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Mariangela Gualtieri/La sacralità della parola e del silenzio

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

29
MAG
2015
Nelle sue liriche c’è tutto l’abbandono alla nuda verità della poesia, alla sua capacità di aprire squarci nell’abisso del proprio sentire, svelando così la  quotidiana e inarrestabile fatica del partorire se stessi, in un caldo fluire dell’emozione che intreccia la parola all’esperienza
 
Mariangela Gualtieri, una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea, è anche  drammaturga e attrice teatrale, nel 1983 ha fondato il Teatro Valdoca  insieme al regista Cesare Ronconi. La poesia della Gualtieri è incontro, dono, scoperta, parola destinata a non consumarsi perché dotata di sacralità e silenzio ancestrale che diventa presenza, logos. Un dialogo intimo tra sovrumano e sub-umano celebrato in una lunga preghiera, un  profondo e ininterrotto inno di gratitudine a Madre Natura, alla meraviglia del Creato, alla sacralità degli esseri imperfetti che anelano luoghi fertili per far fiorire la propria anima, ma la sua poesia, come canto d'amore totale e totalizzante, non include solo la bellezza, contempla anche l’orrore, la solitudine dell’uomo, il lato ombra presente in ogni essere, le cicatrici umane, come taglio di dolore e rifiuto, dalle quali ripartire per rinascere più forti e veri. Un colloquio interiore autenticamente percepito e vissuto, capace di traboccare e irrompere in suoni che racchiudono l’intensità del sentimento, analizzato in tutte le sue sfumature.Ad immergersi nella profondità delle sue liriche si riscopre tutta la fatica del nostro imperfetto e antico viaggio umano, guidati dallo sguardo colmo di meraviglia e dal cuore  pensante e pulsante che deve indirizzare  i nostri passi, perché la  vita ha bisogno di un corpo per essere ed esistere e  noi dobbiamo essere dolci con ogni corpo che incontriamo e sfioriamo, a partire dal nostro. 
 
 
Cos'è l'esperienza della poesia per Mariangela Gualtieri e cosa significa essere poeta oggi, in questo determinato momento storico, caratterizzato da un vivere frenetico e spersonalizzato, da alienazione e allontanamento dell'essere da se stesso. Qual è la funzione etica dell'arte e della poesia?
«La poesia è un dono, un dono che accolgo ogni volta con sorpresa e gratitudine. Poi certo è tanto altro che non posso qui definire. Lei mi chiede della poesia oggi. Io credo che la poesia stia sempre stretta dentro lo spazio e il tempo perché la sua falcata è ben più lunga del proprio presente, è parola che nasce per non consumarsi, per attraversarlo, l’oggi, e andare più in là. Dunque c’è sempre un certo anacronismo nella poesia, ma anche la capacità e l’urgenza di parlare al proprio tempo con la lingua del proprio tempo. Poesia e arte connettono ognuno di noi con le grandi leggi che regolano l’universo, con le grandi forze che in questo istante fanno battere il mio cuore e quello di chi sta ascoltando. E dunque ci scaraventano lì dove non sappiamo, lì dove tutto si spalanca e si fa molto molto avventuroso, dandoci la preziosa misura di ciò che siamo e del posto che occupiamo nell’universo. Ma l’arte si è fatta merce, l’amore per l’arte spesso è idolatrico, mentre la poesia per fortuna resta fuori dal fare affari, continua ad essere terra feconda».
 
Lei ritiene possibile fare uscire la poesia dalla sua nicchia ed educare il grande pubblico all’amore per l’esperienza estetica e generativa della bellezza insita nella poesia?
«Nella nicchia non c’è solo la poesia, ci sono tutte le cose di qualità che nutrono lo spirito, ci sono tutte le cose che richiedono un’attenzione acuta, un esserci al presente e che nascono dalla necessità di esplorare il proprio petto. La reclusione nella nicchia di queste entità accade per motivi gravi ed enormi che riguardano la politica, la cultura e anche l’ombra che caratterizza l’umano. Educare, condurre fuori, appunto, fuori dall’ordinario è in fondo una questione amorosa: quanto una comunità ha cura dei propri giovani, dei propri bambini, della sapienza ed esperienza degli anziani? Quanto vuole tenere viva e salva la forza creatrice, la fecondità, la forza di pensiero, le intelligenze, le sensibilità, le vocazioni di tutti? 
La poesia trasforma il dolore in canto e in questo credo stia la sua bellezza. E dunque canta tutto, non solo la bellezza, anche l’orrore, anche tutta la nostra ombra». 
 
 La sua scrittura prende forma nel teatro dell'arte. Del resto il teatro è l’ambito della parola messa in scena in un grande atto d'amore. Cosa rappresenta l'esperienza del teatro Valdoca per lei?
«Il Teatro Valdoca e il lavoro con Cesare Ronconi sono la mia terra feconda, luogo di raccoglimento, di studio, di espressione, di incontro con gli altri e col mondo e anche luogo che genera ispirazione, non solo in me ma in tutti gli artisti che vi hanno lavorato. È un campo di forze, un punto bello del mondo, nel quale ho avuto la fortuna di sostare per tanti anni e di vivere l’amicizia, l’arte, l’impresa con altri artisti, l’avventura solitaria, il sodalizio, la paura e l’uscita dalla paura, il consenso e il fallimento, l’ebbrezza e il panico. Una grande scuola di vita protetta puntigliosamente dalla volgarità e dal rumore del mondo, eppure dentro il mondo, eppure innamorata del mondo».
 
