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LA CASA DI CAMPAGNA

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

16
GIU
2016
Nella casa di campagna la servitù, si stava affrettando per far trovare tutto in ordine alle due signore che stavano arrivando.
La vecchia Irma, una nobile d'altri tempi, magra, pallida, fragile, severa e bigotta, era vedova da diversi anni e aveva un solo figlio, Alfredo, che amava in modo morboso. Per lavoro il figlio si era trasferito in Africa. In un Paese dove la situazione non era delle migliori, né tantomeno sicura, per cui aveva preferito lasciare la moglie con la madre. E ora le due donne si stavano trasferendo, come ogni anno, alla fine della primavera, nella casa di campagna.
Era domenica e, giunte nella piazza del paese, dalla chiesa udirono uscire il suono armonioso dell'organo e il brusio dei fedeli in preghiera.
«Mamma, entriamo anche noi a recitare una preghiera per il nostro Alfredo?», chiese la nuora, appoggiando la mano su quella inguantata della suocera.
La signora si girò lentamente verso la nuora e poi, dando due colpetti sulla spalla all’autista, gli disse di fermarsi davanti al sacrato.
La nuora era giovanissima, bionda con gli occhi chiari, di grande fascino, ma silenziosa e riservata: ragion per cui la suocera le rimproverava sempre di avere un’aria assente e la testa tra le nuvole. Era stata accolta in famiglia per la dote che portava e per le parentele che poteva vantare, essendo la figlia di un noto industriale tessile e proprietario terriero, ma poi il padre si era avventurato in speculazioni sbagliate e daveva messo in pericolo le sue sostanze, tanto che dovette ipotecare la terra. Il matrimonio non era dunque dei più riusciti, e per giunta la coppia non aveva figli.
Entrate in chiesa, e recitato quattro Pater Ave Gloria, le due donne attesero la fine della messa e poi tornarono alla macchina, dove trovarono il solerte autista che si premurò di aprire loro le portiere posteriori della lussuosa vettura.
Giunsero nella tenuta di campagna che era l’una passata e vennero accolte, come di consueto, dal fattore e dalla servitù della casa. Nella sala da pranzo era già tutto apparecchiato con posate d’argento e stoviglie di porcellana, che venivano tirate fuori solo se era presente la signora contessa e così, le due donne, seppur stanche del viaggio, come volle sottolineare la più anziana,si accomodarono e pranzarono.
***
Per Ginevra la campagna si rivelò subito uno sgradevole soggiorno. Le giornate erano interminabili e lasciavano grandi spazi vuoti, come quello, mortalmente noioso della domenica, che andava da subito dopo il pranzo a prima e dopo la cena. C’era poco da fare in campagna, per due signore di città. E non c’era nemmeno l’abitudine di leggere in quella casa. La vecchia contessa, quando raggiungeva la nuora in salotto, dove avrebbero recitato assieme il rosario serale e la trovava con un libro in mano, la osservava perplessa e poi, con quella sua voce sottile e gentile, ma piena di rimprovero, sbottava:
«Toh, stai leggendo. Non hai niente di meglio da fare? Leggessi almeno la bibbia…».
Non si parlavano, o quasi. Fra le due donne ogni argomento di conversazione somigliava a un cespuglio di rovi, al quale si dovevano avvicinare con estrema cautela, per non ferire o rimanere ferite. Ogni parola della suocera evocava una disgrazia, una lite familiare, una vecchia ruggine che Ginevra ignorava o non comprendeva. E dopo ogni frase, si fermava a guardare la nuora con un’espressione vaga, come a volerla scrutare: «Tuo marito è in Africa a sta lavorando tra mille pericoli e tu? Tu ti muovi, parli e ridi come se nulla fosse. Mentre il mio povero ragazzo chissà tra quali pericoli e sacrifici è costretto a vivere, tu dimostri solo indifferenza. Adesso ne sono certa… Sei una persona fredda e indifferente. A te non manca niente, mentre a mio figlio…».
E mentre faceva scorrere meccanicamente i grani del rosario tra le dita, lo immaginava tra gente ostile e circondato da pericoli e insidi e. Poi gli occhi le si riempivano di lacrime e con voce rotta dall’emozione concludeva: «Non parliamone più. Non parliamo più di lui…». Poi tirava fuori da sotto una manica dell’abito un elegante fazzolettino, sempre pronto nel caso affiorasse il ricordo del figlio, e si asciugava delicatamente le palpebre. Gesto che assomiglia va tanto a quello di chi mangiando si macchia d’unto e cerca di raccoglierlo con l’angolo di un tovagliolo.
***
Il tono della contessa non era mai dolce. A volte poteva sembrare sereno, ma la sua voce, nei confronti della nuora,era sempre dura, ferma. E, d'altronde, Ginevra sapeva che il suo dovere di moglie era quello di aspettare con pazienza e rassegnazione il ritorno del marito. E intanto le sembrava ancora di sentire le parole che le aveva detto lui, più di una volta e prima di partire e che le bruciavano dentro come una ferita sempre aperta: “Cosa credi? Se avessi saputo prima che tuo padre era in bancarotta, che si stava rovinando, che si era ridotto così…”.
