MENU

SETTIMANA BIANCA

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

30
DIC
2015

Quando squillò il cellulare di mia moglie stavamo seduti sul divano a seguire il ripetersi delle notizie dei telegiornali. Lei aprì la comunicazione e andò ad eclissarsi in un’altra stanza, e per una buona mezz’ora stette a conversare cordialmente con qualcuno. Quello che cominciò a farmi preoccupare furono i suoi ripetuti: “Sì sì, va bene. Ok ok, fate voi. D’accordo! Sì sì, ci stiamo. Predisponete tutto e poi fateci sapere. Ok, rimaniamo così. Ciao ciao.”

Quando tornò a sedersi in salotto, già consapevole che quei suoi sì sì e ok ok avrebbero coinvolto sicuramente anche me, le chiesi: “Chi era?” “Mio fratello e poi Anna” Rispose “E che volevano?” “Stanno organizzando una settimana bianca e hanno chiesto se potevano prenotare anche per noi.” “E tu cosa hai risposto?” “Ho detto di sì, ok. Che potevano farlo.” “E quale sarebbe il periodo di questa settimana bianca?” “Dal 23 dicembre al 2 gennaio”. “Ma allora non si tratta di una settimana, ma di 10 giorni.” “Sì, abbiamo preferito così. Per una settimana non valeva la pena. Non ci sarebbe stato il tempo nemmeno per aprire le valige.” “E dove si dovrebbe trascorrere questa settimana di 10 giorni?” “A Madonna di Campiglio. Mi rispose riprendendo il suo cellulare e mandando Whats App a destra e a sinistra per far rimbalzare la notizia.

La sera del 22 dicembre, rientrando a casa dall’ufficio, la trovai che scompariva e ricompariva tra le ante degli armadi. Era indaffaratissima e la stanza da letto sembrava fosse stata messa a soqquadro dai ladri. “Perché quattro valigie, se siamo solo noi due?” Chiesi timidamente. “Come perché? Non sai dove andiamo? Ci dobbiamo portare l’abbigliamento pesante e quello da sci: giacconi, maglioni, calzettoni, scarpe e la cambiata per 10 giorni. In più gli abiti per la notte di capodanno. Vai di la vai, se no mi fai solo perdere tempo.”

Partimmo la mattina successiva verso le 5. Era ancora buio, la temperatura sui 9 gradi e lo scirocco notturno stava ancora bagnando strade e le auto parcheggiate. Man mano che ci allontanavamo dalla Puglia il display sul cruscotto della macchina faceva segnare temperature sempre più basse, sino ad arrivare sotto zero una volta giunti a Madonna di Campiglio. La mattina dopo, nella sala caffè dell’hotel, infagottati e impediti da un supplemento eccessivo di vestiario, sembravamo tutti tanti boccheggianti palombari di montagna.

Prima di metterci in cammino per le piste, chiesi a mio cognato come ci dovevamo regolare per il pranzo. “Quale pranzo? Ho concordato la mezza pensione da consumarsi la sera.” Mi rispose lui. “Scusa Enzo, ma l’altra mezza dove l’hai lasciata?” Domandai untuosamente. “Ma secondo te”, replicò, “avremmo dovuto perdere due ore di luce per pranzare? Meglio sfruttarle sulle piste, non trovi? Ci accontenteremo di mangiare un panino in seggiovia, mentre risaliamo, poi a cena ci rifaremo.” Salendo in macchina stavo pensando a come avrei potuto fare per eclissarmi durante le discese e pranzare al caldo, magari in un accogliente ristorante.

Arrivò così il 24 e, sempre mio cognato, a cena se ne uscì con una delle sue folgoranti idee: “Dopo rimaniamo giù a farci un pokerino o una partita a burraco. Alle 23:30 ultimo giro e poi tutti alla messa di mezzanotte. Così facciamo il nostro dovere di cristiani e domani siamo liberi di stare tutto il giorno sulle piste.” Sentendo quelle parole mi si chiuse lo stomaco e lasciai cadere le posate nel piatto. Mentre gli altri si attardavano a giocare a carte, io salii in camera mia con la speranza di essere dimenticato e così poter leggere in pace uno dei libri che mi ero portato da casa. Invece, puntuale come una rata del mutuo, alle 23:40, mentre mi ero addormentato con il libro aperto abbandonato sul petto, entrò nella stanza mia moglie: “Dormi? Ma lo sai che dobbiamo andare a messa. Alzati che è tardi.” In strada mi girai a guardare il barometro appeso all’esterno dell’hotel: segnava 11 gradi sotto zero ed anche in chiesa la temperatura non variava di molto. 

Mentre il prete predicava di famiglia, figli, lavoro e comunione con la chiesa ed io, battendo i denti rumorosamente e sacramentando silenziosamente, mi chiedevo cosa ne potesse sapere lui, entrato in seminario a 15 anni, di famiglia, figli e lavoro, venni distolto da qualcuno che mi stava strattonando. Era una signora anziana, un po’ curva e con i capelli bianchi che le uscivano da sotto la cuffietta di lana: “Ci dobbiamo scambiare il segno della pace.” Mi disse .“Mi scusi signora, ma quando abbiamo litigato per doverci scambiare il segno di pace?” Volevo dirle così, ma stetti zitto e, approfittando dell’occasione per muovermi un po’, mi chinai verso di lei e le sorrisi. La signora, incurante, o forse non capendo il mio gesto, mi prese l’avambraccio con la sinistra e stringendomi la mano con la destra mi scosse così violentemente che mi fece traballare. ”Sia lodato Gesù Cristo. E’ consuetudine. Un rito.” Concluse. Io mi svincolai con un altrettanto vigoroso “Sia Lodato” e poi tornai a concentrarmi sull’alito condensato che a ritmo regolare usciva dalla mia bocca.