 
L'assordante suono del silenzio in "Voci di tenebra azzurra" del Teatro Valdoca celebra la sacralità della parola che rivela attraverso i silenzi abitati dal canto della natura, dalla voce delle stelle, dalla luce della tenebra, dall'anima che comunica con il corpo e che come un ossimoro resta in bilico tra Eros e Thanatos. Questo è il silenzio ancestrale che diventa presenza, logos. In un vivere frenetico e colmo di caos, quanto conta il ritorno al silenzio e all'intima introspezione?
«Sì, il silenzio è minacciato. O potremmo dire che non è più dato un silenzio gratis, così come accadeva nella mia infanzia. Lì tutto era ancora immerso nel silenzio e da quello ogni cosa veniva verso di me, a me. Ora quel fondo non c’è, è cancellato dal frastuono degli umani e dalle loro faccende. Ma quel silenzio continua ad esistere, e può essere abitato: nella natura ad esempio, che continua ad essere lì e a traboccare di vita e ci chiama per essere adorata. Nella solitudine. E certo va cercato dentro la nostra testa, in una mente pacificata. Silenzio e solitudine: ecco due luoghi fertili per qualunque fare, tanto più se è fare artistico, per qualunque essere. Tutti i maestri ce lo hanno ripetuto e ancora ce lo ripetono, lì si accumula potenza, si accumula conoscenza e lì tutte le arti hanno la loro gestazione. Direi che il ritorno a questo è decisivo». 
 
 
"Ciò che ci rende umani" è un vero ritorno alla parola e al silenzio, dal quale la parola si genera e nel quale accumula la propria potenza feconda senza tuttavia dimenticare il respiro, il corpo, l'attenzione e l'alleanza con la terra e con la natura che ci circonda, perché Natura è madre, compagna, maestra di vita, poesia, bellezza e autenticità, è così?
«La Natura: bisognerebbe rinnovarla questa parola e mettercela dentro il cuore. Noi siamo natura che parla, natura che cammina, natura che pensa, che piange e ride. Quando capiremo che non c’è differenza fra noi e la natura, che noi siamo un modo di essere della terra, dell’acqua e che tutto il paesaggio è parte di noi, è in un certo modo ‘noi’, allora forse nascerà una vera arte ecosofica nella quale chi si prenderà cura dell’albero, saprà che si sta prendendo cura di se stesso. Ciò che ci rende umani tenta di tenere sveglia una città, un territorio, e si preoccupa della fecondità delle persone che ci vivono».
 
La forza della poesia può aiutare a sconfiggere la violenza nei confronti delle donne? Quanto conta, secondo lei, ripensare l'Essere Donna e “rifigurare” la bellezza della dignità femminile, ripristinando la vera immagine di donna, artefice della propria vita e del proprio futuro?
«La violenza sulle donne rappresenta per me il gran finale di millenni in cui la donna, cioè metà della nostra specie, è stata avvilita, considerata inferiore e soprattutto le è stato impedito di esprimersi, nella vita, nel lavoro e nell’arte. Basti pensare che il voto alle donne è arrivato in Italia nel 1946. 
E ci sono stati grandi filosofi, grandi dotti e anche Padri della chiesa che, con convinzione, hanno ritenuto la donna un essere inferiore e pericoloso. Questo resta nella memoria collettiva, e in soggetti più deboli - e anche forse in soggetti che hanno avuto vicende difficili – si esprime come impossibilità ad accettare il libero arbitrio femminile, come violenza che spesso nasce appunto dal non tollerare un abbandono, una autonomia di scelte e di vita. Poi c’è violenza e istigazione alla violenza anche nel modo in cui l’immagine della donna viene proposta quotidianamente, dalla pubblicità, dalle trasmissioni televisive, dalle riviste ecc. Immancabili quei corpi per sostenere la vendita di oggetti di qualunque genere.
Forse è ora di cominciare a pensare in termini di persone e in termini di specie: siamo una specie e le diversità di genere sono necessarie e arricchenti, maschile e femminile ognuno li porta in sé.
La poesia ci dice che ci sono donne poeta, ci dice che oggi ce ne sono tante e molto capaci: forse la miglior poesia oggi è scritta da donne. E dunque ci fa intendere che sempre ce ne sono state, senza però che potessero scrivere. Il soffocamento di queste energie immense, che devono essere state meravigliose, ha di certo contribuito a generare una massa di tossine e d’ombra, la stessa che ora ci fa apparire l’umano come qualcosa di malato, di violento e troppo imperfetto. Ma io penso che, nello sfacelo generale, possa nascere qualcosa di nuovo e inimmaginabile, grazie ad una nuova concezione della persona umana, pienamente femminile, pienamente maschile, pienamente ibrida quando e se lo vuole». 
 


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