In quel mondo che sentiva di non appartenere, Ginevra veniva quotidianamente assalita dalla tristezza, dalla noia. Per lei non c’era nulla da fare in quella casa. C’era sì il pianoforte, ma lei lo aveva studiato quasi per forza, costretta dai genitori, quando era piccola ed ora non sapeva nemmeno se si sarebbe ricordata i solfeggi. E la domenica era più noiosa degli altri giorni. Si alzava come sempre verso le otto e poi aspettava la suocera per andare in chiesa. Dopo la messa rincasavano seguendo una stradina tortuosa, di cui la contessa conosceva ogni pietra e ogni abitante. Camminavano in silenzio, rispondendo ai saluti dei contadini con cenni del capo. La signora Irma non era amata in paese, ma la nuora ispirava simpatia perché era giovane, con un marito lontano e per niente altezzosa.
« Buon giorno e buona domenica signore», si sentirono rivolgere da un ragazzo che era seduto sulla staccionata che delimitava il podere. Ginevra gli rispose con un cenno della manoe un sorriso, ma la suocera la prese sotto braccio e la trascinò in casa.
«Chi è quel ragazzo, mamma?», le chiese Ginevra, appena la porta si richiuse dietro di loro.
«E’ quel zoticone, ignorante e sfaticato del figlio del fattore. E quello pensa di parlare con quelle come lui. Non dargli confidenza. Mantienilo alla larga.»
***
Giorni dopo, mentre il sole, filtrando prepotentemente tra i rami, spezzava l’ombra che nascondeva le tenere foglie e i germogli già sbocciati, Ginevra, con un libro e un lavoro di cucito, si era seduta all’ombra di una quercia. Era l’unico angolo del giardino in cui si sentiva fuori dalla portata degli sguardi sospettosi della suocera. E da quella posizione poteva vedere, affacciato ad una finestra della casa vicina, il ragazzo, il figlio del fattore. Stava seduto sul davanzale, con accanto il suo cane. E il ragazzo, a voce abbastanza alta, affinché Ginevra lo potesse udire, lo rimproverò: «No Doc. Niente passeggiata oggi. Daresti fastidio alla signora e lei non sarebbe contenta. Dobbiamo restarcene qui e accontentarci di guardare da qui il bel giardino».
Ginevra aggiunse ancora qualche punto al suo ricamo e poi lo lasciò cadere in grembo.
“Che tipo!”, pensò, e non poté fare a meno di sorridere, e allora il ragazzo continuò: «Peccato, vero Doc? Ti piacerebbe fare una corsa in giardino e magari saltare. Se ci fosse un bambino sono sicuro che ci farebbe segno di scendere, di andare a giocare con lui. Ma qui c’è solo una signora molto seria, molto silenziosa. Meglio restare dove siamo».
Attese ancora un istante, e poiché Ginevra continuava a tacere, deluso, si sporse dalla finestra e chiese cerimonioso: «Avrebbe qualcosa in contrario, signora, se scendessi col mio cane per fargli fare una passeggiata?».
«Tu qui sei di casa. Fai ciò che credi», gli rispose lei, con vivacità e non priva d’ironia. Un momento dopo il ragazzo e il suo cane erano già spariti dalla cornice della finestra ed erano in giardino.
«Non mi permetterei mai di chiederglielo per me signora, ma questo cane va pazzo per il giardino. Gli piace correre e fare delle buche nel terreno».
“Siamo due idioti”. Pensò Ginevra, ma rispose semplicemente: «Avvicinati pure, tu e il tuo cane, e fate ciò che volete».
Mentre il cane cominciò a saltellare tra l’erba, il ragazzo si avvicinò a Ginevra e poi aggiunse: «Lo so! Sono molto indiscreto, non me ne voglia, ma cosa ci fa qui da sola una signora come lei, in questo posto?».
Il ragazzo sapeva benissimo del perché le due donne si trovassero lì, e perché lei fosse sola. Così Ginevra lasciò cadere la domanda e ne fece a sua volta una: «Come mai non sei in campagna con gli altri? Quanti anni hai?».
«Ho diciannove anni, signora, e sono rimasto a casa per studiare. Devo riparare. Se perdo anche questo,sarebbe il secondo anno consecutivo, e non me lo posso permettere».
«Cosa studi? In cosa sei stato rimandato?».
«Classico, e devo riparare latino e greco. Due materie inutili e che non mi entrano».
«E perché hai scelto proprio il liceo classico, allora?».
«Scelta non mia. Ho seguito i consigli di mio padre».
Rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Ginevra sembrò dimenticarsi del ragazzo e tornò al suo ricamo. Lui ci rimase male, ma rispettò quel silenzio.
«Mi ha chiesto se poteva scendere con il suo cane. Non potevo rifiutare», rispose Ginevra, quando rincasando si sentì rimproverare dalla suocera perché l’aveva vistaparlare con il ragazzo.