Il pranzo di Natale, come stabilito da mio cognato, lo consumammo in seggiovia e la serata, all’insegna di scambio di auguri, sorrisi e cortesie, la trascorsi quasi tutta a tavola perché trattenuto ad ascoltare le imprese sciistiche di quanti avevano ancora la forza inesauribile di raccontare. Il mattino successivo scendendo per la prima colazione incontrai un signore, anche lui ospite dell’albergo, che procedeva aiutandosi con un bastone e trascinando una gamba. Disse che si era slogato la caviglia sciando. Io, pensando che lui sarebbe rimasto in albergo al caldo, non potei fare a meno di odiarlo. 

Giunto nella sala caffè, vidi che i presenti, tutti in piedi, stavano guardando oltre i finestroni, mentre un cameriere gli stava informando che sopra i 2000 metri era in atto una tormenta di neve e che pertanto gli impianti di risalita, quel giorno, sarebbero rimasti chiusi. – No, nemmeno se smetteva di nevicare si potevano aprire. Prima sarebbero dovuti intervenire i gatti delle nevi per livellare le piste. - “Forse domani, se il tempo migliora”, concluse. Tirando un grosso sospiro di sollievo e mormorando un “Sia lodato Gesù Cristo”, mi sedetti a sorseggiare beato il mio caffè. Nel pomeriggio, appena le prime ombre si addensarono sul paese, a mio cognato venne un’altra delle sua brillanti alzate di ingegno: “Andiamo tutti a vedere i mercatini di Natale.” Ci informò, lasciando le carte da gioco sul tavolo e invitandoci a fare altrettanto. “E dove dovremmo andare a vedere questi mercatini?” Chiesi preoccupato. “A Trento. Mezz’ora di strada”. Rispose lui. 

A Trento, causa strade ghiacciate e traffico intenso, ci arrivammo dopo tre ore e i mercatini natalizi erano identici a quelli di Madonna di Campiglio e delle vicine Pinzolo e Folgaria. Dopo aver girato in largo e in lungo il centro storico della città, bevuto vin brulé, mangiato dolci austriaci e congelati come dei Findus, ci rimettemmo in macchina per tornare. Quando rientrammo, a notte fonda, notati i fari dei gatti delle nevi che stavano livellando le piste e io pensai sconsolato a cosa mi aspettasse il giorno seguente.

Per il cenone di capodanno mia moglie tirò fuori dalla valigia il mio abito scuro, camicia con gemelli, papillon e quelle maledettissime scarpe laccate che sempre mi avevano fatto un male del diavolo. Vestito, pronto e non sapendo cosa fare, le dissi che l’avrei attesa giù al bar. Lei, con ai piedi scarpe con tacco 12 e in mano delle grucce con appesi tre abiti, mi fece un sufficiente cenno d’intesa e continuò a provare, cambiare e indossare abiti che io non ricordavo di averle mai visto. Giunto al piano terra e affacciatomi nel salone ristorante, dove i tavoli erano stati tutti uniti e predisposti a ferro di cavallo: “Per consentire a chi lo desidera di ballare anche durante il cenone”, mi riferì una signorina, mentre stava finendo di accendere le candele sui tavoli. Guardandomi in torno notai che nel salone si aggiravano già molti ospiti e così mi accorsi che come me erano vestiti solo i camerieri, tutti gli altri, signori e signore, vestivano i soliti abiti da montagna. 

Con un rapido dietro front tornai in camera per indossare la mia calda camicia di flanella, il pullover di kashmir, un paio di pantaloni di velluto e le mie care, deformate e insostituibili scarpe di camoscio. Mia moglie, da prima non volle crederci. Pensava ad una burla mal riuscita, ma quando entrò nella stanza nostra cognata, indossando salopette e maglione dolcevita, a confermare ciò che le avevo già riferito, quasi con le lacrime agli occhi ripose sdegnosamente gli abiti da sera in valigia, scese dai trampoli e indossò anche lei una mise più consona al luogo. Il cenone comprendeva, antipasti: speck e formaggi. Primi piatti: polenta e zampone e polenta e crauti. Secondi piatti: zampone e lenticchie, crauti e wurstel. A seguire frutta secca, strudel e vino a volontà. Sul finire del cenone qualcuno spense lo stereo che stava diffondendo musica soft, e subito una band tirolese incominciò a far rintronare i timpani suonando della musica techno. Attesi impaziente l’arrivo della mezzanotte, poi scambiai dei rapidi, auguri e mi ritirai, con un grosso peso sullo stomaco, in camera mia. 

Rientrammo la sera del 3 gennaio e la mattina del 4 mia moglie mi chiese perché non volessi prolungare le vacanze sino all’Epifania. Io le risposi che dovevo proprio andarci per forza al lavoro e così, in giacca e cravatta, appena giunto in ufficio, chiusi la porta della mia stanza e mi sedetti alla scrivania. Aprii la cartella delle urgenze e la trovai vuota, passai a quella delle priorità ed anch’essa non conteneva nulla. La cartella della corrispondenza ordinaria invece era stracolma di documenti da firmare e da siglare e pertanto preferii non aprirla. Quando si affacciò la segretaria per chiedermi: “Prende il caffè con noi, dottore?”, io ringraziando risposi di no e la pregai di richiudere la porta. 

Uscita l’impiegata mi addossai allo schienale della poltrona e appena chiusi gli occhi mi sentii invadere da quella piacevole sensazione di benessere, di serenità e di appagamento che solo le quattro mura dell’ufficio, durante i ponti festivi, sanno trasmettere.

 

 

 



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor