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NUVOLETTE ...Continuiamo a chiamarlo Fumetto

Pubblicato da: Categoria: nuvolette

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DIC
2017

In Italia, il medium fumetto -da sempre- non ha mai avuto una buona fama. Dopo la seconda guerra mondiale, quella di fumettista «era considerata una professione poco seria», e così il disegnatore tarantino Ivo Pavone si trasferì in Argentina. Ma chi ha inventato il termine “graphic novel” e perché, talvolta, in Italia (e solo qui), si usa per indicare un prodotto di qualità e “da libreria”, rispetto al “vecchio” e bistrattato fumetto “da edicola”?


Sentiamo parlare, in Italia (e non altrove), di “fumetto” e di “graphic novel”: ma quali sono le differenze?
Secondo alcuni, un fumetto si può definire tale in quanto “seriale”. Quindi, una storia di Dylan Dog (famoso personaggio ideato da Tiziano Sclavi), pubblicata su un albo della serie, dovrebbe essere indicata con il termine “fumetto”. Ma se la medesima viene poi -anzi prima che appaia nella serie- pubblicata in volume e arriva in libreria; come dovremmo chiamarla? “Graphic novel”? È il caso, ad esempio (e non è l’unico), di “Nel mistero”, scritta da Tiziano Sclavi e disegnata da Angelo Stano: è apparsa prima in un volume di grande formato [1] a fine ottobre in libreria, e poi, proprio in questi giorni, è stata pubblicata sul numero 375 della serie mensile, appena uscito in edicola [2].
Prendiamo poi “Cacciatori nelle tenebre”, noir di Gianrico Carofiglio [3]. Cos’è? Un “romanzo”? Secondo quanto c’è scritto in copertina (almeno per l’editore) lo è. Ma se lo sfogliamo, ci accorgiamo che si tratta di un fumetto, disegnato dal fratello dello scrittore, Francesco Carofiglio. Ma la Rizzoli ha deciso di mettere in copertina (inconsapevolmente?) la dicitura “romanzo”. In ogni caso questo volume, uscito nel 2007, grazie a questo stratagemma, è detentore di un primato: è il primo (e unico?) fumetto ad essere entrato nelle classifiche italiane di narrativa.
Sulle pagine del supplemento del Corriere della Sera “La Lettura” [4], appare ogni settimana (o quasi) un fumetto di sole due tavole che la redazione definisce “graphic novel” (almeno così è scritto in cima alla pagina). Due tavole a fumetti fanno un “romanzo grafico”? Per “La Lettura” pare proprio di sì. «Ma così non ci si capisce nulla!», starete pensando. E infatti, avete proprio ragione...
Secondo alcuni, la differenza tra fumetto (seriale) e graphic novel (volume unico) è la stessa che c’è tra film e telefilm. Il film è per così dire “unico” ed ha una certa lunghezza (i cosiddetti “lungometraggi”), mentre i telefilm sono una “serie di piccoli film”, che si vedono però in tv e non al cinema. Qui il paragone potrebbe estendersi al “mezzo”, cinema e tv, ovvero al differente canale di distribuzione dei volumi rispetto ai fumetti seriali, i primi in libreria e gli altri in edicola.
Ad essere sinceri, la serialità non è una prerogativa solo del fumetto ma è presente anche in letteratura e in narrativa, genere al quale i romanzi grafici vorrebbero accomunarsi.
Prendiamo due famosi personaggi: il commissario Maigret e il detective Sherlock Holmes (ma potremmo citare anche l’italianissimo commissario Montalbano di Camilleri...).
George Simenon ha scritto ben 75 romanzi e 28 racconti che hanno come protagonista Maigret. Arthur Conan Doyle ha inserito il suo personaggio in 4 romanzi e 56 racconti.
Secondo altri la differenza sta negli argomenti trattati. Fumetto è sinonimo di prodotto senza contenuti (magari disegnato anche male) o con contenuti molto poveri e semplici, ovvero lettura disimpegnata e “per bambini”; graphic novel, viceversa, significa prodotto di qualità (anche nei disegni) che “parla” di diritti civili, tematiche sociali, di malattia, reportage di guerra, documenti storici, ovvero lettura impegnata e “per adulti”.
Per tornare all’esempio del film, il paragone si potrebbe fare tra i “cinepanettoni” alla Vanzina (fumetto) e le opere di Ettore Scola (graphic novel) ovvero: “Vacanze di Natale” versus “Una giornata particolare”. Però, film è l’uno e film è l’altro... ma c’è anche un’altra cosa da sottolineare: essendo i fumetti dei racconti per sequenze di immagini (vignette), la stesura della sceneggiatura si avvicina molto a quella dei film. Tiziano Sclavi, l’autore di Dylan Dog, ha dichiarato che ha sempre sceneggiato e strutturato le storie dell’indagatore dell’incubo come fossero dei film; e in un film che si rispetti non può mancare una storia d’amore all’interno della storia stessa. Con la differenza -ha aggiunto Sclavi- che, per vedere realizzato un film ci vogliono minimo due-tre anni di lavoro, mentre di Dylan Dog ogni mese esce in edicola un nuovo albo. Ed ecco anche spiegato (ed è sempre Sclavi a dirlo) il perché Dylan cambia una donna in ogni numero della collana.
In Italia è fumetto; in Usa è comic; in Francia e nei paesi francofoni è bande dessinée; in Argentina è historieta; in Spagna, tebeo; in Portogallo, quadriñho; in Giappone, manga.
Come nasce, allora, il termine “graphic novel”? La traduzione corretta in italiano è “romanzo grafico”, anche se qualcuno, in modo maldestro, talvolta ha tradotto “novella grafica”. Il dibattito è comunque sempre vivo: c’è chi si accapiglia persino sull’articolo da far precedere al termine. Si dice “la” graphic novel o “il” graphic novel? (Noi propenderemmo per la seconda ipotesi).
Non a caso, negli ultimi tempi, sono apparsi un numero cospicuo di saggi sul tema. Ne citiamo due: “Graphic Novel. Storia e teoria del romanzo a fumetti e del rapporto tra parola e immagine” di Andrea Tosti, un tomone di ben 1008 pagine (35 euro) pubblicato per Tunuè e “Graphic Novel. Il fumetto spiegato a mio padre” di Nicola Andreani (237 pp., 12 euro) per Nicola Pesce Editore.
(comunicazione di servizio: tenetevi accuratamente alla larga da simili “mattoni” e utilizzate i vostri soldi per acquistare piuttosto un bel volume a fumetti).
Ma torniamo alla domanda: da dove viene il termine “graphic novel”? Will Eisner, che possiamo considerare uno dei maggiori fumettisti al mondo, non amava il termine “comic book”, che veniva (e viene utilizzato) in America per indicare i classici albi a fumetti (quelli dei super-eroi Marvel [5] e DC, per intenderci). Si tratta di albi di 32 pagine a colori (17x26 cm.), stampati su carta poverissima (quella dei quotidiani), con un allestimento a punto metallico. Fascicoletti lontani anni luce, non solo per il formato (volumi in brossura) ma anche per le tematiche trattate da Eisner (povertà, dolore, amore, tradimenti, destini ineluttabili e crisi religiose) nelle sue opere, realizzate dalla fine degli anni ‘70 in poi, quando tornò, dopo una lunga pausa, a produrre fumetti: i coloratissimi super-eroi erano ben altro rispetto al suo inconfondibile tratto in bianco e nero. Qualcuno ha scoperto che la denominazione “graphic novel” era stata usata da altri prima di allora (Richard Kyle, George Metzer, Richard Corben), ma la diffusione del termine la si deve proprio ad Eisner. Lo usò per la prima volta nel definire il suo nuovo lavoro, pubblicato del 1978, “A contract with God”, volume a fumetti da lui scritto e disegnato [6]. Era proprio indicato in copertina: “A Graphic Novel by Will Eisner”. Da allora il termine fu utilizzato per indicare un determinato genere di fumetto e arrivò e fu adottato anche in Italia, quando “A contract with God” fu tradotto e pubblicato sulla rivista Eureka e poi volume, agli inizi degli anni ‘80.
Molto prima di Will Eisner, Hugo Pratt, quando scrisse e disegnò il primo episodio del suo Corto Maltese, non voleva chiamarlo semplicemente “fumetto” e quindi lo definì col termine di “letteratura disegnata”. Proprio quest’anno si festeggiano i cinquant’anni dalla pubblicazione del primo episodio di Corto “Una ballata del mare salato”, che apparve per la prima volta, nel luglio 1967, sul numero 1 della rivista “Sergente Kirk” delle Edizioni Ivaldi [7].
