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Anna Paola Lacatena/L´Io, l´Altro e la speranza

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

29
MAR
2013

 

La Dirigente del Dipartimento Dipendenze Patologiche Asl di Taranto parla di un’umanità sofferente, di violenze, di dipendenze ed egocentrismo, e lo fa da sociologa ma anche da scrittrice
 
Come una pallottola sparata a distanza, colpisce dritta nel segno, rimbomba come l’eco di uno sparo e ti ammutolisce. La sequenza è la stessa, il dolore non c’è, la pallottola è una verità, il punto ferito è la nostra consapevolezza. C’è una frase di questa intervista che riproduce lo stesso effetto, inchiodandosi  nei meandri del pensiero: «se avessimo la capacità di incontrare l'Altro in maniera meno egocentrica, ci guadagneremmo tutti di più». In un attimo scopri che quell’affermazione è vera e che bisogna ripartire proprio da lì per recuperare prima di tutto un contatto con sé stessi: alienati dalle nostre emozioni, preferiamo cedere a degli stereotipi relazionali che prescindono dalle nostre effettive necessità interiori. C’è una tale profondità nelle parole della dott.ssa Lacatena, Dirigente Sociologa presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche Asl di Taranto, che non è solo testimonianza di una grande preparazione e competenza professionale, ma anche emanazione diretta di una sana passione per il proprio mestiere. Un mestiere che da anni si intreccia alle pagine dei suoi libri, volti all’approfondimento di svariate tematiche sociali, affrontate con il rigore scientifico tipico della sua figura e la sensibilità del suo essere donna. 
Dott.ssa Lacatena, mi piacerebbe partire proprio dalla sua attività di scrittrice: i suoi libri affrontano tematiche sociali molto attuali, dalle quali si evince un forte legame e una grande passione per la sua professione di sociologa, conferma?
«Confermo pienamente. Ho la fortuna di mettere nel quotidiano il profilo professionale per il quale ho studiato e di questi tempi, soprattutto per un sociologo, non è molto frequente. Sono anche consapevole che per le scienze umane, e con queste non intendo solo la Sociologia, ma anche le sue due sorelle, ossia l'Antropologia e la Psicologia sociale, lo studio e l'approfondimento non sia mai abbastanza: è evidente che si procede per dubbi, più che per certezze. Ho una profonda curiosità per le persone e per le dinamiche che riescono a disegnare nel loro interagire e questo, forse, lo devo ad un'infanzia trascorsa in un locale pubblico: i miei avevano un ristorante e si intuiscono tante cose da come la gente si comporta a tavola».
L’ultimo suo romanzo, Due volte ti amo anzi tre, invita ad amare senza paure e a vivere liberamente le proprie emozioni: secondo Lei quali sono i freni che attualmente ci impediscono di seguire questo vademecum?
«Credo che il grande limite sia nel dilagare di una sorta di narcisismo esasperato: "come dico io e quando voglio io!". Amare, per quello che nel mio piccolo spero di aver compreso, credo sia la sua esatta negazione. Se avessimo la capacità di incontrare l'Altro in maniera meno egocentrica, ci guadagneremmo tutti di più, ma purtroppo sembra di assistere al trionfo dell'imposizione sull'Altro e delle proprie pretese. Poco ascolto, poca voglia di raccontarsi in maniera autentica, poca conoscenza di sé e di quell'irrisolto che, promanando dalla nostra storia personale, proiettiamo sugli altri. Un grande spreco di infinite possibilità di benessere reale, inseguendo un'ideale di sé e di chi abbiamo accanto, faticoso e inutile».
Tra i suoi scritti si evidenzia un’attenzione particolare alla realtà del carcere e questo romanzo è dedicato proprio alle madri detenute, spesso impossibilitate a vivere un rapporto con i loro figli: in questo caso come si svolge il loro ruolo genitoriale?
«La storia di Due volte ti amo anzi tre non è ambientata in carcere, sebbene la paura di amare faccia pensare di vivere in una sorta di cella di isolamento. I proventi delle vendite andranno a Terre des Hommes, un’ associazione non governativa per la difesa dei diritti dei bambini. A tal proposito, mi permetta di ringraziare questa importante realtà per aver scelto di affiancare, per questa iniziativa, il loro nome al mio. In realtà questo libro è stato preceduto da Dal tossicodipendente de jure alla persona de facto: una ricerca condotta sulla popolazione tossicodipendente della Casa Circondariale di Taranto. Pensavo che gli eroinomani, soprattutto, fossero un po' l'ultima ruota del carro del sistema carcerario e, invece, ho scoperto che ci sono tanti bambini in carcere con le loro madri. Non credo di fare chissà quale scoperta nel dire che i primi anni di vita siano fondamentali per l'intera esistenza di qualsiasi individuo. Pensare che in un Paese moderno e tra i più industrializzati, la prima socializzazione si possa compiere nel 2013 all'interno di un'istituzione totale è davvero grave, da qui l'idea di contattare e sostenere Terre des Hommes che da anni si batte per evitare che questa vergogna prosegua».
Rimanendo in tema di donne, ho letto alcune sue riflessioni a proposito del legame tra tossicodipendenza e violenza sessuale. Lei afferma che l’assunzione di sostanze stupefacenti può essere sia causa che effetto di esperienze di violenza e di molestia sessuale: ci spieghi meglio questo concetto. 
«Nel libro Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale, ho provato a chiedermi e a chiedere alle donne del Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto se nel loro vissuto, precedente all'avvio della carriera tossicomane, fossero presenti episodi di violenza e di molestie sessuali e il dato ha confermato l'idea di una percentuale piuttosto significativa. Strada facendo, però, mi sono accorta che chiedendo se lo stesso tipo di esperienza fosse stata presente anche dopo lo stabilirsi della dipendenza patologica, queste donne facevano fatica a distinguere. Da qui l'idea che in un percorso di svalorizzazione di sé, nel bisogno di altra sostanza, è come se diventasse comune l'idea che faccia un po' tutto parte del ‘gioco’, come se non fosse più violenza. Personalmente credo che ogni scambio droga-sesso sia coatto. La dipendenza patologica è una malattia, così come definita dall' Organizzazione Mondiale della Sanità: approfittare di questa condizione è commettere un abuso. Mi rendo conto che, in generale, la strada della costruzione di un vero rispetto per la donna necessiti di importanti virate culturali e nella fattispecie della donna tossicodipendente, anche da parte degli stessi operatori del settore».
Negli ultimi anni sì è sviluppata una consapevolezza maggiore riguardo alla violenza sulle donne, basti pensare all’introduzione di reati come lo ‘stalking’: si tratta di un fenomeno ampiamente dibattuto e spesso ci si è interrogati sulle cause che inducono l’uomo a esercitare questa violenza. Ma la cronaca ci mostra anche numerosi casi di donne violente non solo verso il loro genere, ma anche e soprattutto verso i loro figli: cosa porta una madre a stroncare in modo così brutale un legame così forte?
«Da sociologa faccio fatica a dare per buona l'idea dell'esistenza di veri e propri "istinti". Il rapporto tra una madre e un figlio si costruisce, ma se le condizioni psicologiche, sociali, culturali della donna sono fortemente problematiche, credo che una relazione giustamente amorevole e accudente non possa non risentirne, a volte in maniera tragica. Bauman, sociologo di fama mondiale, ci dice che impariamo ad amare, diventando persone capaci di tale sentimento, anche e soprattutto in ragione dell'amore che noi stessi abbiamo ricevuto. La nostra esperienza ci insegna, però, che donne poche amate e con storie difficili alle spalle sono state madri straordinarie: credo non si tratti della norma, ma di esempi di grande resilienza».
 
