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IL MONTANARO

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

18
MAG
2016
Era da tempo che desideravo fare due passi in montagna e così, una domenica mattina, un piede dietro l’altro, dopo quattro ore, raggiunsi il campanile basso: si chiama così la cima che avevo scelto per la scarpinata. Arrivato in vetta, sfinito, mi sdraiai tra le rocce. Quando riaprii gli occhi, il vento era del tutto caduto e il sole era scomparso dietro un ammasso di nuvole minacciose.
Preoccupato per il tempo che avevo perso e per la pioggia che mi stava percuotendo la fronte, con la sola speranza di scorgere dopo ogni anfratto o avvallamento, i tetti del paese, mi incamminai velocemente verso valle. Dopo un tempo imprecisato, con i piedi doloranti e la stanchezza che mi stava opprimendo, raggiunsi una baita, la quale aveva tutta l’aria di essere disabitata.
Mi sbagliavo. Fatti pochi passi, un grosso cane, abbaiando come un forsennato, mi si avventò contro. Ma, provvidenzialmente, poco prima che il cane mi raggiungesse, una voce, giunta dall’interno della baita, mi trasse d’impaccio. <Qua Blak. Buono, torna qua>.
Immediatamente, ubbidendo a quella voce, il cane si quietò e scodinzolando tornò verso la baita. <Non fa niente. Venga pure avanti. E’ un pacioccone>, sentii dire da una persona che si era affacciata sull’uscio. Era una figura senza età: calva e non molto alta, con il viso arso dal sole e gli occhi di un azzurro chiarissimo.
<Sarà. Ma è così grosso che fa veramente paura vederselo venire contro>, replicai, quasi scusandomi. <Venga, venga avanti, senza paura. Non fa niente>, mi ripeté lo sconosciuto.
***
Non trovando una scusa plausibile, per giustificare la mia presenza sulla sua proprietà e vergognandomi come un bambino sorpreso con le mani nella marmellata, mentii: <Mi scusi, ma mi devo essere perso su in alto. Sto cercando la strada più breve per raggiungere il paese, ma devo aver fatto una deviazione e ora non so nemmeno dove mi trovo. E sono preoccupato anche per il tempo che passa e per quelle nuvole sempre più minacciose>.
<Ma no, che dice? Non si è perso>, mi assicurò il montanaro.
<Il paese è qui sotto, a meno di un’ora di cammino. Continui a seguire il sentiero che attraversa il bosco e vedrà che arriverà in paese prima del tramonto, e non si preoccupi per quelle nuvole lì, il vento, vede, le sta già portando via>. <Ma si è fatto male? Guardi, sta sanguinando>, gli dissi, indicando il sangue che gli stava sgorgando dal dorso della mano sinistra. <Bah. Non è niente…>, e dopo aver dato un’energica scrollata al braccio, proseguì: <Ha capito bene? Allora…>. <Ma non si disinfetta? Non mette un cerotto, una garza?>.
Visibilmente contrariato per doversi interessare di una cosa così banale, rispose: <Stavo accatastando la legna, sa, la scorta per l’inverno, e una scheggia mi si è conficcata nella mano. Stupidaggini. Ascolti me piuttosto e lasci stare il sangue. Allora…>, e per essere sicuro che le sue indicazioni fossero ben recepite, tenendo il braccio sempre teso verso la direzione che mi stava indicando, proseguì: <Allora… Alla fine del campo e dopo aver superato il bosco, a mezza costa, troverà una strada sterrata. La percorra tutta, sino al gruppo di case che troverà più in basso. Prosegua su quella strada e vedrà che dopo dieci minuti sarà arrivato in paese. Il campanile della chiesa lo scorgerà ancora prima di arrivare alla croce con il Cristo, perciò non si preoccupi>.
***
Rassicurato dai modi bonari dell’uomo, nonché dall’informazione ricevuta, finalmente le mie preoccupazioni si dissolsero. <Grazie, e mi scusi ancora>, gli dissi, mentre mi stavo avviando verso il sentiero che costeggiava il bosco di faggi.
<E di che? Vuole bere un bicchiere di vino prima per rinfrescarsi, o una grappa per tirarsi su? Lei non mi sembra di queste parti...>.
<No grazie. Gentilissimo, ma non ho ancora mangiato nulla e non vorrei che a stomaco vuoto mi facesse male. No, non sono di qui>.
<Ah, è qui in ferie allora?>.
<Chiamarle ferie mi sembra eccessivo. Solo un giorno per ossigenarmi un po’. Ma vedo che anche lei è qui a godersi il fresco dell’alta montagna》gli risposi, cercando di chiudere l’argomento.
<Io ci vivo qui>, e soggiunse: <Ho una casa in paese, ma ormai sono sempre qui, da quando è morta mia moglie>. <Mi dispiace. Ma vive qui sempre da solo?>, gli ripetei incuriosito.
