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AL TERMINAL DEGLI AUTOBUS

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

8
GEN
2016
Una mattina, nel bar che gestisco assieme a mia sorella, entrò una signora che dopo aver ordinato un caffè mi chiese se dove aveva lasciato la macchina fosse un posto sicuro. Io guardai fuori e dopo essermela fatta indicare, per farla stare tranquilla, le proposi di farla parcheggiare davanti al locale. Avrei spostato la mia di macchina, così la sua sarebbe stata sempre sotto controllo, le dissi. Lei finì di bere il suo caffè e poi, con un sorriso che voleva dire: “Sì, grazie ma mi vergogno a chiederglielo”, pagò ed uscì. Il mattino seguente, per scorgere l’arrivo di quella signora bionda, più che dar retta agli avventori, continuai a tenere d’occhio il piazzale e quando la vidi arrivare uscii sul marciapiede e gli indicai il posto che le avevo riservato, avendolo occupato precedentemente con delle cassette d’acqua minerale vuote. Lei mi fece cenno di aver capito e così venne a parcheggiare di fronte al bar.
< Grazie, ma non doveva disturbarsi. > Mi disse scendendo dalla macchina. Io le risposi che avevo solo dimenticato di spostare le cassette e così nei giorni seguenti io continuai a dimenticare le cassette tra le strisce e lei a parcheggiare davanti all’ingresso del locale. Si chiamava Rita ed era un’impiegata di banca che ogni mattina doveva prendere l’autobus per recarsi in una sede distaccata e per risparmiare sulle spese del carburante si serviva dei mezzi pubblici. 
Non portava la fede al dito e per questo forse cominciai a fantasticare troppo presto. 
Per tre settimane tutto si svolse come previsto: lei arrivando faceva lampeggiare i fari ed io uscivo a spostare le cassette. Una volta parcheggiata la macchina entrava nel bar e, sorseggiando insieme il solito caffè, per qualche minuto restavamo a parlare. Ma un lunedì, non vedendola arrivare, pensai che forse quel giorno non sarebbe andata al lavoro e allora, smettendo di allungare il collo come una giraffa per guardare fuori, rassegnato mi dedicai ai clienti che pazientemente stavano aspettando che mi accorgessi di loro. Quella stessa mattina, dopo aver avuto il cambio da mia sorella, mentre stavo andando via notai la macchina di Rita ferma tra altre macchine nel parcheggio del terminal e mi chiesi perché quel giorno non fosse venuta a parcheggiare davanti al bar? Perché avesse preferito fermarsi prima? Forse aveva semplicemente trovato subito posto o forse lo aveva fatto per qualche altro motivo, ma quale? Alla fine pensai che troppe congetture non avrebbero portato a nulla, ma intanto un tarlo stava cominciando a rodermi dentro. Il giorno dopo ci misi più attenzione e allora la vidi arrivare e andare a parcheggiare all’estremità opposta del piazzale e poi dirigersi velocemente verso il suo l’autobus. Quando vidi Filippo, un cliente abituale del bar, gli chiesi se poteva tenere d’occhio la macchina di quella signora bionda che arrivava verso le sette e poi prendeva l’autobus. Filippo mi disse di conoscere quella signora: si chiamava Rita Trattini e lavorava in banca. Aggiunse che aveva avuto un avanzamento di carriera e che, essendo stata promossa direttore di filiale, era stata trasferita in provincia. Quella notte continuai a rimuginare sul come fare per riallacciare i contatti con Rita e alla fine, per potermi appostare nel parcheggio del terminal, chiesi a mia sorella di sostituirmi. Quando vidi arrivare la macchina, facendo finta di essere arrivato anch’io in quel momento, la salutai con disinvoltura ma lei, con altrettanta noncuranza, mi liquidò con un veloce saluto e poi corse verso il suo l’autobus. 
Che figuraccia. Ma che pretendevo? In fondo dovevo immaginarlo, lei non mi aveva mai, in nessun modo, incoraggiato e le mie, dovevo ammetterlo, erano solo delle fantasie, delle presunzioni che Rita, quella mattina, aveva fatto crollare, dandomi anche la conferma di quanto fossi stupido. 
Qualcuno ebbe a scrivere questa frase: “… ho commesso il peggiore dei peccati che possa commettere un uomo. Non sono stato felice” ed io quando la lessi ebbi un sussulto perché in quella frase riconobbi me stesso. Ma ora, a quarant’anni suonati, dopo unioni burrascose e delusioni cocenti, sentivo il bisogno di riprendere in mano la mia vita sentimentale.
 
Lasciata Rita, soprappensiero mi avviai verso il bar così, quando mia sorella mi vide entrare, con una smorfia mi chiese se ero stato miracolato, visto che appena un’ora prima l’avevo svegliata per dirle che non mi sentivo bene. Io feci finta di non aver sentito e andai a prepararmi un caffè.
