Ha percorso più di seimila chilometri a piedi. Unico bagaglio, uno zaino e una chitarra. Perché quello che serve per la nostra tecnologia vuol dire morte nel suo Paese. Ora è a Taranto, città che al Congo è accomunata da un destino simile
“Peace Walking Man”: l’ingegnere informatico congolese marcia percorrendo chilometri a piedi incontrando associazioni, istituzioni e persone con l’obiettivo di catalizzare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica internazionale su ciò che da tanti anni accade nel suo paese, la Repubblica Democratica del Congo. Più di 7 milioni di morti in oltre venticinque anni di sanguinose guerre tra Congo, Ruanda, Uganda, Zimbabwe, Angola e gli altri Stati africani per interessi economici legati al controllo e all’accesso delle preziosissime materie prime come il petrolio, i diamanti, l’oro, lo zinco e i minerali come il Coltan.
Qual è lo scopo della sua iniziativa?
«Sensibilizzare l’opinione pubblica al dramma che vive il popolo congolese spiegando soprattutto ai ragazzi che incontro nelle scuole quanto tutti noi siamo inconsapevolmente legati a questo paese sconosciuto e quanto le nostre vite e il nostro benessere qui in Europa siano legati alla morte di altre persone nel Congo ma anche nell’intera Africa. Le apparecchiature tecnologiche ultraleggere che usiamo oggi sono costuite utilizzando il Coltan, un minerale la cui produzione arriva per l’80% proprio dal Congo. Un semiconduttore pregiato ricercato che costa quanto i diamanti ma nel Congo è una sabbia nera radioattiva che si raccoglie a spese della salute di uomini e bambini e si vende dal Congo quasi gratuitamente perché l’estrazione è illegale ed è gestita dai ribelli finanziati dalle multinazionali. Pochissimi sanno che l’Italia è il secondo fornitore di armi in Siria dopo la Francia».
Quando ha deciso di dedicarsi esclusivamente alla sua missione?
«Due anni fa, tornato a casa da Bruxelles, ho trovato nella mia casella di posta elettronica oltre cinquanta mail di richiesta di incontri da parte di scuole in Italia e in Olanda. Mi sono detto: “come faccio?”. Ho parlato con i dirigenti del Comune di Reggio Emilia dove lavoravo per cercare di far coesistere il mio lavoro e la mia missione di pace. Abbiamo concordato di trasformare il mio rapporto contrattuale in modo da essere libero dal giovedì al sabato garantendo la reperibilità telefonica lavorativa. Poi però ho dovuto fare una scelta perché non potevo gestire entrambe le cose e ho dovuto lasciare il lavoro per proseguire il mio cammino».
Qual è il messaggio che intende dare?
«Il discorso del Coltan nel Congo vale quanto il petrolio e il gas in Siria e in Iraq. Dobbiamo ricominciare a parlare di pace perché non è vero che la pace non sia possibile. La pace deve partire dalle nostre famiglie, dalla scuola e dagli ambienti di lavoro e dall’abolizione delle armi. Per questo parlo soprattutto ai giovani. Loro sono il futuro e noi oggi dobbiamo dare a loro gli strumenti per poter cambiare le cose domani».
Crede sia realizzabile portare la pace nel suo paese ?
«Certo. Alla Comunità Internazionale si chiede la tracciabilità dei minerali tramite apposita documentazione che indichi dove sono stati estratti. In questo modo si eviterebbe di finanziare i ribelli e si permetterebbe di sapere da dove arrivano i prodotti acquistati, dove vanno a finire e a quali costi, e di punire in caso di inadempimenti. Il Parlamento europeo sta lavorando su una legge sulla tracciabilità che chiediamo ormai da due anni. Si sta pure lavorando affinchè si predisponga il riciclo delle apparecchiature elettroniche non più funzionanti che oggi vanno a finire di nuovo in Africa dove si trova la più grande discarica del mondo. Sicchè come nel Congo i bambini fanno i minatori per prendere il Coltan - che è radioattivo - e muoiono di cancro, anche in Ghana e in altri paesi muoiono di cancro perché respirano la diossina sprigionata dalla combustione dei materiali elettronici in disuso che avviene nelle grandi discariche».
Il bilancio della tua iniziativa fino a oggi ?
