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Narrare l´indicibile

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

16
NOV
2012

 

Con “VERSO IL MARE CHE TACE” Giuseppe Goffredo prosegue con tenacia nel solco di una scrittura che, impregata della luce del Sud, dà voce a Sìsifo e Pavoncella per raccontare l’amore e il dolore.
 
Se non conoscessimo, letterariamente parlando, Giuseppe Goffredo da trent’anni,  saremmo portati a credere la sua ultima creatura artistica, “Verso il mare che tace” (Poiesis Editrice), una retorica e affabulatoria galleria di immagini che incantano il lettore, una mirabolante acrobazia linguistica che tocca un topos letterario eterno: l’amore. Ma noi Goffredo lo conosciamo dal 1979, da quando Dario Bellezza scriveva: “La poesia di Giuseppe Goffredo viene da lontano, matura nelle sue estati contadine”  e, aggiungeva Alfonso Berardinelli, “riesce a dire come fosse la prima volta”.  Lo conosciamo, quindi, da più di trent’anni e scorrendo la sua produzione, partita con Einaudi, passando per Mondadori, Stampa Alternativa,  Bollati Boringhieri ed altre case editrici nazionali, leggendolo intercettiamo senza esitazione alcuna la stessa immutata tensione: la caparbia voglia di raccontare la vita, i luoghi, i paesaggi, gli uomini e le donne, le passioni,  attraverso quella lente che amplificando i dati del reale per meglio osservarli, al tempo stesso ne sfuma i contorni perché  verità non sia mai data e, perciò, resti sempre forte  la spinta a ricercare il senso.  Per Giuseppe Goffredo, dunque, il linguaggio  letterario è accompagnato dallo sforzo di narrare l’inenarrabile.  In “Verso il mare che tace” il desiderio è stato quello di narrare l’amore, o meglio, il desiderio di quell’Amore che – come afferma l’autore stesso – “ci cambia la vita e ci permette di non morire, di sentirci vivi.”  Un percorso intrapreso con la raccolta in versi “Canto e oblio” nel 2010 e che con quest’ultima  produzione  ci rafforza nel considerarlo uno scrittore che non si arrende, nonostante abbia la consapevolezza di portare avanti battaglie civili e culturali impari. Suona sovversivo scrivere della fisicità dell’amore in un Occidente che, ostetandolo, esibendolo,  ha rimosso il corpo facendone un simulacro, un’immagine; ma suona ancor più sovversivo scrivere del dolore che, inevitabilmente, accompagna l’amore in una società che ha reso tabù anche la sofferenza, quasi fosse una colpa di cui vergognarsi e, pertanto, da nascondere, camuffare.  Temi indicibili, quindi, quelli narrati in “Verso il mare che tace” da due voci, una maschile e l’altra femminile, i cui nomi ci danno la chiave di lettura di questa “favola poetica”. Si tratta di Sisifo e Pavoncella. Del primo conosciamo il mito: condannato a far rotolare un enorme macigno sul fianco di una montagna, non appena raggiunge la vetta il masso rotola giù e a Sisifo non resta che ridiscendere per spingere nuovamente il masso fino in cima e tutto questo per l’eternità.  Il mito rivela l’assurdità del comportamento umano, la natura aleatoria dell’esistenza, l’impossibilità di scegliere una posizione e restarci in eterno, dal momento che tutto è destinato a cambiare. Ma il mito rivela anche la pazienza, la volontà di non arrendersi pur sapendo che gli sforzi sono vani. Quanto all’altra voce narrante, quella di Pavoncella, quindi la voce femminile,  ci è sembrata decisamente più interessante, anche alla luce dei significati simbolici che ad essa nel corso del tempo alcune civiltà hanno assegnato.  Cominciamo dalla Bibbia: nel Levitico la pavoncella, uccello regale, è menzionata come volatile impuro, soggetto quindi a tabù. I greci la consideravano inaffidabile, ambigua, infatti la chiamavano “poliplagktos”, ossia “colei che seduce con l’inganno.”  Nel Corano la pavoncella è depositaria dei segreti del re Salomone. Trasferendo il discorso sul piano del significato poetico la pavoncella è colei che camuffa il segreto ed è la sua discrezione a farne un uccello sacro.  Se la leggiamo quindi con tali riferimenti culturali, la vicenda narrata da Goffredo acquista una dimensione simbolica straordinaria. L’amore impossibile tra Sisifo e Pavoncella,  un uomo e una donna che non possono vivere se non nella clandestinità la loro passione, in quanto entrambi sposati,  diventa il pretesto per  svelare che l’incontro, nell’amore, fra un uomo e una donna risiede del “cercarsi”  nelle parole dell’altro attraverso cui ci si riconosce.  Parole che rompono quel silenzio che, inevitabilmente porta all’implosione dell’amore, alla solitudine, al dolore.  Ma i riferimenti culturali cui accennavamo ci permettono anche di collocare l’esperienza dell’amore come tenace forma di conoscenza, come strategia vincente che rende possibile sopportare la fatica del vivere quotidiano, questo trascinare su macigni per vederli poi tornare indietro e dover ripercorrere lo stesso tratto. E in questo reiterarsi di sforzi vani trarre energia dall’amore che allarga lo sguardo e ci riporta a noi stessi nel mondo.


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