<Sì, da solo. Prima con mia moglie stavamo in paese. Adesso passo quasi tutto il tempo qui. I figli sono ormai grandi, sposati e vivono in altre città: mia figlia in Germania, a Monaco di Baviera. Con il marito gestisce una birreria. Mio figlio invece è ferroviere e vive a Bologna. Ero rimasto solo in quella casa giù in paese e mi sentivo impazzire. Ero arrivato a fare cose insensate, da matti. Camminavo avanti e indietro per ore senza concludere niente. Andavo in camera da letto per accarezzare i suoi abiti. Le fotografie le tenevo tutte sparse sul letto. Sa, per averle sempre a portata di mano: le guardavo e riguardavo. Le ho consumate a forza di rigirarle tra le mani. Quanti ricordi in quella casa; una vita di ricordi. S’immagini che io da quando è morta mia moglie non me la sono più sentita di dormire in quel letto. Dormivo sul divano che avevo trasportato in cucina. E non uscivo nemmeno più di casa per aspettare la telefonata dei figli. Solo la mattina presto, io sono sempre stato mattiniero, andavo ad accudire le galline e i conigli. Finito con gli animali andavo a comprare il pane e poi tornavo subito a casa. Sono un ex insegnante. Quarant’anni di scuola. Generazioni e generazioni ho visto passare tra quei banchi: gente molliccia, sterile, senza nerbo né idee e, d’altronde, cosa si può pretendere da questi figli del benessere. Una volta rientrato a casa, con la speranza di vederli arrivare, o almeno di ricevere una loro telefonata, non uscivo più. Ho solo loro e nessun altro, capisce. Ma se venivano a trovarmi una volta al mese era tutto oro che colava. Hanno sempre da fare. Se al telefono era mia figlia, dopo avermi chiesto come stavo, cominciava con mille raccomandazioni, come se dopo la morte della madre fossi rincretinito: -”Stai attento, riguardati. Le medicine le stai prendendo? Copriti, non prendere freddo e non usare la macchina che sei vecchio e i riflessi non sono più quelli di una volta, e non mettere la casa in disordine…”, eccetera, eccetera. Poi mi passava i bambini - ”Su, salutate il nonno: ciao ciao nonno” - e la telefonata era finita. Allora ricominciavo a camminare per casa, ripeto, come un rimbambito, aspettando solo che il telefono squillasse un’altra volta e nella speranza di vedere la porta aprirsi e loro entrare. Poi, dopo qualche giorno, se andava bene, o dopo settimane quando andava male, squillava di nuovo il telefono ed era mio figlio: - “Ciao papà, come va? Scusa ma devo andare. Riguardati.” - E così, caro signore, passavo le mie giornate dentro quelle mura trasudanti di ricordi e di troppi rimpianti: mia moglie, i figli ancora piccoli. Li vedevo proprio sa, come se fossero lì in quel momento. Poi, come una liberazione, arrivava il pianto e con l’aiuto di un bicchiere di grappa, anche il sonno>. Io, in piedi davanti a lui, l’ascoltavo, senza avere il coraggio di interromperlo.
***
<Eppure da Monaco - proseguì - sono solo tre ore di macchina. Ma mia figlia ultimamente veniva a trovarmi sì e no tre volte all’anno, per farmi vedere i bambini, che ormai non mi riconoscevano nemmeno più. Prima, quando le cose non andavano troppo bene, veniva più spesso e solo per chiedere soldi. Poi il diradarsi delle visite è coinciso probabilmente con l’aumento dei frequentatori della sua birreria, e da qualche tempo le cose devono andarle veramente bene, perché non si fa più vedere. E mio figlio, se volesse… Ma, come le ho detto, caro signore, hanno i loro impegni, le loro famiglie, e in fondo è giusto così. E poi, come si dice: un padre alleva dieci figli senza battere ciglio, ma dieci figli non trovano il tempo per il vecchio padre. Bah, pazienza. Un pomeriggio di tre anni fa, è venuta a casa mia una guardia forestale per dirmi che passando di qui aveva notato delle crepe nei muri della baita. Sentendo che stava quasi per crollare, a causa dell’incuria e delle travi del tetto ormai marce, sono venuto su per rendermi conto di persona. Non ci mettevo piede da anni in questa baita. L’ultima volta ero venuto su con mia moglie, quando i figli erano ancora piccoli. Il maschio si stava trascinando i postumi di una brutta malattia e il medico ci aveva consigliato di portarlo in montagna. Loro giocavano, io mi dedicavo a qualche lavoretto e mia moglie cuoceva la polenta in quel paiolo là, lo vede? Ma ormai… Con l’aiuto di un amico, che ha un trattore, ho portato su travi, legname, cemento e attrezzi e, piano piano, anche con il suo aiuto, sono riuscito a sistemarla. Durante i lavori, per evitare di fare avanti e indietro tutti i giorni, ho fatto delle provviste e le ho caricate sulla macchina, guido ancora bene sa, anche se i miei figli non vogliono, e ho portato tutto quassù. E da allora, salvo brevi assenze, sono tre anni che non mi muovo di qui, che non torno in paese>. < Senza mai ritornare a casa?>, chiesi, più per dimostrare la mia attenzione a ciò che diceva, che per vero interesse.