«E’ positivo, sono molto soddisfatto perché ho incontrato tantissime persone. Il messaggio sta arrivando, si può sempre fare di più ma sono contento. Recentemente ho incontrato scuole di Grottaglie e di Taranto ma anche associazioni, chiese, e come dicevo prima il Parlamento europeo. Il 23 settembre 2014 ho incontrato anche il Papa perché penso che la Chiesa debba fare la propria parte. Non può limitarsi a raccontare, spiegare e a tradurre una parabola pronunciata duemila anni fa senza renderla attuale e senza spingere le persone a svegliarsi. Siamo stati anche a Roma a spiegare queste cose alla Commissione Diritti Umani e a chiedere l’aiuto anche dell’Italia a combattere i dittatori che provocano guerre e morti in Africa. Io giro anche con un medico siriano perché il discorso non riguarda solo il Congo ma è un discorso che coinvolge l’Africa, i paesi sfruttati, l’Italia. Io sono stato al sud, sono vissuto a Napoli, sono stato a Rosarno, ho anche incontrato i ragazzi africani che si trovano nei centri di accoglienza, ho dato loro anche dei consigli. Gli ho detto di studiare la lingua, di integrarsi, di interagire con la popolazione, dove possibile. E’ pur vero che molti di loro sono letteralmente buttati in massa in piccoli paesi o piccoli centri esclusi dal mondo in condizioni che creano disagio».
Sta riscontrando attenzione tra la gente ?
«Non mi aspettavo un’accoglienza e una sensibilità così forte nel Salento e a Taranto. Qui sono nate delle cose che non avrei mai immaginato. La gente chiede degli incontri e questo è molto importante».
E le istituzioni ?
«Devo dire che trovo sensibilità anche da parte degli enti locali. Ovviamente passare dalle parole ai fatti è un’altra cosa. Di solito chiediamo di partecipare al Consiglio comunale e talvolta, quando ci danno la possibilità di farlo, come è avvenuto a Bologna e a Rimini per esempio chiediamo di inserire nell’ordine del giorno la discussione della pace per chiedere il rispetto da parte del Comune dell’art. 11 della Costituzione (che riportiamo testualmente: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”, NdR)».
Ha riscontrato differenze da nord a sud ?
«Molte amministrazioni ci hanno dato la possibilità di parlare in tutta Italia. Magari in alcune occasioni non abbiamo parlato direttamente con il Sindaco ma col vice Sindaco o con gli assessori».
Taranto come Lei sa è vittima delle “distrazioni” della gente e delle istituzioni, delle prepotenze dello Stato che ha invece attuato i decreti “Salva-Ilva” e spinge per far partire il progetto Tempa Rossa, e della Chiesa che non si è certo prodigata né attivata per sensibilizzare le coscienze. Trova che ci siano delle similitudini con le vicende africane ?
«Certamente sì. Io temevo di tirar fuori i discorsi legati all’Ilva ma sbaglierei a non parlarne perché ciò che sta accadendo nel Congo potrebbe presto accadere anche qui a Taranto e nel Salento se la gente non si unisce seriamente per evitare il disastro. Siamo sempre il sud rispetto a qualcuno. C’è un proverbio africano che dice “Quando gli elefanti combattono, chi ne fa le spese è l’erba”. Chi soffre sono sempre i deboli, tuttavia potrebbe essere troppo tardi soprattutto a Taranto ma è ora di mettersi in marcia tutti insieme, l’ho spiegato anche alle maestre a scuola. Si preferisce distruggere tutto ciò che la natura ha regalato a queste terre in nome dell’industrializzazione e della gestione del petrolio con le trivellazioni che provocano inquinamento. Il mare, il sole, il vento sono invece elementi naturali da cui si può trarre elettricità ed energia e si dovrebbe puntare su questo. Un giorno, nel prossimo futuro, nessuno sceglierà queste zone per passare le proprie vacanze se si continuerà su questa strada».
Una domanda che le fanno più spesso?
«Soprattutto le associazioni mi chiedono se ho dei progetti in Congo ma a loro rispondo di no proprio perché la mia missione è quella di far conoscere la situazione per trovare delle soluzioni. I Comuni mi chiedono invece cosa possono fare di utile e io gli rispondo semplicemente di pensare al proprio popolo, soprattutto ai ragazzi, predisponendo degli incontri con la gente per sensibilizzarla a ciò che accade nel mondo. Io a loro non chiedo nulla di particolare se non di creare opportunità per i giovani in modo che domani possano guardare in modo diverso anche l’Africa».
Cosa le lasciano i posti dove si ferma?