«Ha un’intera vallata per portare a spasso il suo cane. Non è il caso di tenerselo tra i piedi», ribadì la vecchia contessa, mentre continuava a sgranare il suo rosario.
«Che ridicolaggine. Ma siamo ragionevoli, perché dovrei essere scortese con quel ragazzo? Possiamo avere dentro tutti i malumori del mondo, ma perché non essere educati e gentili, almeno esteriormente? E' un ragazzo così semplice», le rispose, trattenendo la rabbia, Ginevra.
«Ragionevoli?», ribatté vivamente sorpresa la suocera, e poi aggiunse:
«Ma ragazza mia, queste parole, da sole, provano che tu non ami tuo marito e che non senti la sua mancanza. Di quel ragazzo io non sopporto nemmeno la vista. Non sarà giusto, ma sono una madre che soffre per essere stata privata del figlio. E se tu fossi una vera moglie, non avresti avuto paura di sembrare scortese con quello scansafatiche. Lui a guardarti dalla finestra, poi in giardino a parlare con te, mentre il mio povero Alfredo…».
Si interruppe, estrasse dalla manica il fazzolettino, si mise a piangere e poi proseguì: «Mi domando perché lo hai sposato. Per i soldi probabilmente, ma allora…».
Ginevra non seppe più trattenersi e rossa in viso si alzò di scatto e rispose: «Non è vero. Sa bene mamma che non è vero. Mi sono sposata perché avevo diciannove anni ed ero un’oca, e perché mio padre mi aveva detto: “E’ un bravo ragazzo e ti vuole bene”. E non immaginavo che potesse tradirmi all’indomani delle nozze e nemmeno che fosse tanto meschino da preferire, a me, una donna che lei conosce molto bene. “Mi manchi tanto” le scriveva l’estate scorsa la sua amante: “Mi sento sola stanotte, nel nostro letto troppo grande senza di te.”
«Ma cosa dici? Che stai vaneggiando?», l’interruppe la suocera, stringendo tra le mani il fazzolettino, ma Ginevra, ormai fuori di se, proseguì: «Adesso magari le piacerebbe cacciarmi di casa e mettere l’altra al mio posto, vero? Perché lei è al corrente di tutto, lo so».
Le labbra della contessa presero a colorirsi di una rosso appassito, si fecero sottili e taglienti come una lama, e chiese: « Di cosa stai parlando?».
Ginevra le spiegò che le lettere, che comprovavano quello che diceva, le aveva trovare nello studio del marito, dopo la sua partenza. Ne seguì un lungo silenzio, interrotto solo dall'ormai familiare frinire delle cicale e dal gracidare delle rane che proveniva dal vicino stagno.
Il mattino successivo la contessa chiamò l'autista e gli ordinò di prendere la macchina perché doveva tornare in città a sbrigare delle commissioni urgenti. L'autista tirò fuori la macchina dal capannone e si andò a fermare sotto la scalinata e aspettò la signora. Non solo Ginevra e la servitù, ma anche la casa, gli alberi e il giardino, tirarono un sospiro di sollievo quando videro la contessa salire e la macchina superare il cancello della villa e poi sparire dietro una nuvola di polvere.
***
Partita la suocera e rientrata in casa, Ginevra sapeva benissimo che non sarebbe stato facile, ma nel segreto del suo cuore e con quella sicurezza che solo la giovinezza sa dare, decise. Avrebbe lasciato il marito. Sarebbe andata via da quella casa e, soprattutto, si sarebbe liberata per sempre di quella suocera insopportabile, opprimente. Quando si sentì chiamare per il pranzo scese di sotto e poi, per tutto il resto della giornata, si chiuse nella sua stanza: aveva molte cose da fare.
Predisposto il tutto, andò a prendere le lettere che aveva trovato nel cassetto del marito. Le raccolse in un nastrino colorato e poi le infilò in una busta su cui scrisse: “Per Alfredo”.
Scrisse una lunga lettera anche al padre e poi si distese sul letto e attese. Quando in serata sentì la suocera rientrare, lei non si mosse, non le andò incontro. Non la chiamarono, né la suocera chiese di lei, e lei ne fu contenta. Restando stesa sul letto,si sorprese di sentirsi così serena, anche in un momento come quello. Definitivo.
Dopo cena, mentre stava recitando il suo ultimo rosario, la vecchia contessa sentì il rumore di una macchina che, con il motore acceso, si era fermata davanti allo scalone. Incuriosita si affacciò alla finestra e così poté vedere la nuora che, caricate delle valigie in macchina, si stava mettendo al volante e percorreva il vialetto che la conduceva oltre il cancello.
Ginevra, senza una meta precisa, senza un piano prestabilito, imboccò la strada che portava in città. Guidava su quella strada deserta, senza porsi domande. Seguiva i fari della sua macchina senza sapere dove l'avrebbero condotta. Ma sicura che il peggio lo stava lasciando alle spalle e che correva verso la libertà e la serenità. Quella libertà e serenità che invano aveva sempre sognato e cercato. E questo pensiero la fece sorridere e poi scoppiare in una irrefrenabile e fragorosa risata.
 


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