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IRENE, LA CUGINA INCOMPRESA

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

22
GEN
2016
Guidavo da più di tre ore e mi stavo chiedendo chi me lo avesse fatto fare a percorrere tanta strada per andare ad un funerale di un parente che conoscevo appena e che avrò incontrato sì e no, in tutta la vita, una decina di volte. Ma è sempre così. Coi parenti lontani ci si sente sempre e ci si riunisce solo in tali circostanze. Arriva una telefonata, ti dicono che è venuto a mancare il tal dei tali: parente, cugino, zio di secondo o terzo grado e tu assicuri, con la giusta intonazione della voce, la tua presenza e parti.
E allora eccomi qui, sull’autostrada con l’asfalto che sta scivolando sotto le ruote e i catarifrangenti dei guard rail che mi sfrecciano sulle fiancate della macchina. E in fondo tre giorni di evasione dal lavoro non mi dispiacciono e la scusa di dovermi assentare per un lutto con i superiori, ha funzionato.
< Si prenda tutti i giorni che le servono Giuliani. Lo studio sulle nuove discipline territoriali è quasi ultimato e allora, in attesa del suo rientro e prima di dare inizio al progetto di riequilibrio urbanistico, anche noi ci prenderemo una pausa di riflessione. E’ una sua creatura ed è giusto che sia lei a dare il via all’esecuzione materiale dell’opera, perciò vada tranquillo che l’aspettiamo. >
Mi disse l’ingegnere capo congedandomi. E per stare bene con se stessi non c’è niente di meglio che sentirsi rivolgere degli elogi immeritati, visto che al progetto non ho lavorato solo io ma eravamo un team di dodici persone.
Prima di arrivare a destinazione mi fermo a pranzare in un autogrill, e questo per evitare di essere costretto ad accettare l’invito di qualche zelante vecchia zia, bramosa di avermi a tavola. E così arrivo in paese nel primo pomeriggio, giusto in tempo per andare ad aspettare gli altri davanti al sacrato. L’orario previsto era per le sedici, ma una volta arrivato trovo tutta la piazza piena di gente che mi riconosce e mi saluta. Mi avvicino e loro, come se stessero aspettando solo me per dare inizio alle esequie, mi aprono lo sportello e mi invitano a scendere. Stringo mani, accosto le guance ad altre guance senza rendermi conto di chi siano e finalmente, dopo un estenuante sequela di baci ed abbracci, con l’eco delle meste campane sulla testa, entriamo tutti in chiesa. 
Finita la cerimonia, mentre usciamo dalla chiesa, nella calca c’è qualcuno che non si lascia sfuggire l’occasione per dire la solita banalità: “purtroppo sono sempre i migliori che se ne vanno”, come se agli altri fosse garantita l’immortalità. Fermo sul sacrato, attorniato da una folla in studiata mestizia, mi preparo a ricevere anch’io la seconda ondata di strofinamento di guance contro altre guance e l’immancabile susseguirsi di strette mano, anche di quelle di perfetti sconosciuti che evidentemente si sentono in dovere di annoverarmi tra i parenti più stretti della cara esistenza di chi non c’è più. 
Uscito dall’apnea, e mentre la piazza si sta lentamente svuotando, attendo il momento giusto per defilarmi e intanto mi guardo intorno alla ricerca dei congiunti più stretti per poterli salutare e così congedarmi da loro. Ho fretta di andarmene e voglio anche trovare un albergo dove passare la notte, perché non mi va di rimettermi in macchina e farmi altre quattro ore di autostrada, e per giunta di notte. 
 < Ciao Aldo. Ti volevo salutare anche prima ma eri troppo distante e anche impegnato a salutare gli altri, quelli più importanti di me. >
Mi sento dire da una signora che non riesco a collocare in nessun albero genealogico della famiglia. Lei lo capisce e mi viene incontro:
< Sono Irene, la nipote della zia Francesca e di Arduino. Tua cugina. >
Io fingo spontaneità e accosto il mio viso al suo, ma non so come regolarmi, se darle o meno le condoglianze e allora mi limito a dirle solo ciao e un ben trovata.