Passarono altri giorni senza che riuscissi a rivedere Rita e se, con qualche scusa cercavo di incontrarla, venivo immancabilmente liquidato con un fugace e veloce buon giorno. 
Ma un sabato mattina la vidi parcheggiare proprio davanti al bar. < Buon giorno. Posso avere un caffè per favore? > Mi chiese, sfoderando il suo solito sorriso. < Al lavoro anche oggi che è sabato? > Le chiesi di rimando, cercando di mantenere un tono di voce asettico. < No. Ho accompagnato mio figlio che partiva con la gita scolastica e poi ho pensato di venire a prendere un caffè. > < Allora, se hai fatto tanta strada per venire sin qui, vuol dire che in fondo i miei caffè non sono poi tanto male. > Le risposi, allungandole la tazzina. < Mai detto di averne bevuto uno migliore, altrove. > Rispose, mentre abbassava la testa per versare lo zucchero.
Il sabato è sempre stata una giornata tranquilla e quella mattina sembrava fatta apposta per poterci intrattenere a parlare. Così le feci gli auguri per il suo avanzamento di carriera e per la promozione a direttore di filiale. Aggiunsi che mi era dispiaciuto di non averla più vista, perché quella parentesi mattutina, anche se solo di pochi minuti, mentre prendevamo il caffè assieme, l’avevo presa come un auspicio, un piacevole buon giorno per iniziare bene la giornata. Lei seduta ad uno dei tavolini mi stava ascoltando in silenzio, a volte alzando lo sguardo verso di me, a volte girando la testa per guardava fuori dalle vetrate, ma spesso abbassandola sul petto pensierosa. Poi d’un tratto mi disse: < Chi ti ha detto della mia promozione è informato male. Non sono direttore di filiale. Questo è ciò che la banca ha voluto far credere, per motivi di opportunità credo, ma le cose non stanno in questi termini. E quindi gli auguri sono fuori luogo. Sono stata trasferita è vero, ma per ben altre ragioni. Sono separata da quattro anni e forse puoi arrivarci da solo. >
Con la gente che sempre più frequentemente stava cominciando ad entrare ed uscire dal bar era diventato impossibile continuare a parlare così, visto che mi aveva detto di essere separata e che il figlio era in gita scolastica, le buttai li, quasi sicuro di sentirmi rispondere con un diniego: < Senti Rita, come vedi qui è diventato impossibile parlare. Hai detto che tuo figlio è in gita e allora ti chiedo: ti andrebbe di pranzare con me oggi? Così finalmente potrei dirti… > < Anch’io avrei qualcosa da dirti. Magari col cominciare a scusarmi per il mio comportamento che tu avrai trovato giustamente incomprensibile. Ma vorrei anche dirti dell’altro ma, come hai detto tu, è meglio rimandare. > Restammo per qualche minuto in silenzio, io in piedi dietro al bancone e lei seduta di fronte a me poi, come avesse preso una decisione improvvisa, mi salutò ed uscì. Se era venuta sino al terminal senza dubbio non poteva reggere la scusa del caffè e questo me lo stavo ancora dicendo nel pomeriggio quando sentii squillare il telefonino. < Osvaldo, sono Rita, ciao. Senti se è ancora valido il tuo invito, potremmo vederci più tardi per andare a cena assieme? Sai, oggi a pranzo proprio non potevo. Domani è domenica e vado dai miei, poi in serata torna mio figlio e allora... > 
Non le detti il tempo di aggiungere altro e le chiesi subito a che ora e dove ci saremmo dovuti incontrare e, siccome la curiosità mi faceva fantasticare, le chiesi anche chi le avesse dato il numero del mio cellulare, ma quando mi rispose che aveva semplicemente chiamato il bar per farselo dare, mi sentii come un perfetto cretino.
< Hai avuto una ricaduta? O c’entra quella persona che ha chiamato poco fa per chiedere il tuo numero? > Chiese mia sorella, quando le telefonai per pregarla di proseguire da sola sino alla chiusura, ma questa volta non percepii nessuna ironia nella sua voce.
Come presentarmi a quel primo appuntamento? Con un fascio di rose rosse? No troppo presto e fuori luogo; delle margherite o garofani? No, meglio di no, sarebbero finite probabilmente sul sedile posteriore della macchina e li dimenticati. Quando uscii di casa non avevo ancora un’idea precisa sul come presentarmi, ma passando davanti ad un fioraio che esponeva in vetrina delle piantine fiorite di mughetto selvatico ne acquistai una. Il mughetto ebbe un gran successo e Rita aggiunse che non potevo saperlo ma, il mughetto, così delicato, era il suo fiore preferito.
Sentendomi subito in sintonia, quante cose avrei voluto dirle e chiederle, ma lasciai che la cena scivolasse via parlando di tutto e di niente, sino a quando, finalmente, trovai il coraggio di dirle che… che mi ero innamorato di lei. Quando ci alzammo non sapevo cosa pensare, perché avevo l’impressione che le mie parole fossero scivolate via senza averle provocato nessuna emozione, nessuna reazione. Ma proponendomi di fare due passi, fu lei che, uscendo dal ristorante, mi trasse d’impaccio. 
