perpoterlo sentire ancora vicino, per stare ancora con lui.
La signora mi guardò,e non sembrò sorpresa di vedermi, ed era evidente che non voleva essere indiscreta, ma la domanda era rimasta nell’aria. Cosa ci facevo io lì da sola, a quell’ora, con suo figlio?
Da quel giorno a casa della signora, da sola o con Gianluca, ci tornai spesso. 
Ci fidanzammo e dopo la laurea Gianluca iniziò a lavorare e così ci sposammo. 
Ora la signora Marta è la nonna dei nostri due gemelli: Antonello e Gabriele, ma quando usciamo tutti e quattro assieme, mi metto sempre io al volante.
 


Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor