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DA GARZONE ALLA LAUREA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

13
SET
2018

Sono nato in una famiglia povera, anche se non conosco la povertà che vediamo spesso per strada. A casa mia non si moriva di fame e potevamo fingere di non esserlo. La nostra era una povertà piena di oggetti: televisione, telefono, macchina, lavatrice, frigorifero. Ma niente lusso, perché il lusso non ci apparteneva.
Era una povertà piena di vergogna, di scadenze, ansie, precarietà e si doveva abbassare sempre la testa. Si viveva una vita apparentemente normale agli occhi degli altri, ma in realtà eravamo soggetti a privazioni continue e costretti anche a mentire. Bugie a volte grandi, a volte piccole. Imparai anch’io a dire che il telefono di casa era rotto, invece i miei non avevano pagato la bolletta; che non potevo andare a una festa perché non mi sentivo bene, invece non avevo i soldi per il regalo; che la macchina era dal meccanico, invece non la potevo prendere perché non era assicurata o non c’erano i soldi per la benzina. E questo tipo di povertà inglobava anche la grossa macchia d’umido che si era formata in bagno; il cassetto della credenza che non si apriva più; la fòrmica del tavolo della cucina che andava a pezzi e il lampadario del salotto che aveva sì sei lampadine, ma che ne venivano accese solo due per risparmiare.
Sono cresciuto vedendo mio padre ammazzarsi di lavoro dietro il bancone della sua piccola salumeria, oppressa dai debiti e oscurata dai supermercati che le crescevano intorno.
Lavorava sempre, anche quando stava male e anche la domenica, quando era chiusa, andava a riordinare, sistemare, pulire. Poi ho anche capito perché la macchina di mio padre era intestata a mio nonno, il padre di mia madre, e chi fossero quei signori che venivano a casa a chiedere i soldi. I creditori.
Non siamo mai andati in vacanza. I miei genitori non se lo potevano permettere. Non c’erano i soldi. Mi portavano per una settimana in paese, dai nonni, e loro tornavano in città.
I soldi… Mio padre ne chiedeva in prestito a parenti e amici. L’ho visto umiliarsi ed essere umiliato. Lavorava, lavorava e lavorava sempre. Lo ricordo la sera mentre si addormentava a tavola guardando il telegiornale. La testa cominciava a cadergli lentamente in avanti, poi un colpo secco, come una scossa, e si svegliava.
Ricordo un sabato sera che siamo andati a mangiare la pizza. Era la prima volta che ci andavamo, e ho sentito mia madre che diceva:
«E lunedì, quando verranno i rappresentanti a chiederti i soldi, come farai?»
«Non lo so, ci penseremo. Oggi è il tuo compleanno e non voglio pensarci».
Tornando a casa in macchina, seduto dietro di loro, tra i due sedili, avrei voluto che quella serata non finisse mai. Ma il mattino dopo tutto era tornato come sempre. Era domenica: mia madre in casa a riordinare e mio padre in negozio a sistemare.
Terminata la terza media, ho finito di studiare e sono andato ad aiutare mio padre. E tutto è stato condizionato dal fatto che i miei non si potevano permettere la spesa per farmi proseguire gli studi. Sarebbe stato un ulteriore aggravio, e mio padre non se lo poteva permettere.
Avevo quindici anni e i miei amici uscivano assieme, andavano a giocare al pallone, al cinema. A volte passavano dalla salumeria a salutarmi, ma io rimanevo lì e potevo raggiungerli solo quando mio padre mi lasciava andare via prima. Poi, verso i diciotto anni, anche loro hanno smesso di uscire assieme. Qualcuno si è diplomato, qualcuno ha trovato lavoro, qualche altro si è trasferito, ma per me non cambiava niente, continuavo a lavorare lì, tra quelle quattro mura e la saracinesca.