< No. Non aprire la macchina, Osvaldo. E’ una così bella serata, così calma, che mi ha fatto venire voglia di camminare. Mi è sempre piaciuto passeggiare di notte. La notte è così silenziosa e si incontrano poche persone e tutte frettolose. Ma soprattutto la notte si riescono a dire cose che alla luce del sole non si riuscirebbero nemmeno a concepire. >
Mentre ci stavamo avviando su quella via illuminata dalle poche insegne ancora accese e dal monotono lampeggiare dei semafori, si mise sotto braccio e aggiunse: < Mi piace camminare così, sottobraccio a te. Mi da un senso di sicurezza. > Io le strinsi la mano che aveva appoggiato sul mio avambraccio e continuando, con le gambe a camminare e con la mente a volare, raggiungemmo una piazza e ci andammo a sedere sul bordo di una fontana. < Se non avessimo gli anni che abbiamo ci potrebbero scambiare per i fidanzatini di Peynet. Non trovi? > < Perché? > Le chiesi stupito. < Così, noi soli, seduti sul bordo della fontana e sotto un fanale, mentre tutto intorno è silenzio. E’ bello. Mi sembra di essere diventata la protagonista di una fiaba. > Pensando che fosse arrivato il momento di insistere, le chiesi: < Questa mattina hai detto che avevi anche tu qualcosa da dirmi. Ti va di farlo ora? > 
Mentre parlava le strinsi la mano e lei si lasciò andare, e da quel momento divenne un fiume in piena. Incominciò col parlare della sua infanzia, dicendo che doveva essere stata serena perché non aveva molti ricordi di quel periodo. Parlò dei primi batticuore e poi del matrimonio e della nascita del figlio Andrea. Volle sottolineare che era stata veramente innamorata del marito, ma che si era separata, quando il figlio aveva undici anni, a causa dei ripetuti litigi. Aggiunse che dopo la separazione aveva avuto anche un’altra storia, ma di breve durata, perché negli occhi del figlio aveva visto farsi strada la malinconia e la gelosia. E per quanto riguardava il lavoro era stata trasferita solo per i sui secchi e ripetuti no rivolti al direttore della banca, fatti poi passare, per i correntisti curiosi, come avanzamento di carriera. Stavamo seduti da più di un’ora, quando le prime gocce di pioggia cominciarono a bagnarci il viso e allora ridendo Rita si alzò: 
< Ora sì che sembriamo proprio i fidanzatini bagnati di Peynet. > Aggiunse.
Mentre cercava di ripararsi con il foulard, mi alzai anch’io e la trassi a me, e lei, lasciandosi stringere sussurrò: < Non andiamo via. Restiamo ancora qui Osvaldo, ti prego. Sta piovendo, lo so, ma sto così bene qui con te… E sto provando quello che penso di non aver mai provato prima. > 
Accarezzandole i capelli continuai a ripeterle, come un carillon inesauribile, quei mille ti amo che per tanto, troppo tempo, avevo tenuto repressi nell’anima poi, sentendo le sua braccia che avvolgevano il mio corpo mi chinai per cercare le sue labbra. < Osvaldo, credo di essermi innamorata anch’io di te. Lo hai capito anche tu vero? … > Mi disse appoggiando il viso sul mio petto e poi aggiunse: < … ma ho paura. Tanta paura. Perciò ti prego, non deludermi anche tu. Ho il terrore di lasciarmi andare e di sbagliare ancora. Sento di amarti, ma in questo momento tanti pensieri contrastanti continuano ad affollare la mia mente. No, non allontanarti. Continua a stringermi, ti prego. > < Non mi sto allontanando, Rita. > Le risposi, stringendola ancora più forte: < Volevo solo chiederti se è la reazione di tuo figlio che temi o se sono io la causa delle tue perplessità. > Lei rispose che di me sentiva di potersi fidare e che il figlio era ormai cresciuto e ora frequentava il liceo artistico. Io allora cercai di stemperare quel momento chiedendole: < Liceo artistico? Allora a tuo figlio piacerà sicuramente dipingere. Non vedo l’ora di conoscerlo, perché anche a me piace dipingere. E’ la mia passione e vorrei tanto... > 
Lei con le dita mi sfiorò le labbra e poi mi sussurrò: < Non parliamo in questo momento di mio figlio o di pittura, Osvaldo. Non aggiungere altro e continua a stringermi perché questa notte mi sento finalmente felice e queste ore vorrei che fossero solo nostre. Non so se la felicità dipenda dall’avere di più degli altri o se dipenda da altro, ma ora qui ci sei tu e con te mi sento felice e vorrei che questa notte non finisse mai. Pensavo che i miei fossero solo dei bei sogni, ma ora che si stanno avverando non voglio svegliarmi. Stringimi ancora Osvaldo. > 
 


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