«Ogni posto è diverso. Quando sono stato in Sardegna mi hanno raccontato quanti popoli sono passati da Cagliari (circa una ventina). Parlando con il Presidente del Consiglio regionale riflettevo sul fatto di come potrebbe mai essere razzista uno di Cagliari. Nel Salento ho trovato un calore che mi ha fatto sentire parte di quel posto. Ma più che nei posti sono stati gli incontri nelle scuole che mi hanno fatto uscire da ognuno di questi come una persona più giovane dei ragazzi che ho incontrato».
Gli europei cosa possono fare?
«Possono cominciare per esempio a comprare eticamente, ossia chiedersi su quale sia l’origine di ciò che si sta per acquistare. Le istituzioni europee invece possono tornare a combattere seriamente per il rispetto dei diritti umani. Vede, vent’anni fa tutti erano contro i cinesi perché non rispettavano i diritti umani. Oggi i cinesi sono in Europa e nessuno si permette più di parlare contro la Cina, eppure le violazioni dei diritti umani in quel Paese continuano ancora oggi e la stessa Cina è un Paese conquistatore in Africa».
Il cambiamento degli africani da cosa deve partire secondo lei?
«Dall’unione di intenti tra i vari Stati che devono fare fronte comune con una buona politica fondata sulla democrazia che deve essere garantita anche dalle istituzioni internazionali. Nel Burkina Faso, stato dell’Africa Occidentale, i giovani sono riusciti a far scappare un Presidente che voleva cambiare la Costituzione per avere un altro mandato».
Tornerà un giorno nel suo paese?
«Ho lasciato tutto qui perché tra due anni voglio tornare in Africa dopo aver completato il mio percorso di sensibilizzazione in Europa».
La domanda nasce spontanea: senza un lavoro come fa a vivere ?
«Bella domanda. Come vede oggi (e ieri) mi trovo in un centro di accoglienza per immigrati, e domani anche. Io credo nella Provvidenza, tuttavia ovviamente non voglio far passare il messaggio sbagliato che io vada in giro per vacanza e che si possa vivere anche senza lavorare. Assolutamente bisogna lavorare. Quando faccio una marcia lunga la preparo prima e cerco un posto che possa offrirmi un letto dove dormire e quando non riesco a trovarlo vado a riposare a mie spese da qualche parte con ciò che ho messo da parte lavorando in questi anni. In futuro spero di organizzarmi in modo da avere una struttura che possa agevolarmi in questo senso».
Quanti km ha percorso a piedi da quando ha cominciato?
«Più di seimila chilometri. Pensi che l’anno scorso ho regalato la mia automobile perché non aveva più senso averla per me».
Le prossime tappe ?
«Con la mia chitarra e i miei 17 kg di peso proseguirò il mio cammino e sarò in Calabria, passerò anche da Rosarno e sabato 20 dicembre arriverò a Reggio Calabria. Mi fermerò due, tre giorni e poi tornerò di nuovo a Reggio Emilia e a Parma. Il 26 sarò a Maastricht per un incontro. A metà gennaio 2015 invece riprendo il giro per le scuole in Emilia Romagna perché essendo passato da lì in estate, le scuole erano chiuse e non ho potuto incontrare molti ragazzi. Mi hanno contttato per chiedermi di ripassare da lì e sto preparando il calendario per organizzarmi da gennaio 2015 fino alla fine di marzo. Ad aprile riprenderò la marcia da Reggio Emilia verso l’Europa passando per il nord-est d’Italia per giungere a Varsavia e poi a Helsinki in Finlandia dove si trova la Nokia che utilizza il Coltan. I finlandesi hanno saputo che non è etico il modo in cui “nascono” le apparecchiature elettroniche e hanno intenzione di chiedere conto al colosso delle telecomunicazioni e mi hanno chiesto un incontro per saperne di più. Nel 2016 sarò in Africa e spero per restarci perché l’Africa deve essere il futuro e magari per fare lì ciò che ho fatto in Italia. C’è voluta una generazione per far capire che l’apartheid fosse finita e ho bisogno di andarci per incontrare le persone anziane e i meno giovani che hanno vissuto questo crimine contro l’umanità per parlare con loro».
Ingegner Mpaliza, le auguriamo e ci auguriamo che la sua missione abbia il successo che merita.
«Grazie, lo spero ricordando che la pace non può prescindere dalla giustizia e la giustizia dal perdono perché se si riesce a perdonare come hanno fatto in Sudafrica allora sì che si è in pace con gli altri».