E lavorando con mio padre mi sono reso conto della condizione in cui versavamo. Controllavo, mi informavo, e venivo a sapere. Ricordo le situazioni imbarazzanti e umilianti che mio padre ha vissuto. Ricordo tutte le persone maleducate e arroganti, abituate a essere forti con i deboli e deboli con i forti: gli ispettori dell’ufficio d’igiene, gli addetti annonari, i vigili. Non gli davano tregua. Per loro c’era sempre qualcosa che non andava. Una volta lo hanno multato perché non avevano trovato esposto il listino dei prezzi, un’altra perché nel retro avevano trovato della merce non sigillata a dovere. Io cercavo di protestare, di controbattere, ma mio padre mi zittiva e mi mandava via. Ma a me rimaneva una rabbia dentro che se avessi potuto avrei spaccato tutto.
Una volta, dopo la chiusura, mio padre mi ha dato dei soldi e mi ha detto di portarli di corsa a un creditore che aveva minacciato di protestarlo.
Gli ho portato il denaro e questo ha rovesciato la busta sulla scrivania e ha detto:
«La prossima volta dì a tuo padre di essere puntuale se no… E i soldi portameli in ordine, cos’è sta roba?»
Io avrei voluto spaccargli la sedia in testa, ma sono stato zitto. Stavo imparando a comportarmi come le persone che devono tacere e chinare sempre il capo.
Mio padre si svegliava prestissimo e alle sei la saracinesca era già alzata. Spesso dopo la sveglia io mi riaddormentavo, mi sembrava di essere appena andato a letto, e allora mia madre veniva in camera e mi svegliava. Mi alzavo subito e alle sette e un quarto ero già giù a dare una mano a mio padre che stava imbottendo panini, infornando pizzette e cornetti per gli operai e gli studenti che prima di andare a lavorare o a scuola passavano da noi.
Intanto gli anni scorrevano e continuavo a lavorare con mio padre. Ma non mi lamentavo: almeno io avevo un lavoro, a differenza di altri che alla mia età non studiavano e non riuscivano a trovare un impiego.
Un giorno, il mio amico Marino mi disse che era stato invitato alla festa per il diciottesimo compleanno di un suo compagno di scuola e io, che ci tenevo un sacco ad andarci, gli chiesi se poteva portare anche me. Lui rispose di sì, che non ci sarebbero stati problemi, che sarei potuto andare con lui, ma volle precisare che la festa si sarebbe tenuta in uno dei più lussuosi alberghi della città e per tanto era d’obbligo andarci vestiti bene, eleganti. Niente jeans, maglietta o giubbotto.
Non ricordo da chi sia riuscito a farmi prestare il vestito, con quali soldi abbia comperato la camicia e la cravatta, ma alla festa ci sono andato. Tutti i figli di papà erano lì, ed io con loro. Ed ero felice di trovarmi lì, a quella festa. Ero eccitato e cercavo di parlare con tutti, anche se nessuno mi filava. Come se ce lo avessi avuto scritto in faccia che ero povero. Avevano capito che non ero dei loro, e mi scansavano. Avevo il vestito, la camicia nuova, la cravatta, ma il problema non era quello, il problema erano gli accessori: le scarpe, la cintura e l’orologio che svelavano la mia vera identità.
A quella festa avevo conosciuto Valentina. Lei non si era comportata come gli altri, mi ascoltava, parlava volentieri con me e dopo dieci minuti ci eravamo già appartati e ci stavamo baciando. Alla fine della serata ero contento, euforico.
Il giorno dopo ho iniziato a cercarla. Conoscevo solo il suo nome, Valentina, nient’altro. Chiesi anche a Marino, ma lui mi consigliò di lasciar perdere perché era la primo genita di un pezzo grosso, un politico importante. Comunque grazie a lui sono riuscito a sapere dove abitava e a trovare anche il numero di casa sua.
Quando chiamai, mi rispose la madre.
«Buongiorno signora, sono Daniele. Posso parlare con Valentina?»
«Un attimo. Valentinaaa… è per te, Daniele». Silenzio. Poi è tornata da me e mi ha detto che in quel momento Valentina non poteva venire a rispondere, ma che potevo lasciare il mio numero.