< Va la che non mi hai nemmeno riconosciuta e ti stai chiedendo chi io sia. Lo capisco da come mi stai guardando. >
In effetti stavo annaspando nell’incertezza. L’Irene che ricordavo era molto più giovane. Ma facendo un rapido calcolo dovevo ammettere che il tempo e gli anni passano per tutti e anche per Irene non hanno fatto eccezione, anzi, forse per lei sono trascorsi più in fretta del previsto perché di fronte mi ritrovo una donna non più giovanile, con le mani screpolate e con delle rughe intorno agli occhi e al collo che le invecchiano il viso.
Irene ha precisato che era la nipote di zia Francesca e di zio Arduino e questo, lo so, per evitare di parlare dei propri genitori che l’avevano abbandonata subito dopo la loro separazione. 
Quando il padre e la madre andarono davanti al giudice che doveva stabilire a chi affidare la figlia, litigarono. Ma non perché volevano contendersi l’affidamento, al contrario, perché nessuno dei due la voleva. Il padre argomentava la sua decisione elencando una serie di difficoltà e impedimenti derivanti, diceva, del suo lavoro che gli impediva di potersi occupare della figlia a tempo pieno, nonché per l’intenzione che aveva di trasferirsi all’estero. La madre ribadiva quello che in precedenza aveva già detto al suo avvocato e cioè: che lei da sola non sarebbe mai riuscita ad allevare la figlia, perché indigente. Il marito aveva replicato che quelle della moglie erano solo delle banali scuse per mettere a lui, che era la vera vittima di quella separazione, i bastoni tra le ruote. La moglie avendo già preparato in precedenza tutto quello che avrebbe dovuto rispondere, se il marito si fosse azzardato ad insistere che l’affidamento della figlia doveva essere assegnato a lei, reiterò altre, a suo dire, valide argomentazioni e con la bava alla bocca gli rinfacciò anche i mille tradimenti ed altrettanti maltrattamenti che diceva di aver subito durante il loro burrascoso matrimonio. Ma il marito, fermo nel suo proposito, prima pregò il giudice di far zittire la sua ex moglie, perché quelli non erano argomenti all’ordine del giorno e poi ribadì che lui doveva pensare prima di tutto al suo lavoro, per continuare a mantenersi e per poter onorare gli alimenti che senza dubbio sarebbero toccati a lui elargire per il mantenimento della figlia e della moglie, sino a quando, almeno, una non fosse diventata maggiorenne e l’altra avesse iniziato una buona volta a lavorare. La moglie venne fermata dagli avvocati quando ormai fuori di se si stava avventando sul marito e allora il giudice, non potendone più, sospese l’udienza. Quando in aula, bene o male, venne riportata la calma, il giudice, con un gesto significativo zittì tutti e invitò gli avvocati delle parti a convincere i loro assistiti a trovare una soluzione coerente tra loro, tenendo però soprattutto presente le esigenze e le necessità della figlia e lasciando perdere le loro diatribe coniugali. Poi, avvisando i presenti che avrebbe atteso ancora qualche giorno prima di prendere una decisione definitiva si alzò ed uscì pensando di chiedere il trasferimento, perché ne aveva ormai piene le tasche di avere a che fare con separazioni e divorzi. 
Quando il giudice riconvocò le parti, davanti a lui si presentarono solo i due avvocati perché il padre e la madre di Irene si erano resi irreperibili e di loro nessuno ne seppe più niente. C’era chi assicurava di averli visti alla stazione mentre salivano su un treno; chi confermava quella versione ma con la variante che si, erano saliti su un treno, ma uno aveva preso quello che andava verso nord e l’altra quello che andava verso sud. Poi c’era chi giurava e spergiurava di averli visti all’aeroporto mentre attendevano il loro volo: la destinazione però era ignota. E poi c’era chi smentiva tutti e puntualizzava, citando giorno, ora e testimoni, che solo il marito era stato visto all’aeroporto e che invece la moglie era stata notata al porto mentre si stava imbarcando su una nave da crociera.