 
Lei è sociologa presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche Asl di Taranto, quali sono le procedure principali da svolgere all’interno dei vostri programmi terapeutici? 
«I Ser.D., Servizi per le Dipendenze Patologiche, sono presenti in tutto il territorio dell'Azienda Sanitaria Locale di Taranto. Si tratta di Servizi ad accesso diretto, dove è possibile mantenere l'anonimato ricevendo cure specifiche. Il personale è composto da medici e infermieri, psicologi- psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori, personale amministrativo e naturalmente sociologi. Ci si occupa di dipendenze da sostanze (legali e illegali) e di dipendenze senza sostanze o comportamentali (gioco d'azzardo patologico, dipendenza da tecnologia ecc.). Dopo l'iniziale diagnosi ogni programma è personalizzato sulla scorta delle valutazioni dei professionisti e delle esigenze della persona».
Tra le varie competenze dei Ser.D. c’è anche un servizio di prevenzione e informazione tra i giovani? Per quanto riguarda la tossicodipendenza quanto è alta la sua incidenza tra le fasce d’età più piccole?
«Non abbiamo un servizio ad hoc per i giovani, ma proviamo ad incontrarli nei loro luoghi consueti: da quelli dell'aggregazione e del divertimento, alle scuole e alle palestre. Da anni, anche in collaborazione con altri Dipartimenti e Servizi della ASL, cerchiamo di fare prevenzione e informazione sul territorio. Per i più giovani più che di vere e proprie dipendenze, bisogna parlare di uso e abuso. Credo che le sostanze più diffuse siano l'alcol e la cannabis, sebbene un'attenzione tutta particolare meriterebbe il rapporto tra giovani e tecnologia. Un altro importante settore è quello delle malattie sessualmente trasmissibili che rimanda alla questione dei comportamenti a rischio».
Quando parliamo di disturbi da dipendenza, spesso valutiamo solo quelli che riguardano l’uso di sostanze stupefacenti, ma quante altre forme di dipendenza esistono attualmente? 
«Potenzialmente tutto potrebbe innescare una dipendenza patologica. Diciamo che quelle più diffuse al momento e, forse, più capaci di creare rischi gravi per le fasce giovani sono l'Internet Addiction Disorder, con possibili esperienze di cyberbullismo, stalking, pedofilia e adescamento online, ma anche la Cyber Relation Addiction, pensi ai tanti social network, e la Cybersexual Addiction con i tanti siti porno  accessibili a tutti e, dunque, anche ai minori».
Dott.ssa la sociologia nasce un po’ in risposta alla crisi degli equilibri consolidati dell’uomo, messi in bilico da numerosi avvenimenti storici. È evidente, che ora più che mai sia ripiombato questo senso di precarietà: ritiene che sia possibile una via d’uscita a questo ‘male di vivere’ così come recitava Montale?
«Sì, contro ogni forma di nichilismo, sono ottimista ma a una e, a mio avviso, imprescindibile condizione: accorgersi di più dell'Altro, uscendo dall'isolamento del troppo Io e di un certo familismo. Mi permetta di concludere con una frase di Don Andrea Gallo, sacerdote di strada, impegnato da sempre nella causa degli ultimi, che mi ha fatto dono della prefazione del libro sulla violenza sulle donne: "Il male urla, ma la speranza grida più forte"». 
 



Commenti:

Melle leonardo 6/MAR/2014

Io ho avuto la fortuna di conoscerla personalmente, mai conosciuto in vita mia una persona ,grande umana eccezionale semplicemente meravigliosa (dottoressa ti ringraziero per tutta la mia vita) il tuo paziente "diversamenteincavolato"

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