Ho aspettato la sua telefonata con la paura che non richiamasse, che non si ricordasse nemmeno di me. Poi ho sentito squillare il telefono e mia madre che mi diceva:
«Daniele, c’è una ragazza che ti cerca».
Quello che volevo dirle lo avevo preparato e ripetuto almeno cento volte, ma in quel momento avevo dimenticato tutto.
«Chi sei?» Chiese.
«Sono Daniele. Non so se ti ricordi di me, ci siamo conosciuti alla festa. Cioè… ci siamo anche baciati».
«Certo che mi ricordo».
«Volevo chiederti se ti andava di vedermi… cioè, di vederci ancora».
«Certo. Più tardi, verso le sei, quando esco dal corso d’inglese, ci possiamo vedere in centro. Ti dico dove, va bene?»
«Sì, sì». Ho risposto, anche se non mi sembrava vero.
Quel pomeriggio ho trovato una scusa con mio padre e sono rimasto a casa a prepararmi e alle cinque ero già davanti al bar, dove mi aveva detto di aspettarla.
Con Valentina mi sono fidanzato e ci ho messo più di un mese a capire che era tutto vero, anche se continuavo a chiedermi perché stesse con me. Poi, con il terrore che qualcuno mi guardasse storto o si mettesse a ridere, sono andato anche a casa sua.
Valentina qualche volta passava a salutarmi. Io come la vedevo arrivare mi toglievo il grembiule e le andavo incontro con un gran sorriso. Al mattino scappavo dalla salumeria e andavo ad aspettarla sotto casa per accompagnarla all’università e, immancabilmente, ancora prima che uscisse dal portone, iniziavo a baciarla. Lei mi diceva che si stava facendo tardi, che aveva fretta, ma io continuavo a baciarla e quei baci e quelle mattine facevano ormai parte di noi.
Un giorno sono andato a prenderla, ho aspettato sotto casa un sacco di tempo e quando è salita in macchina, aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Cos’è successo?» Le ho chiesto.
«Niente, niente. Andiamo via, dai».
Ho insistito, e alla fine mi ha rivelato che sua madre non voleva che la frequentassi.
«Perché». Chiesi.
«Perché fai il garzone, perché non hai un titolo di studio e perché tuo padre è un salumiere». Mi rispose. E da quel giorno la madre, usando tutti i mezzi, scatenò contro di me una battaglia inaudita.
Chiesi a Valentina se la madre fosse preoccupata di vedere la figlia finire in miseria? Cosa avesse contro di me? Lei scosse la testa, ma mi pregò di evitare di chiamarla a casa.
Così, da quel giorno, i cellulari all’epoca ancora non esistevano, quando la riaccompagnavo a casa, non avevo più la possibilità di comunicare con lei.
«Vuoi che salga con te, che ci parli io? Così vede che sono un bravo ragazzo, che sono una persona apposto, e si tranquillizza?» Le chiesi un pomeriggio, prima di lasciarla sotto casa.
«Sarebbe inutile. Anzi peggio, perché non ti farebbe nemmeno parlare e comunque non riusciresti a farle cambiare idea».
Valentina aveva una sorella, fidanzata anche lei, ma di quella storia la madre era felice perché il ragazzo era della così detta “buona società”. Sgridava Valentina se rincasava dopo la mezzanotte, ma alla sorella non diceva nemmeno una parola se rincasava dopo di lei.
Una domenica pomeriggio, mentre stavamo nella mia cameretta, la madre ha chiamato a casa mia e ha detto a Valentina che voleva che andasse con loro, la sorella e il fidanzato a una festa.
Ero allibito, non potevo crederci, mi stavo arrabbiando, ma era comunque sua madre e non dissi niente.
«Devo andare a casa a cambiarmi, non posso raggiungerli vestita così».
«Va bene. Ti accompagno». Le ho risposto.
L’ho portata a casa, e per tutto il tragitto siamo rimasti in silenzio. Alla festa sarebbe andata senza di me e stavo male. Avevo paura che incontrasse qualcuno e in quell’occasione ho imparato cosa fosse la gelosia. Sono tornato a casa e mi sono messo le cuffie dello stereo. Avevo bisogno di spararmi della musica nelle orecchie. Per non sentire, per non pensare.