Se negli Usa esiste il formato “comic book” che la fa da padrone, in Italia il tipico albo a fumetti è il cosiddetto “formato bonelli” (16x21 cm.). Ma come nasce il “formato bonelli”? In principio il le dimensioni dei fumetti editi dall’editore Bonelli (allora si chiamavano Edizioni Audace), tra gli anni ‘40 e ‘60, erano “a striscia” [8]. Dal formato “striscia” si è passati all’attuale [9], definito “gigante” quando fu adottato per la prima volta. Come nacque? Semplicemente affiancando tre strisce in verticale.
Altro tipico formato italiano è quello “libretto” [10], lanciato da Angela e Luciana Giussani nel 1962 con Diabolik, il personaggio che inaugurò la stagione dei cosiddetti “neri italiani”.
Ma perché c’è stata -e c’è tutt’oggi- tanta riluttanza ad usare il termine “fumetto”?
In realtà, in Italia, la fama del medium fumetto non è mai stata buona. Ivo Pavone, disegnatore di origini tarantine, grande amico di Hugo Pratt, rivelò in un’intervista -sono parole sue- che in Italia, quando iniziò a disegnare, dopo la guerra (era l’epoca dell’Asso di Picche), quella di fumettista «era considerata una professione poco seria». Nel 1951 (chiamato proprio da Pratt, che era lì dalla fine della guerra) si trasferì in Argentina, proprio a causa di questa diffidenza nei confronti del fumetto. In Sudamerica -dove i fumetti o, se preferite, le historietas avevano tutt’altra considerazione- vi rimase fino al 1962, lavorando al fianco di Pratt, Guglielmo Letteri, Paolo Ongaro e moltissimi altri disegnatori italiani, sotto l’egida dell’Editorial Abril di Cesare Civita, un ebreo italiano rifugiatosi in Argentina dopo l’emanazione delle leggi razziali. Ivo Pavone, disegnò anche due western (“Hueso Clavado” e “Verdugo Ranch”) su testi di Hector Oesterheld (l’autore del fumetto-capolavoro “L’Eternauta”) e si affacciò alla ribalta internazionale. Se fosse rimasto in Italia, quale futuro avrebbe avuto?
Tiziano Sclavi racconta che sua madre (un’insegnante), quand’era bambino, i fumetti glieli bruciava («Ogni scusa era buona»). A Giancarlo Berardi, autore di Ken Parker e Julia, da ragazzo, i suoi genitori, quando lo sorprendevano a leggere fumetti, glieli strappavano e lui finiva in castigo.
Eppure, tra gli anni ‘60 e ‘70, sembrava che questa avversità nei confronti del Fumetto, dei “giornaletti”, come si chiamavano allora in senso dispregiativo, potesse essere superata. Nel 1964 esce il saggio di Umberto Eco “Apocalittici e Integrati” [11], nel quale il semiologo italiano analizza il tema della cultura di massa e dei mezzi di comunicazione di massa, includendo in esse anche il Fumetto. Nell’aprile 1965 arriva in edicola il primo numero della rivista “Linus” [12], che introdusse il concetto di fumetto “colto”. L’allora direttore, Giovanni Gandini, ospitò sulle sue pagine Oreste del Buono, Umberto Eco ed Elio Vittorini, impegnati a raccontare come i fumetti siano cosa «molto importante e seria». Nel 1965 (il 21 e 22 febbraio) ci fu anche il Primo Salone Internazionale dei Comics (manifestazione documentata proprio sul numero 1 di Linus) che si tenne a Bordighera (Imperia) e che dall’anno successivo si spostò a Lucca, diventando poi la Lucca Comics di oggi. In quella prima edizione, organizzata da un gruppo di docenti universitari, tra i quali figurava anche Umberto Eco, c’erano (arrivati apposta dall’America) Lee Falk e Al Capp, autori di Mandrake e Li’l Abner.
Dopo queste iniziative, sembrava che ci potesse essere uno spiraglio, che le cose potessero cambiare e che il Fumetto potesse essere considerato non più un prodotto solo per bambini o adulti deficienti e da commiserare.
Ma, se a tutt’oggi continuiamo a discutere sulla differenza tra fumetto e graphic novel, significa che la diffidenza nei confronti del fumetto purtroppo continua.
Se lo chiamiamo “graphic novel” (romanzo grafico), se lo distribuiscono nel circuito librario, se lo possiamo trovare in vendita anche nelle librerie Feltrinelli e Mondadori... allora possiamo comprarlo senza timore alcuno e leggerlo e senza vergogna di farlo?
Ok, va bene, con qualunque altro nome vogliate chiamarlo (graphic novel, romanzo grafico, letteratura disegnata...) e ovunque lo andiate ad acquistare (in libreria, su amazon, in edicola, all’ipermercato...) sappiate che trattasi, sempre e comunque, di... FUMETTO!
 



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