<Il primo anno - continuò - con l’arrivo dei primi freddi, sono tornato in paese per passarci l’inverno, ma non vedevo l’ora che arrivasse la primavera per trasferirmi di nuovo qui. Troppi ricordi in quella casa. Troppi. E d’altronde, ormai sono in un’età dove le speranze e le illusioni hanno lasciato il posto ai ricordi e alle delusioni. Gli ultimi due inverni invece sono rimasto. E adesso scendo in paese una volta o due al mese, per sbrigare qualche faccenda, per fare provviste e per ritirare la corrispondenza>.
<E quando nevica, come fa? Nevicherà molto qui. Non rischia di rimanere bloccato a causa della neve alta? Delle strade ghiacciate?>, gli chiesi, cercando una via d’uscita.
<Davanti alla baita la neve bisogna toglierla. Anche di notte esco a spalare se nevica forte, altrimenti rischierei di rimanerci sepolto. Però, spala che ti spala, alla fine l’ho sempre vinta io. Lo spiazzo davanti alla baita e un piccolo sentiero sino al confine, sono sempre risuscito a tenerli sgomberi. Per il resto, ho bisogno di poco, sa. Un bicchiere di vino e soprattutto i miei libri. Di quelli non potrei proprio farne a meno>.
<E per il freddo e l’acqua corrente, come fa? D’inverno scenderà di molto la temperatura, specialmente la notte>, gli chiesi ancora.
<Per il freddo non è un problema, qui la legna non manca di certo. La taglio d’estate e la accatasto sotto quella tettoia, vede quanta ne ho? Il fuoco durante l’inverno non lo lascio spegnere mai, nemmeno di notte e per l’acqua basta che sciolga la neve>.
<E non soffre di solitudine, non si sente isolato, solo?>.
<Solo e isolato, no. Ma siccome l’inverno ci sono poche cose da fare, la malinconia, quella sì, mi prende. Allora leggo. Leggo e viaggio assieme ai personaggi dei libri. Durante l’anno, quando scendo in paese, mi procuro quelli che mi interessano. Poi vengo qui e mi metto accanto al fuoco e leggo. Mi manca tanto la famiglia…, quella sì. Mia moglie soprattutto. Ma ormai, come le ho detto, è andata così. Stavo peggio giù in paese, mi creda. Almeno qui ho sempre qualcosa da fare: tagliare la legna, innaffiare l’orticello, accudire gli animali. Poi ho qui Blak, che mi fa compagnia come e forse più di una persona. Lo sa che se pronuncio il nome di mia moglie rizza ancora le orecchie e si mette a cercarla? Era molto affezionato anche a lei. La sera spesso mi addormento con un libro tra le mani. Non ho la luce elettrica qui. Non mi serve. Ho un paio di lampade a petrolio, per ogni evenienza. Fossero venuti una volta i miei figli a trovarmi, qui. Mai. Si informano attraverso dei parenti della mia povera moglie giù in paese. Non ho il telefono, e loro sono sempre impegnati con il lavoro e le loro famiglie e pensano che da quando è morta la loro mamma io sia diventato matto. Pazienza. Credano quello che vogliono. O magari avranno anche ragione, ma solo chi ha vissuto tanti anni con una persona, può capire quanto manchi quando non c’è più e …e poi i ricordi. I ricordi costituiscono sempre tristezza, sia quelli brutti che quelli belli, ma quelli belli intristiscono ancora di più e…>.
***
Ormai assorto nei suoi più intimi e remoti pensieri l’uomo, lasciando a metà quest’ultima frase, si chinò ad accarezzare il cane che, guaendo e leccandogli le mani, stava cercando di attirare la sua attenzione. Quelle parole e quei ricordi che per molto, forse troppo tempo, aveva trattenuto, ora lo stavano ripiombando nei più tristi e cupi pensieri e il dolore, che come un proiettile gli era penetrato nel profondo dell’animo, ormai non permetteva più a nessuno di mitigare la sofferenza che lo stava annientando. Quando alla fine lo salutai, lui mi strinse forte le mani e disse: <Mi scusi sa, se l’ho tediata. Senza accorgermene mi sono lasciato andare a parlare delle mie miserie. Di cose che a lei non possono proprio interessare. Ma si vede che lei è una brava persona, e sono sicuro che avrà capito. E la ringrazio per la pazienza e il tempo che mi ha voluto dedicare>.
Non sapendo che altro aggiungere, dopo aver contraccambiato quella stretta di mano, in silenzio mi avviai verso quel sentiero che mi avrebbe ricondotto sulla strada di casa, verso la serenità di sempre, e fatto scordare gli affanni altrui.
Arrivato ai bordi del prato e prima di inoltrarmi nel bosco mi girai un’ultima volta per salutare quell’uomo solitario, ma con due grosse lacrime che gli solcavano il volto, non stava più badando a me. Era intento ad accarezzare il cane che strofinandosi tra le sue gambe, continuava a guaire.
 


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