Una mattina stavo lavorando e sono andato a rispondere al telefono della salumeria.
«Pronto».
«Sono la mamma di Valentina».
«Buon giorno signora, sono Daniele, mi dica».
«Passami tuo padre che devo parlare con lui».
«Guardi che sono maggiorenne, signora, se deve dire qualcosa, può dirlo a me».
«Bene, allora lo dico a te. Non voglio. Anzi, esigo che tu non venga più a prendere mia figlia sotto casa. Non voglio che esca con te. Non voglio che venga a casa tua. Non voglio che la frequenti, e non devi più nemmeno chiamarla. Chiaro?»
«Mi scusi, signora, ma non capisco per…» CLIC. Mi ha chiuso il telefono in faccia.
Da quel giorno cominciai a stare male. Mi ritenevo un ragazzo a posto, volenteroso, serio e non riuscivo a capire perché la madre di Valentina mi trattasse in quel modo.
«Daniele. Sveglia, c’è gente. La signora sta aspettando te».
Mi ripeteva sempre più frequentemente mio padre, ma il rapporto tra noi si stava ormai riducendo a poche parole o a frasi evitate, fino a che una sera litigammo. Gli dissi che non sarei più andato in negozio, che volevo trovarmi un lavoro serio e che volevo anche riprendere a studiare, magari andando a una scuola serale. Mia madre si spaventò, non mi aveva mai visto così, e allora, per tranquillizzarla, sono andato a chiudermi in camera mia.
Con Valentina continuavamo a vederci, anche se di nascosto, ma un giorno, mentre la stavo aspettando vicino a casa sua, al suo posto si è presentata la madre e mi ha urlato:
«Forse non mi sono spiegata… Forse non hai capito, oppure pensi stia scherzando. Ho detto che non devi più frequentare mia figlia… Sono stata chiara? Hai capito? Pezzente».
Io, senza avere la forza di replicare, di reagire, sono rimasto impietrito al volante fin quando l’ho vista allontanarsi. Aveva vinto, aveva trovato il mio punto debole e mi sono arreso.
Ma forse è stato anche un bene, perché quelle parole mi avevano sì ferito e umiliato, ma anche spronato. Tornai sui banchi di scuola e in quattro anni riuscii a diplomarmi. Poi mi sono iscritto all'università e come un assatanato ho continuato a studiare. Studiavo e il mio unico obiettivo era di dare un esame dietro l’altro. Dopo la laurea ho trovato lavoro presso un’agenzia pubblicitaria, e lavorando in coppia con un collega, inventavo frasi e slogan per reclamizzare i prodotti che ci venivano sottoposti.
Adesso guadagno bene, ho cambiato lavoro e mi sono trasferito in una grande città e Valentina l’ho rivista una sola volta, l’estate scorsa, quando sono tornato per trascorrere qualche giorno con i miei genitori, ormai anziani. Ero seduto all’esterno di un bar, in attesa che il cameriere mi portasse la consumazione, quando la vidi avanzare verso di me, in compagnia di una sua amica.
Rideva e parlava ad alta voce, poi, quando i nostri sguardi s’incrociarono, ammutolì e si bloccò.
«Ciao Valentina. Come stai?» Le chiesi.
«Daniele, ciao. Che bello vederti. Bene grazie, e tu?»
«Bene, anch’io. Grazie». Risposi.
Mi disse che era un’ostetrica e che lavorava in ospedale.
«E sentimentalmente, come sei messa?» Chiesi.
«Sposata, separata, divorziata». Rispose e, non riuscendo a trattenerlo, buttò lì un ghigno».
«Be’, ciao. Mi ha fatto veramente piacere rivederti. Ti trovo bene». Mi disse.
Poi si mise sotto braccio all’amica e insieme si allontanarono.
Intanto il cameriere aveva portato il cappuccino e un cornetto, ma non avendo più voglia di stare lì, lasciai i soldi sul tavolino e mi allontanai.
 



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