Sta di fatto che Irene da quel giorno e sino quando vissero i nonni stette con loro, i genitori del padre, perché quelli della madre obiettarono che se la nipote non l’aveva voluta con se la figlia non capivano perché dovevano essere loro a doversela tenere in casa. Persi i nonni, fu costretta ad un lungo passamano tra zii e parenti, più o meno stretti, sino a quando, compiuti i quarant’anni, tutti si stufarono della sua ingombrante presenza e allora dovette andare a vivere da sola in un piccolo appartamento che gli stessi parenti, tutti assieme coalizzandosi, le avevano messo a disposizione. 
Irene, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti, si trasferì finalmente nella nuova dimora, ma non aveva un lavoro e allora zii e cugini, pur di tenersela lontana, continuarono a passarle la paghetta settimanale. Faceva invece molto volontariato sia negli istituti per l’assistenza ai meno abbienti che dedicandosi assiduamente agli anziani. Ma anche qui girava la voce, sempre più insistente (male lingue si intende), che facesse volontariato negli istituti per andare a mangiare a sbafo alla mensa dei poveri, più che per dedizione e altruismo e che andava si a casa degli anziani, ma solo in quelle dove ci vivevano da soli e solo se erano molto avanti con gli anni. Lei alle malelingue rispondeva che ci andava per tenerci compagnia, accudirli ed aiutarli, perché le faceva una gran pena vederli così soli e dimenticati da tutti, e aggiungeva che alla mensa dei poveri mangiava solo gli avanzi, se avanzavano. Ma c’era sempre qualcuno che sottovoce sosteneva che il vero scopo di tanto altruismo non era quello dettato dalla carità cristiana, ma era di ben altra natura e neanche troppo nascosta, cioè quella di accattivarsi la fiducia degli anziani per poi carpirne la loro benevolenza ed estorcere loro del denaro. Denaro che Irene ammetteva di ricevere, ma che giurava e spergiurava di portarlo in chiesa per far dire delle messe in favore dei loro cari anziani, anche se ancora vivi e vegeti o per acquistare candele e ceri da mettere davanti all’altare della Santa di turno. 
Ora era davanti a me ed ebbi la netta impressione che cercasse di sfruttare l’occasione anche con me perché cominciò a parlare delle sue difficoltà economiche, della cattiveria dei parenti, senza parlare di quella dei paesani, si intende. Mi disse di essere stanca di dover sopportare le angherie, le occhiatacce della gente e i loro mugugni quando passava, perché non facevano altro che metterla in cattiva luce agli occhi di tutti, tanto che anche il parroco, un sabato che era andata in chiesa per confessarsi, le chiese come mai girassero tutte quelle malevoli voci sul suo conto. 
< Non ne posso più di restare in questo paese che non è altro che un covo di vipere e di comari petulanti. Voglio andarmene, magari trasferirmi nella tua città e sino a quando non troverò un lavoro ed una sistemazione adeguata, vorrei chiederti il favore: vorrei essere ospitata da te. >
Le sarebbe bastato un cantuccio, un sottoscala, concluse stringendomi forte le mani.
Intanto la piazza si era svuotata ed anche i parenti più stretti se ne erano andati tutti. Ero rimasto solo io, Irene e qualche paesano curioso che non si stancava di toglierci gli occhi di dosso. 
< Vedi come sono? Guarda come ci stanno osservando. Non ne posso più Aldo. Portami via ti prego. Fallo per i nostri nonni, che ti volevano tanto bene. >
Per evitare silenzi imbarazzanti e argomenti indesiderati, risposi: 
< OK. Vado a prendere la macchina e intanto tu aspettami, così dopo troviamo un posto dove parlare con calma e senza avere addosso lo sguardo dei curiosi. > 
Lei annuì e mi disse che mi andava ad aspettare a casa sua: la seconda casa dopo la scuola materna. 
Salito in macchina, seduta stante decisi di lasciar perdere la ricerca dell’albergo e soprattutto di lasciar perdere Irene. Guardai l’orologio e calcolai che in quattro ore, quattro ore e mezzo, sebbene fosse già buio, sarei arrivato a casa e allora misi in moto e mi avviai verso l’imbocco dell’autostrada.
 


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